Fiocco Carola - Gherardi Gabriella, Castelli e la sua maiolica, in Elena Ivanova e Maria Selene Sconci, Le maioliche di Castelli. Capolavori d'Abruzzo dalle collezioni dell'Ermitage, catalogo della mostra, Ferrara 2007, p.19-24
Questa mostra costituisce il seguito ideale di una precedente, intitolata “Da Castelli all’Ermitage”, curata da Vincenzo del Pompeis e corredata da saggi importanti sui documenti, sulle maioliche e sull’economia abruzzese dell’epoca. In quell’occasione fu fatta anche una ricostruzione biografica dei principali artefici castellani. Non vogliamo qui ripetere quanto è già stato detto in quel volume, ma soltanto puntualizzare alcuni aspetti e problemi della storiografia ceramica di Castelli, in questa introduzione necessariamente breve e sintetica.
Benché Castelli sia un centro piccolo e piuttosto isolato, la sua partecipazione alla storia della maiolica italiana è da vera protagonista, per i secoli che vanno dal XVI al XVIII.
Pochissimo si sa della produzione quattrocentesca, pur testimoniata dal rinvenimento di una certa quantità di materiale di scavo. Il punto di partenza è di conseguenza costituito essenzialmente da due complessi databili al secolo successivo, stilisticamente coerenti e di altissima qualità. Si tratta del mattonato che ornava un tempo il soffitto della chiesa castellana di San Donato, oggi in gran parte conservato nel civico museo, e del vasellame farmaceutico denominato Orsini-Colonna, disperso nelle principali collezioni e musei. A questi due nuclei vanno poi aggiunte targhe ed altri manufatti che contribuiscono al quadro complessivo di una produzione che dovette, a suo tempo, godere di notevole reputazione ed essere abbondantemente richiesta ed esportata.
I mattoni del soffitto di San Donato, rettangolari, lunghi circa una trentina di centimetri e larghi la metà, sono spessi e pesanti, interamente decorati all’infuori di due fasce laterali lasciate bianche, perché destinate a essere coperte dall’intelaiatura in legno.
Al centro dei mattoni, racchiusi entro cornici, campeggiano profili maschili e femminili, animali, stemmi, rosoni e scritte di significato morale o religioso, tracciate sia in caratteri gotici che capitali romani. Una miriade di ornati stilizzati riempie poi il resto dello spazio, e si stende liberamente sull’intera superficie: tralci di fogliette blu “alla porcellana”, infiorescenze di vario genere, rabeschi, rosoni, nodi, stelle etc.
I colori sono vivacissimi: sul fondo bianco spiccano per intensità il blu di cobalto, i gialli, gli aranci e i verdi in tonalità squillanti. Numerosi mattoni sono a fondo azzurrato, “berettino”, e in questo caso il tono generale appare più sobrio, quasi monocromo.
Il vasellame farmaceutico Orsini-Colonna trae il nome da una bottiglia biansata che si trova a Londra nelle collezioni del British Museum, sulla quale è raffigurato un orso che abbraccia una colonna, mentre una scritta commenta : ET SARRIMO BONI AMICI (saremo buoni amici)[1]. E’ sicuramente una scena emblematica, che allude a una riconciliazione fra le due potenti famiglie romane degli Orsini e dei Colonna, quasi sempre nemiche. I vasi, numerosissimi, sono tutti destinati a uso farmaceutico, e sono di forma chiusa, ad eccezione di un piatto e di una coppa[2]. Non costituiscono un unico corredo, bensì una tipologia. I corredi che ne fanno parte devono essere parecchi, poiché vi compaiono diversi emblemi. Le forme (brocche, vasi biansati su piede alto, albarelli, bottiglie) sono elaborate, con manici a torciglioni e becchi a drago, ed erano in origine fornite di coperchio. Lo smalto è lucido e vetroso, i colori vistosi basati sul blu intenso, il verde e il giallo arancio. La decorazione accessoria è quanto mai varia, di tipo vegetale stilizzato, mentre quella principale consiste soprattutto in busti maschili e femminili variamente abbigliati. Vi ricorrono però anche uomini e donne a figura intera, animali e scene vere e proprie di carattere storico, allegorico, mitologico. Fra gli stemmi, immediatamente riconoscibili vi sono quelli degli Orsini e dei Pappacoda[3]. Il cartiglio farmaceutico, con il nome del preparato medicinale, si trova generalmente nella parte inferiore del vaso, e la scritta è quasi sempre in caratteri gotici, meno spesso in caratteri latini.
In passato il vasellame Orsini-Colonna non aveva una collocazione precisa, e veniva collegato con molti dubbi ai centri più svariati, in particolare la Toscana, Faenza o Deruta. Eppure sarebbe bastata la qualità dello smalto, vetroso e che si scaglia con facilità, a mettere in dubbio queste attribuzioni. Quanto a Castelli, si credeva che avesse avuto una produzione di una certa importanza solo a partire dal Seicento, con la famiglia dei Grue. Prima era il vuoto, e malgrado emergessero dai documenti cinquecenteschi notizie sui ceramisti locali e sulla loro prosperità, nessuno era stato in grado di individuarne la produzione, a parte il mattonato di cui sopra e pochi esemplari isolati
L’attribuzione a Castelli fu da noi proposta per la prima volta durante un convegno sulla ceramica abruzzese tenuto a Castelli il 26 Agosto 1984[4] . Nella stessa occasione furono anche attribuite da Carmen Ravanelli Guidotti le cosiddette Turchine[5]. In questo convegno fu dunque restituita all’Abruzzo tutta una produzione cinquecentesca insospettata e di altissima qualità. In seguito l’appartenenza a Castelli dell’ Orsini - Colonna ricevette sempre nuove conferme e culminò in una mostra tenuta a Pescara nel 1989, il cui catalogo costituisce ancora oggi un utilissimo repertorio di immagini[6]. Formulammo l’attribuzione innanzitutto sulla base delle strette analogie fra il vasellame e i mattoni di San Donato. La presentazione di numerosi frammenti di scavo, pur di dimensioni minime, ci confermò che eravamo sulla strada giusta[7]. Fu però l’analogia col mattonato ad essere decisiva: mattoni e vasellame appaiono infatti con ogni evidenza dipinti dagli stessi artefici.
L’esecuzione del mattonato e del vasellame Orsini Colonna va collocata, a nostro avviso, attorno alla metà del secolo XVI, nell’ambito della bottega Pompei[8]. Orazio, che la gestiva a quel tempo, era nella sua piena maturità. Oltre a sovrintendere a quanto usciva dalla bottega e a coordinare i decoratori necessari, sembra abbia dipinto personalmente numerosi oggetti. Egli scrisse il proprio nome su uno dei mattoni, e su almeno due vasi. E’ inoltre autore di alcune targhe nelle quali emerge il suo inconfondibile stile, una con l’Annunciazione tratta da una stampa del Dürer, e un’altra con la Vergine e il Figlio firmata ORO e datata 1551, che costituiva l’insegna della sua bottega.
Circa la datazione del mattonato e dell’Orsini –Colonna non vi è accordo fra gli ceramologi. Il Ballardini [9] era convinto che il vasellame risalisse al 1511, anno della pax romana fra gli Orsini e i Colonna voluta da Giulio II. In questa occasione, a suo avviso, sarebbe anche stata coniata una medaglia, oggi al British Museum, con un orso che abbraccia una colonna, ricollegabile quindi alla bottiglia che dà il nome all’insieme. Tale data è però insostenibile, sia dal punto di vista stilistico che documentario[10]. Questi oggetti infatti hanno un inequivocabile aspetto manierista nei colori, nelle forme e nell’intonazione caricaturale di gran parte della decorazione, che li colloca attorno alla metà del secolo, periodo verso cui puntano anche le date sulle targhe, stilisticamente vicine, di Orazio Pompei. Gli abiti dei personaggi effigiati, inoltre, trovano precise corrispondenze nei ritratti del Bronzino, del Morone e di Antonis Mor. Di conseguenza l’ Orsini -Colonna non solo non può appartenere al 1511, ma deve essere posteriore anche al 1524, quando cessò la dominazione degli Orsini su Castelli. E’ probabile che l’abbraccio fra l’orso e la colonna alluda al matrimonio fra Marcantonio di Ascanio Colonna, futuro eroe di Lepanto, e Felice Orsini, avvenuto nel 1552. Sul portale del loro castello di Avezzano, non lontano da Castelli, si vede scolpito in pietra lo stemma Colonna affiancato da due orsi la cui iconografia richiama da vicino quella della bottiglia[11]. A questo matrimonio del resto, e non alla pax romana del 1511 sembra rimandare anche la famosa medaglia, secondo gli studi più recenti[12]. Il vasellame è, a nostro avviso, unitario, sia sotto il profilo stilistico che tecnico. Vi ricorrono le stesse forme e le stesse decorazioni accessorie, ad esempio nei retri. L’apparente arcaismo di parte della decorazione va semplicemente imputato alla partecipazione di più pittori, ciascuno con proprie caratteristiche[13].
Nella seconda metà del secolo, dopo il 1570, i modi dei maiolicari castellani subiscono un cambiamento profondo, determinato dall’adesione al cosiddetto stile compendiario, che estendeva allora la sua influenza su tutta la maiolica italiana. Tramontano i colori decisi e i contorni ben delineati; il segno acquista una nuova leggerezza, mentre la gamma cromatica diminuisce il suo impatto e tende a spegnersi, assestandosi su una prevalenza di blu e di giallo, cui si aggiungono in subordine il verde e il bruno di manganese. Il nuovo stile proviene da Faenza, e si accorda in genere con fondi di un bianco latteo, forme mosse e uno schema compositivo basato su un motivo centrale attorno al quale si svolge, quasi incorniciandolo, una ghirlanda stilizzata. Fra i primi esemplari in cui si manifesta questa tendenza vi è una targa con San Michele che sovrasta il demonio, datata 1566, nel Museo Duca di Martina[14]. La tipologia delle figure è ancora estremamente vicina a quelle Orsini – Colonna, ma i colori sono già compendiari. La penetrazione del nuovo stile è dunque precoce. Gli artigiani si aggiornano velocemente, come è inevitabile viste le committenze di rango elevato e la necessità di esportare la produzione in centri dell’importanza di Napoli, dove pare fosse molto apprezzata. Oltre a targhe, scrittoi, calamai, un posto di primo piano è occupato dal vasellame da farmacia: albarelli, bottiglie per acque medicamentose, brocche recano figurazioni sintetiche e di grande efficacia, su sfondi con alberi e paesaggi stilizzati.
Un aspetto particolarmente interessante del compendiario di Castelli in questa prima fase è l’applicazione dei tipici ornati, tracciati con leggerezza in bianco con tocchi di giallo o in oro, su fondi blu intenso o, meno spesso, verdi[15]. Sono le cosiddette Turchine, la cui attribuzione a Castelli è anch’essa frutto del convegno del 1984[16]. Furono eseguite con questa tecnica mattonelle, fra cui quelle che un tempo pavimentavano la chiesa di Santa Maria della Spina presso Isola del Gran Sasso. Si tratta di esagoni che si congiungevano a formare moduli di quattro attorno a un quadrato centrale. Il pavimento fu disperso alla fine degli anni ’50, ma il Polidori ricordava ancora in situ la scritta ANNIBALE POMPEO DAI CASTELLI / PER SUA DEVOTIONE A FATO MATONARE QUESTA CAPELA 15 L.XX.VI[17].
A fondo turchino furono anche eseguiti grandi servizi nobiliari, nei quali lo stemma è posto al centro, circondato da rosoni e ghirlande. Famoso è quello per il cardinale Alessandro Farnese, morto nel 1589, di cui rimangono numerosi esemplari. Il nucleo più cospicuo si trova nel museo di Capodimonte a Napoli, proveniente dal palazzo Farnese di Roma tramite l’eredità materna del re Carlo di Borbone. Ne fanno parte, tra l’altro, un piatto e una scodella che recano sul rovescio la data 1574[18]. Altrove è presente l’araldica degli Orsini, dei Peretti, dei Ghisleri. In questi servizi, accanto alla linearità di forma dei piatti risalta la ricchezza dei grandi rinfrescatoi, delle saliere e delle brocche, alcune delle quali, a elmo rovesciato, hanno il beccuccio sostenuto da grotteschi mascheroni a rilievo[19].
Le stesse forme sono utilizzate nella produzione compendiaria a fondo bianco, che prosegue per tutto il secolo XVII. Vi si evidenziano caratteri decisamente originali, che uniscono un gusto classico nella decorazione a forme spesso legate al grottesco. Oltre ai versatori con mascheroni a rilievo, in cui questo aspetto è palesemente accentuato, troviamo infatti bizzarre salsiere a navicella, tisaniere a due piani, acquasantiere plastiche etc.
Capolavoro di questa fase è il mattonato del secondo soffitto di San Donato, in massima parte ancora sul posto, sul quale compaiono le date 1615, 1616, 1617[20]. I mattoni, dipinti in stile compendiario con una predominante bicromia giallo-blu, presentano decorazioni estremamente varie e complesse, con figure maschili e femminili, animali, emblemi e scritte, e una quantità di riferimenti alla Madonna tratti dalle litanie o da frasi del Salve Regina, del Magnificat o dell’Ave Maria, dovuti probabilmente al fatto che la chiesa era sede della confraternita dei ceramisti, dedicata alla Madonna del Rosario. Vi è forte la componente popolare, e l’intenzione di parlare ai fedeli con un linguaggio immediato e diretto, la cui semplicità ha in realtà una funzione comunicativa di grande efficacia. La volta si inserisce infatti nel clima contro-riformistico, e nella volontà di propagandare la fede a livello popolare. Il cardinale Silvio Antoniano, uno dei protagonisti della Controriforma, era nato nel 1540 proprio a Castelli, ed è significativo che nel soffitto sia raffigurato il suo grande estimatore, San Carlo Borromeo (canonizzato nel 1610).
Nel corso del XVII secolo, quando il Compendiario è nel suo pieno sviluppo, ecco manifestarsi nella maiolica castellana un cambiamento altrettanto radicale: l’ istoriato acquista una nuova importanza, e si rinnova completamente. I colori divengono tenui, quasi autunnali, basati sui verdi, i gialli e gli azzurri. I modelli sono costituiti dalle stampe tardo-manieristiche e barocche, mediante le quali gli artigiani modernizzano lo stile e aggiornano i propri soggetti.
Iniziatore del genere fu Francesco Grue (1618-1673), personaggio di spicco di una famiglia di maiolicari che in seguito divenne famosa anche a Napoli e in Campania[21].
La prima opera nota, una mattonella con la Santissima Trinità datata1637[22], mostra un segno rigido e impacciato che produce un effetto di apparente arcaismo. Ben più evoluta e sicura è invece l’effige della Madonna di Loreto e santi nella pala conservata in San Giovanni Battista a Castelli, datata 1647. Vi persiste una certa durezza che appare connaturata allo stile di Francesco. La produzione più tipica della bottega, quella che ha promosso la fama dell’Istoriato castellano di epoca barocca, è però rappresentata dai piatti con scene di caccia e di guerra, immagini di santi, allegorie e trionfi, le cui tese sono ornate da complicate grottesche floreali o da trofei suddivisi in scomparti. Si tratta di veri e propri servizi, spesso contrassegnati da stemmi nobiliari, e talvolta arricchiti da lumeggiature in oro.
A questo proposito è qui opportuno puntualizzare la committenza di uno dei servizi più noti, magnificamente esemplificato anche in questa mostra. Si tratta di quello finora attribuito al vescovo Esuperanzio Raffaelli, della diocesi di Penne-Atri. Già il Rubini[23] dubitava che lo stemma, caratterizzato da un’aquila volante e da una scacchiera, fosse proprio quello del vescovo, nella cui arma l’aquila ha le ali abbassate e il capo reclinato e coronato, con 2 stelle filanti e un triangolo. Esso corrisponde invece perfettamente a quello della famiglia Ottoni di Matelica (v. illustrazione), sia per gli smalti che per le figure. E’ in fase di pubblicazione uno studio sull’argomento di Claudio Paolinelli[24], che ci ha segnalato le seguenti notizie biografiche su un prelato della famiglia Ottoni , Carlo Vincenzo[25], un protetto dei Barberini. Nominato Referendario di Segnatura, egli resse il governo di varie città fra cui Loreto. Nel 1671 divenne governatore di Ancona e fu nominato vescovo di Cesena. Acquistò inoltre il feudo di Faraone in Abruzzo, e questo implica familiarità con la regione. Nell’ambito della famiglia ci sembra quindi il candidato più probabile alla committenza di questo servizio che, d’ora in avanti, dovrà essere chiamato Ottoni. Esso è frutto della collaborazione fra Francesco Grue e la sua bottega, nell’ambito della quale spiccava la personalità del figlio Carlo Antonio.
Carlo Antonio Grue (1655-1723)[26] fu il più dotato fra i figli di Francesco. Si formò nella sua bottega, e con ogni probabilità collaborò alle sue opere tarde. Vi apprese la tecnica della lumeggiatura in oro, e ne coltivò l’adesione ai modelli barocchi. Con estrema abilità aggiornò il proprio repertorio sulle stampe di Luca Giordano e Pietro da Cortona, oltre che del Tempesta, dei Carracci e talvolta del Barocci. Per il paesaggio sembra piuttosto ispirarsi a Poussin, Tassi e Salvator Rosa. La decorazione accessoria a girali, grottesche e putti è quella che più caratterizza il suo stile. Essa appare molto vicina allo spirito di Jean Le Pautre, che diede la sua impronta alla decorazione del ‘600 francese, e a cui si ispira Francesco Bedeschini, dal quale molti bordi di Carlo Antonio derivano direttamente.[27] Questa sensibilità al gusto moderno e l’impronta internazionale determinarono un successo e un apprezzamento generalizzati[28]
Carlo Antonio fu probabilmente il maggiore interprete del barocco castellano, alle soglie del rococò. Attorno e dopo di lui si mosse una miriade di maestri maiolicari, a partire dai suoi discendenti e dai membri di altre famiglie importanti, quali i Gentili, i Cappelletti. Un cenno a parte merita, fra i figli, Francesco Antonio Saverio (1686-1746), molto studiato dalla ceramologia castellana. Notissime sono le vicende della vita, che lo condussero a Napoli, a Urbino, a Roma. Ci auguriamo che la rivalutazione, attualmente in atto, del padre Carlo Antonio non metta in ombra le novità dell’opera di Francesco Antonio il quale, per la sua cultura e per i soggiorni a Napoli, fu in grado di apprezzare e assimilare la grande stagione del preilluminismo napoletano. I suoi soggetti, dedicati ai commerci, all’esotismo e alle scene portuali, rivelano l’adesione a un gusto internazionale cui partecipano anche le principali manifatture ceramiche europee, specie di porcellana. E’ quasi una esaltazione della cultura borbonica dell’epoca, che cercava di aprirsi alla scena internazionale, e che ripiegherà su se stessa dopo la partenza del re Carlo per la Spagna.
A un gusto pienamente rococò, con decorazioni floreali anche monocrome, aderirono in seguito Silvio de Martinis (1731- 1772?) e la bottega Gentili[29], mentre Gesualdo Fuina introdusse importanti novità tecniche, come il rosa intenso della Porpora di Cassio, applicata a terzo fuoco.
Non ci soffermeremo oltre in questa breve introduzione. Come nel caso di Orazio Pompei, Francesco, Carlo Antonio e Francesco Antonio Saverio furono i maestri più originali, quelli che diedero l’impronta, che indicarono la strada, e che con la propria personalità artistica condizionarono tutta la produzione coeva e successiva. Giganteggiano nella memoria storica di Castelli, e impersonano le tappe fondamentali dell’evoluzione ceramica della città.
[1] Inv. MLA 1852, 11-29, 2, in Wilson 1987 a, n.219.
[2] San Pietroburgo, museo dell’Ermitage, qui esposto ; Washington, Corcoran Art Gallery, inv. 26.308, in Watson 1986 n.18 p.58.
[3] I Pappacoda sono una famiglia comitale di Castelli, mentre gli Orsini ebbero la signoria della città, con qualche interruzione, dal 1340 circa fino al 1525, con una breve ripresa di potere nel 1526, anno in cui Camillo Pardo Orsini perse definitivamente il feudo e ritornò a Roma, dove morì nel 1553. La conoscenza dell'araldica castellana è dovuta in gran parte alle ricerche di Aleardo Rubini.
[4]Le circostanze relative al convegno e all’attribuzione sono narrate in Fiocco- Gherardi 2002. Gli atti del convegno vennero pubblicati l’anno successivo dalla casa editrice Paleani di Roma (Antichi documenti sulla ceramica di Castelli). La relazione in cui fu collegato il vasellame Orsini Colonna con Castelli reca il titolo "Il corredo Colonna-Orsini nella produzione cinquecentesca di Castelli: proposte per un'attribuzione" (pp.. 67-104)
[5] Ravanelli Guidotti 1985
[6] Le maioliche cinquecentesche di Castelli 1989.
[7] De Pompeis C. 1984 e 1985
[8] O Ponpei, secondo la grafia dell’epoca. V. Rubini 1990 p.227-232.
[9] Ballardini 1936
[10] Fiocco - Gherardi 1986
[11] Fiocco - Gherardi 1990, p. 126
[12] Wilson 1990 pp.118-120, in cui l’autore espone la tesi del Weiss secondo cui il medaglione non può essere precedente al matrimonio fra Marcantonio e Felice Orsini.
[13] Un diverso criterio cronologico è stato seguito nel catalogo della mostra dell’89, in cui il vasellame viene suddiviso in quattro fasi a lloro volta ulteriormente suddivise al loro interno, sulla base di una presunta maggiore o minore arcaicità dell’insieme Per questa cronologia, v. De Pompeis V. 1990 e id., 2005. Un’obiezione precisa viene anche mossa a una datazione cinquecentesca del mattonato, in quanto vi figura lo stemma di Alfonso II duca di Calabria ancora privo dei gigli reali, che gli furono conferiti solo dopo l’incoronazione del 1494. Non ci fideremmo però della precisione araldica dei ceramisti, abituati ancora in questo periodoa manomettere e modificare gli stemmi come fossero semplici elementi decorativi. Nel caso specifico riteniamo possibile che il mattonato recuperi dalla decorazione della chiesa elementi araldici precedenti, per continuità e rispetto verso il passato, o per semplice comodità, avendoli sottomano. Fra la precisione araldica e la congruità stilistica, quest’ultima ci sembra decisamente da privilegiare, sostenuta anche dalle somiglianze con l’Orsini Colonna.
[14] Arbace 1996 n 131 p.105 e 106
[15] Sono a fondo verde, ad esempio, due piatti con lo stemma di alleanza Acquaviva- Ruffo (nozze fra Giosia, XII duca di Atri, e Margherita Ruffo, avvenute nel 1601)
[16] Ravanelli Guidotti 1985
[17] Barnabei 1876, p.743 Sono assai simili i pavimenti della Cappella Polverino nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli e della chiesa di San Pietro a Loreto Aprutino. Alcune mattonelle turchine sono emerse anche da cavi del Palazzo reale a Napoli (Arbace 2000 p.40).
[18] Arbace 2000 p. 32
[19] Nel libro dei conti di casa Farnese, per il maggio 1569, è registrato un pagamento ad Antonio da Castelli per una dotazione di 339 pezzi di maiolica (bacili bocchali tazze saliere piatti grandi mezzani). Secondo la Arbace, il maiolicaro è forse da identificarsi con Antonio Pompei (ibidem)
[20] V. La Sistina della maiolica 1993
[21] Per un’analisi della vita e dell’opera, v. Arbace 2000 e De Pompeis V. 2005
[22] la mattonella, un tempo conservata nel Municipio di Castelli, fu rubata nel 1977 ed è visibile solo in fotografia.
[23] Rubini 2006 p. 48
[24] Il titolo previsto è il seguente: “Gli Ottoni di Matelica e un servizio stemmato di Castelli”
[25] Passerini in Litta 1869, fascicolo 160, tav IV, voce: Carlo Vincenzo di Girolamo
[26] Per una analisi della vita e dell’opera, v. Arbace 2002 e De Pompeis V. 2005
[27] Arbace 2002 pp. 33-37 La stamperia romana di Gian Giacomo de’ Rossi alla Pace pubblicava raccolte di motivi decorativi che venivano molto utilizzate dai maiolicari castellani.
[28] Rubini 1999
[29] Battistella-De Pompeis V. 2005
Particolare di affresco dal Palazzo Ottoni di Matelica, con lo stemma della famiglia (scaccato di argento e di rosso, al capo di oro caricato di una mezza aquila spiegata di nero)