Carola Fiocco - Gabriella Gherardi, in Il lavoro ceramico, 1998, pp. 194-208..
La ceramica decorata comincia in umbria nel XIII secolo, sviluppando tipologie coerenti con quelle di tutta l'Italia centro-settentrionale, se non dell'intero bacino del Me diterraneo. Su forme semplici - versatori e ciotole in prevalenza, ma anche bacini biansati e albarelli - gli ornati vengono tracciati in bruno di manganese e verde di rame; il fondo bianco è ottenuto mediante smalto o, meno spesso, mediante ingobbio rivestito di vetrina trasparente.
Il repertorio decorativo, reso con maggiore o minore elaborazione e finezza, partecipa dell' eccezionale vivacità e fantasia che caratterizzano la decorazione gotica, quale appare con particolare evidenza nelle parti di contorno di miniature, affreschi, rilievi marmorei, intarsi. Già nel XIII secolo è tutto un fiorire di rosoni, giri di fogliame, intrecci, fra i quali si dispongono pesci, uccelli e quadrupedi, ma anche sirene, .arpie, pesci dalla testa umana. E tutto un mondo fantastico, che spesso attinge a repertori antichi, etruschi e romani, pervenuti attraverso la glittica e le monete; per loro tramite viene introdotto un contributo non di "belle figure" divine ed eroiche, bensì di elementi bizzarri e grotteschi (1), che avranno inesau ribile successo.
Convergono inoltre nella cultura figurativa gotica elementi islamiei che ne divengono parte integrante; essi si sovrappongono e si confondono con quelli classici, che a loro volta acquistano sfumature esotiche; in questo caso i tessuti sono spesso la principale fonte di trasmissione, assieme all' oreficeria.
La ceramica partecipa di questa ricchezza decorativa, e, per quanto in maniera più modesta, si orna anch'essa degli stessi rosoni e viluppi. L'impressione di arcaica semplicità che talvolta se ne riceve è legata più che altro alla forzata bicromia verde-bruna, e a un segno di contorno generalmente pesante, anche se le fonti figurative sono naturalmente le stesse di tutta la decorazione coeva. Chi forniva disegni alle botteghe o dipingeva sulla ceramica non è escluso che prestasse la sua opera anche per altri materiali.
Fra i motivi
dell'Oriente musulmano che a
partire dal XIII secolo si
inseriscono con
maggiore intensità nella
decorazione gotica, compresa quella
ceramica, ricorderemo la
mezza foglia
appuntita detta "rumi",
simile a una lama, terminante a
volte con un fiorone, che
forse in origine apparteneva al
repertorio bizantino (2). Le
stesse lettere cufiche vengono talora
utilizzate, prive però,
nell'Occidente cristiano,
dell' originario
significato' assumendo una funzione
puramente ornamentale con terminazioni a fioroni o
palmette. Gli intrecci più o meno
complessi, che si sviluppano in
nodi e rosoni, i
quadrifogli inscritti
in quadrati, le file di
losanghe e di cuori che si
intersecano giungono
anch'essi ai decoratori due e
trecenteschi dall'
ornamentazione musulmana.
Nella
ceramica non hanno la complessità spesso
riscontrabile altrove, ad
esempio nella miniatura, ma
sono comunque riconoscibili nei
rosoni collocati al centro di
ciotole e piatti, nelle
bande che si intersecano in
ritmi allentati dando luogo a
stelle e nodi di
vario tipo, nella
"treccia" che
costituisce una delle
caratteristiche più diffuse
attorno al collo delle forme chiuse. Dai
tessuti, dal
rame incrostato,
dall'avorio e dal legno proviene
anche il medaglione
quadrilobato
che talvolta
racchiude un motivo
principale, anche se la
distribuzione più comune delimita
con linee parallele una specie
di spazio rettangolare che va da un lato all'altro del manico, separando quindi una fascia centrale dal piede, che in genere non viene neppure smaltato, e dal collo.
Spicca nella produzione orvietana un motivo spesso a rilievo, che può essere interpretato come una delle tante versioni dell'Albero della Vita. Si tratta di uno stelo che sorregge un busto umano o una testa, affiancato da altri due steli che terminano in una pigna, o forse in un grappolo d'uva (3). Si tratta anche in questo caso di un motivo ben conosciuto nel Mediterraneo antico, che si diffonde in forme soprattutto orientali e in infinite varianti, di cui questa orvietana è sicuramente una delle più semplificate.
Gli apporti derivati
dall'antichità sono particolarmente sensibili in
Umbria, dove si legano spesso
all'archeologia etrusca.
Così nella zona di Orvieto, che appare
figurativamente legata
a Tuscania, Bolsena e Viterbo piuttosto che
all'Umbria settentrionale,
e dove abbondano le
raffigurazioni complesse, troviamo
spesso la sirena
bifida incoronata,
probabilmente derivata dalla ben
nota tomba di Sovana. Accanto ad
essa, sirene, regine, tritoni, sfingi coronate
mostrano una
originale interpretazione di motivi
iconografici derivati
dall'antico. E possibile trovare
reminiscenze
classiche anche nelle
stesse forme dei bacini biansati, e
nelle piccole coppe che
richiamano gli
antichi scifi, mentre le
bottiglie-versatori popolarmente
chiamate "truffette" riprendono
alla lontana la forma dell'
oinochoe. Più a nord, ad
Assisi, Deruta e Perugia, a parte il
copioso repertorio di uccelli
presenti soprattutto sui
boccali assisiati, e che
saremmo tentate di
collegare alla mitologia
francescana, vi è un prevalere
di motivi vegetali e
geometrici astratti, di cui forniscono un esempio un boccale rinvenuto a Perugia, attualmente nelle collezioni del Museo Internazionale delle Ceramiche, con due grandi rosoni quadripetali (4), e i frammenti di scavo da Deruta.
Anche l'araldica, che nel
XIII secolo comincia a definirsi nella sua
sterminata e varia casistica di emblemi, metalli e colori,
compare sulla ceramica a richiesta del committente, o come
generico omaggio a una famiglia dominante. A
Orvieto lo stemma dei Monaldeschi e quello dei Farnese
sono i più comunemente rappresentati (59); è sorprendente,
però, la frequenza con la quale essi
risultano deformati, fatto che può essere segno di
incultura, ma può dipendere anche dai limiti
tecnici, specie nella gamma dei
colori, e dal fatto che gli stessi stemmi
fossero ancora soggetti ad
oscillazioni.
Per alcuni casi
particolari si è formulata l'ipotesi che i
ceramisti lo facessero intenzionalmente
allo scopo di aggirare i divieti
alla rappresentazione di stemmi
sul vasellame, a loro volta
causati forse da un uso eccessivamente disinvolto dell'
araldica, al punto da divenire
offensivo. Potrebbe essere avvenuto così per lo stemma dei
Monaldeschi, la potente famiglia orvietana
le cui bande
rastellate divengono di frequente
sbarre, dando luogo al cosiddetto
"Monaldeschi alla
rovescia". Anche il tono dei colori
viene talvolta invertito, sovrapponendo
al campo chiaro motivi scuri e viceversa, e creando ulteriori
difficoltà al riconoscimento.
I limiti tecnici che impediscono ai maiolicari due e trecenteschi di corrispondere in pieno alla esuberante ricchezza della decorazione gotica scompaiono almeno in parte nel xv secolo, con l'arricchimento graduale della gamma cromatica.
l. Piatto da pompa con giovane che imbraccia uno scudo e si appoggia
a un 'asta, entro tesa a foglie bipartite incurvate, Deruta, seconda metà del XV secolo.
Londra, British Museum.
Già sul finire del XIV secolo fa la sua comparsa il blu, ottenuto dal minerale di cobalto; successivamente abbiamo il prevalere del giallo, spesso in una accesa tonalità aranciata. I colori vengono inoltre sfruttati in tutte le loro tonalità, creando azzurri luminosi e blu intensi, viola chiari e marroni così scuri da sembrare neri.
L'arricchimento cromatico fa sì che la maiolica si metta al passocon le altre arti applicate, acquisendo una sempre maggior raffinatezza ed eleganza. Si introducono nuovi ornati, già da tempo presenti in stoffe e miniature, ma che la ceramica assimila soltanto nella fase più tarda del Gotico, quella ormai pienamente quattrocentesca: occhi di penna di pavone, raggere e fiamme che spesso circondano il Trigramma bernardiniano, foglie accartocciate, acuminate, tralci di rosette. Frammenti così decorati sono emersi dal sottosuolo di Gubbio e Orvieto, testimoniando una produzione quattrocentesca legata più che altro al vasellame d'uso, e che probabilmente suppliva al fabbisogno locale. Tutt'altro discorso per Deruta, che fin dalla metà del secolo sembra distaccarsi dagli altri centri umbri mediante una produzione spesso figurata, e l' acquisizione della nuova tipologia del piatto da pompa, destinato a un enorme successo, in cui si concentra l' abilità dei ceramisti (6).
Se non è ancora possibile pronunciarsi sulla produzione della prima metà del secolo a causa degli scarsi reperti, nella seconda il clima culturale e artistico del Gotico internazionale si manifesta non solo negli ornati, ma anche nelle scene principali, in cui compaiono allegorie di amore cortese e giovani in vesti da paggio, talvolta collegati all'araldica. Così, su un piatto del Museo Dubouchè di Limoges, un ragazzo elegantemente vestito regge la spada e uno scudo su cui campeggia la "penna" degli Arcipreti (7); la tesa presenta un caratteristico ornato a tralcio graffiato sul manganese, mentre la figura, come spesso avviene in questo periodo, è incorniciata da un profilo che ne segue sinteticamente i contorni, e lo spazio così delimitato è costellato da gruppi di tre puntini. Un altro piatto ben più noto, nelle collezioni del British Museum di Londra (8)
(fig. 1), reca anch'esso una figura di giovane con scudo che si appoggia ad un'asta; in questo caso, l'ornato della tesa è a foglie bipartite triangolari, un po' inclinate, anch'esse ricorrenti nel repertorio dei vasai derutesi verso la fine del xv secolo. A quest'ultimo piatto è molto vicino, per la forma e gli ornati della tesa, un altro esemplare da pompa, al Victoria and Albert Museum di Londra, dall' iconografia insolita e affascinante: due bambini, appoggiandosi uno sulla schiena dell' altro, tentano di raccogliere i frutti di un albero, mentre un angelo a cavallo di una civetta li osserva, e su un cartiglio è scritto "E NON SE PO MA GIARE SENZA FATIGA" (9). Potrebbe, a nostro avviso, trattarsi di un'allusione alchemica al Ludus Puerorum, rappresentazione simbolica dell'Opera come gioco infantile, che nell'apparente semplicità nasconde la reale difficoltà. Legata invece alla volgarizzazione di temi neoplatonici, che da ristrette cerchie di dotti scendono proprio ora alla portata di un pubblico più ampio, è la enorme diffusione che hanno, sul finire del secolo, gli emblemi allusivi all' amore, e spesso alla pena d'amore: cuori trafitti, mani che si stringono, occhi che piangono sembrano rispecchiare una moda diffusa. Essi, assieme alle "belle donne" o ai cartigli con nomi femminili, trovano posto sia nei piattelli e vassoi da acquereccia a lustro e policromi della produzione derutese che in quella già pienamente cinquecentesca di maestro Giorgio Andreoli, il grande ceramista eugubino; quest'ultimo utilizza spesso, al centro di coppe e piattelli, anche il tema specificamente neoplatonico dell'amorino bendato e legato che simboleggia l'amore terreno, in contrapposizione a quello celeste (10).
Nella seconda metà del Quattrocento i ceramisti umbri utilizzano la tecnica del lustro, sono cioè in grado di applicare sul vasellame una patina metallizzata ramata o dorata, che lo impreziosisce, a somiglianza dei prodotti di Valenza e Manises. E difficile precisare il momento esatto, anche se alcuni studiosi sostengono che ciò avvenne assai presto, poiché un' ordinanza del Comune già nel 1465 vietava ai derutesi di intralciare le strade con i fasci di ginestre, usati per questo particolare tipo di cottura (11)I. In ogni caso, anche se gli esemplari datati sono tutti degli inizi del XVI secolo, il lustro a Deruta era già noto in precedenza, come dimostra un albarello di tipologia quattrocentesca che ne è vistosamente arricchito (12). Esso è dunque legato inizialmente alle tipologie tardogotiche anche se, con quell 'unica eccezione, sulla quale assume un tono nettamente ramato, i reperti a noi noti sono ormai rinascimentali. La documentazione d'archivio conferma il dato, poiché la parola "maiolica", che indicava allora il lustro, compare spesso a qualificare la produzione dei Masci, la potente famiglia di ceramisti derutesi che a cavallo fra i due secoli si distinguono per prosperità e volume di affari sugli altri vasai derutesi (13).
Il passaggio al Rinascimento si
avverte verso la fine del xv secolo con
la tipologia
chiamata dal Rackham
"Petal-back"(14). Caratterizzata
sul retro delle forme aperte da un
motivo a petali radiali che si
rifà ancora all'''occhio
di penna di pavone", essa
mostra però nella decorazione
principale una sensibilità
nuova, soprattutto per l'ordine
e la simmetria un po'rigida con cui si
susseguono gli ornati
geometrizzanti o
vegetali stilizzati disposti
a fasce concentriche.
Talvolta interviene la
suddivisione in scomparti
radiali, destinata a
rimanere fra le preferite.
Oltre alla disposizione, gli
stessi specifici ornati -
festoni, embricazioni, lunghe foglie
frastagliate simili all'acanto,
cordonature - sono indizi di un
rinnovamento del repertorio
decorativo, ancora più esplicito
nei medaglioni con teste spesso di
profilo armate di elmo o incoronate
di alloro.
Subito dopo l'inizio del nuovo secolo nella ceramica umbra, in particolare a Deruta, iniziano a farsi sentire gli influssi delle mode archeologi che diffuse tra gli artisti romani nel decennio precedente. Fanno la loro comparsa infatti, già negli albarelli farmaceutici con la Testa di moro datati 1501-1502, girali e grottesche ispirati a quelle della Domus Aurea, di recente scoperta, oppure scene di battaglia che sembrano tratte dai bassorilievi romani, mediate però attraverso il gusto e le proporzioni un po' ingenue delle xilografie sui libri illustrati. Verso il 1507 l'autore di un notissimo corredo farmaceutico, il cosiddetto "Servizio caricaturale", può permettersi di accentuare il gusto realistico e ironico con cui i temi classici vengono interpretati, sottolineandone l'effetto grottesco e conservando al tempo stesso una notevole eleganza cromatica, che mantiene il colore entro la gamma dei blu, dei gialli e dei verdi di tono freddo.
Nella ceramica derutese si
manifesta quindi
molto presto uno spiccato
classicismo, tradotto in un
linguaggio elegante ma
decisamente lineare e
bidimensionale, particolarmente
adatto all'uso del lustro
metallico, che con le
sue campiture dorate
non si presta ad effetti
tridimensionali. Esso
trova un riferimento culturale
elevato nell' opera dei
grandi artisti umbri, come il
Perugino e il
Pinturicchio; quest'ultimo in
particolare otrebbe essere il
tramite mediante il quale
vengono introdotti
precocemente elementi
classicisti nella
cultura figurativa umbra,
se non addirittura in quella italiana.
Ha infatti
origine da alcuni
suoi cicli, come quello
dell'Ara Coeli e di
Santa Maria del Popolo a
Roma, cui collaborò anche il
bolognese Ripanda, l'uso
decorativo dei temi
della Domus Aurea
nell'arte italiana. Anche il
Ripanda, pittore ancora in
parte
misterioso nella sua
formazione, avrà in seguito
un'enorme importanza
nella diffusione di temi e modi
classici nell'arte
applicata e nella ceramica in
particolare, per mezzo
di taccuini e disegni usciti dalla
sua bottega.
Il suo rapporto con l'Umbria non passa soltanto attraverso la collaborazione col Pinturicchio, ma anche attraverso l'attività orvietana degli anni 1480-1490, peraltro ancora da chiarire (15).
In questo periodo, che dalla documentazione d'archivio appare ancora dominato dai Masci, emerge la personalità di un decoratore a cui non è possibile dare un nome, ma che si mostra perfettamente in grado di padroneggiare un genere difficoltoso come l "'istoriato". Si tratta, fra le decorazioni ceramiche, di quella che rispecchia più direttamente le arti figurative maggiori; consiste infatti nel dipingere vere e proprie storie di vario genere su piatti, coppe e persino forme chiuse.
Presente già nella seconda metà del xv secolo, trova la sua massima diffusione nel XVI, quando l'oggetto è valutato non soltanto in vista della sua funzione, ma per una fruizione estetica.
Il maestro in questione è autore di un piatto da pompa oggi nel Museo Nazionale di Ravenna con la Crocifissione circondata da medaglioni con Scene della Passione, tratte probabilmente dalle illustrazioni di un Vangelo (16). Egli si esprime in un linguaggio apparentemente ingenuo ma assai efficace, dalle molteplici figurette semplificate e vivacissime, variabili nelle proporzioni, disposte bidimensionalmente nella composizione centrale, che peraltro è complessa e compositivamente equilibrata, anche se il pittore mostra di padroneggiare piuttosto bene lo spazio nelle scenette di contorno. Molti personaggi indossano abiti coevi all'autore, ma quelli in armatura sono chiaramente connotati come soldati romani.
Sembra appartenere alla stessa mano anche un disco con scena di battaglia conservato nelle collezioni del British Museum di Londra, tratto forse da un'illustrazione delle Cronache del Sercambi, mentre, sopra un albarello del già citato servizio Testa di moro, datato 1501 e anch'esso nello stesso museo, è raffigurato con modi affini un combattimento di soldati in antiche armature (17).
La brulicante vivacità del Maestro della Passione di Ravenna costituisce però a quest'epoca un episodio isolato, mano a mano che i ceramisti derutesi appaiono sempre più attratti dai tipi e dai manierismi della grande pittura
umbra a cavallo fra i due secoli, e si esercitano quindi in figure più armoniose e monumentali.
Più tarda, ma limitata probabilmente alla prima metà del secolo è 'attività di un maestro che trasferisce nei piatti da pompa le inconfondibili immagini del Perugino e del Pinturicchio: angeli annuncianti, Madonne, profili femminili dai fluenti capelli annodati, figure eroiche tratte dal repertorio del Cambio, circondate da lunghi cartigli arrotolati alle estremità ricalcano la dolcezza e la grazia un po' stereotipate che caratterizzano l'espressione pittorica, la cui influenza persiste a lungo a livello locale e nelle arti applicate.
I grandi cicli in luoghi pubblici a tutti facilmente accessibili, quali quelli del Cambio, e le pale
di Perugino e Pinturicchio presenti a Perugia e dintorni sembrano aver ispirato direttamente i ceramisti, che ne ricavano numerose
figure.
Un'altra grande fonte di ispirazione furono gli affreschi degli Appartamenti Borgia in Vaticano, probabilmente noti attraverso i taccuini di disegni che con
tanta frequenza circolavano in quel periodo, sia presso gli esteti e gli umanisti che presso le botteghe artigiane.
Ispirato al Signorelli appare invece l'autore dello stupendo piatto con l'Annunciata di Washington (18), cui vanno collegate diverse altre opere di impianto altrettanto solido e volumetrico.
Il legame con la pittura passa per lo più attraverso incisioni, anche illustrazioni di libri. Non mancano però casi di derivazione diretta da affreschi o dipinti, qualora fossero esposti al pubblico e facilmente visibili. Un altro tramite attraverso cui perviene alle botteghe il materiale pittorico è probabilmente lo smercio dei disegni e cartoni preparatori, una volta utilizzati per il loro scopo primario, oppure di disegni fatti appositamente dopo che gli affreschi erano stati ultimati, per dare loro maggior diffusione, come sembra essere avvenuto per gli affreschi di Orvieto del Signorelli (19).
Non mancano esempi, per ora limitati alle Marche, di pittori impegnati a fornire disegni appositamente per le maioliche, come nel caso di Girolamo Genga e Battista Franco (20). Di conseguenza la decorazione ceramica rispecchia con una certa precisione il gusto pittorico dominante, e ne segue l'evoluzione, traendone non solo l'iconografia, ma spesso anche lo stile.
A Deruta il rapporto con la pittura raramente si manifesta in scene complesse, anche se non mancano esempi di alto livello; infatti la tendenza che prevale è quella di estrapolare le singole figure dalle scene che le stampe forniscono, e isolarle su uno sfondo caratterizzato da rilievi conici con torri o edifici in cima, probabile stilizzazione del paesaggio umbro.
E’ possibile che non sia estraneo a questa scelta l'uso stesso del lustro, che per sua natura condiziona lo stile, risaltando maggiormente su figure semplificate e
bidimensionali. I ceramisti assecondano dunque e sviluppano le potenzialità stilistiche del mezzo tecnico cui sono maggiormente affidate la fama e
l'unicità della loro produzione; soltanto in Umbria infatti il lustro trova una applicazione così ampia e duratura.
Anche in questo la ceramica appare perfettamente sintonizzata col gusto per le dorature e gli inserti preziosi che caratterizza la pittura, ad esempio del Pinturicchio,
così apprezzato dai vasai derutesi.
Ne risulta un aspetto arcaizzante ma sontuoso nella sua luminosità, che sembra appagare i committenti e che decreta l'enorme successo della produzione
da pompa in tutto lo Stato della Chiesa (21).
A partire dal terzo decennio del Cinquecento si diffonde fra i ceramisti, pur senza che questi rinneghino del tutto la precedente "maniera umbra", un nuovo tipo di classicismo maturo, ormai di ascendenza raffaellesca, grazie alle stampe degli incisori della cerchia di Raffaello, soprattutto Marcantonio Raimondi e Marco Dente da Ravenna, che dell'opera del maestro furono i grandi divulgatori. Ne risultano nuovi modelli, ma anche l'elaborazione di un nuovo stile, monumentale e classicheggiante.
E ora attivo a Deruta quello che può essere considerato il più abile fra i pittori maiolicari, il Maestro del Pavimento di San Francesco, la cui produzione comprende anche istoriati di altissima qualità, come il piatto dell 'Ermitage con Clio ed Erato, e quello del Museo di Ecouen con la Trasformazione di Atteone (22). Il suo capolavoro è però il pavimento da cui trae il nome, che reca la data (non sappiamo se reale o celebrativa) del 1524, e attinge ad almeno tre tipi di fonti iconografiche: quella peruginesca, quella tardo-quattrocentesca dei naibi detti Tarocchi del Mantegna, e quella pienamente cinquecentesca di Raffaello e dei bassorilievi antichi tramite stampe del Raimondi (23) (fig. 3). Il pavimento è dunque un buon punto di osservazione per esaminare in che modo un maestro di grande sensibilità come quello che ha decorato la maggior parte delle mattonelle recepisca stili diversi e modifichi il proprio in relazione ad essi. L'elemento che sembra contraddistinguerlo, accanto alla persistente influenza della pittura umbra, è proprio l'assimilazione del classicismo raffaellesco, che
con la sua opera penetra per la prima volta nella cultura figurativa derutese. La sua maniera ha ormai perduto anche il ricordo della brulicante vivacità del piatto di Ravenna: si presenta invece armoniosa' solenne, dal tratto elegantissimo e freddo, nella dominante bicromia giallo-azzurra. Il classicismo e la compostezza dello stile raffaellesco vengono assimilati dal maestro, che si presenta così come uno dei protagonisti . più colti e raffinati della maiolica derutese della prima metà del Cinquecento. Vicinissimo a lui, al punto da esserne talora confuso, il Painter of the Diruta Plate ne condivide l'incisività del segno e il nitore delle fisionomie (24). Con lui il tema della grottesca si fa più complesso, giungendo ad elaborati insiemi "a candeliere", e andrà poi sviluppandosi in modo sempre più articolato fino alla metà del secolo e oltre, sia in forma di girali su alcuni piatti a rilievo, sia in complicati motivi "a tappeto" sulle pavimentazioni eseguite nella bottega Mancini.
Un'ulteriore tappa nell'evoluzione dell'istoriato derutese è segnata dall'attività di Giacomo Mancini detto "il Frate", col quale si verifica l'incontro fra la maniera derutese e quella urbinate. A partire dal 1520 circa la maiolica urbinate adottò in maniera massiccia la decorazione a storie, probabilmente assecondando le esigenze di una committenza particolarmente elevata; si volse però in tutt'altra direzione rispetto a quella derutese, valorizzando la stampa nella sua integrità compositiva e spaziale, e vivacizzando l'insieme con colori vari e brillanti. L' incontro fra questo tipo istoriato e il lustro ebbe luogo soprattutto nella bottega di maestro Giorgio da Gubbio, con risultati di grande originalità e interesse; esso però avvenne anche a Deruta, in relazione a tre episodi: la presenza nel 1537 di Francesco Urbini, reduce da un'esperienza eugubina (25); le commissioni per i pavimenti della Rocca Paolina di Perugia, per i quali vennero impegnate smultaneamente maestranze derutesi, urbinati ed eugubine; il trasferimento a Montebagnolo di Perugia dei decoratori urbinati Fedele Fulmine e Francesco Durantino (26).
Questi tre avvenimenti, tutti racchiusi entro un lasso di tempo che va dal 1537 al 1556 circa, sembrano esercitare la propria influenza sul
"Frate", che in quel periodo occupa una posizione preminente nel panorama derutese. La prima fase della sua attività è infatti legato a una serie
di "istoriati" eseguiti alla maniera urbinate, cioè con scene tratte integralmente da illustrazioni
delle Metamorfosi di Ovidio e dell'Orlando Furioso, e
debitamente spiegate sul retro, nelle quali egli non rinuncia a una ricca tavolozza anche quando vi applica sopra il lustro (fig.
4). La quasi totalità di queste opere reca la data 1545, e lo stile del maestro si presenta un po' rigido, con figure
dagli occhi fissi e dai movimenti lievemente impacciati. L'adesione alla stampa è puntuale, ma in un certo senso scolastica.
Passata la metà del secolo si avverte invece un sensibile cambiamento, che porta da un lato a una maggiore monumentalità delle figure,
dall'altro a un brio narrativo disinvolto e piacevole, dalla cromìa calda in cui dominano i gialli e gli aranci. Punti fermi di
questo nuovo stile sono i due pavimenti di San Pietro a Perugia e Santa Maria Maggiore a Spello (1563 e 1566), e lo stupendo piatto del Museo Alexis
Forel di Morges, datato 1564; su quest'ultimo è la raffigurazione del Parnaso,
tratta da un'incisione
di Giorgio Ghisi, arricchita liberamente di elementi di paesaggio e, nel prato sottostante, di erbe e animali (27).
Accanto a questo e altri esemplari di altissima qualità, che mostrano il pittore ormai pienamente padrone dei propri mezzi, in grado di tradurre il modello grafico in un linguaggio proprio, fortemente caratterizzato ed espressivo, troviamo poi numerosi piatti da pompa, vassoi e versatori che mostrano le stesse stilizzazioni, ma eseguite in maniera più corsiva, con molta minore finezza. Le figure vi sono descritte in maniera affine - volti larghi con guancie sottolineate da tocchi di colore, capelli a ciocche, membra dai muscoli ben evidenziati - ma con una certa trascuratezza, che probabilmente rivela pesanti interventi di bottega, e una destinazione più commerciale. Questa prospazio nella ceramica derutese del secondo Cinquecento, e preannuncia quei modi liberamente sintetici che caratterizzeranno la maggior parte della ceramica derutese nel secolo successivo.
La data di morte del "Frate" si pone verso gli anni ottanta (28), ed è probabile che i figli abbiano prosegito sulla strada da lui indicata; a lungo sono infatti riconoscibili i modi e i vezzi stilistici che caratterizzano la sua opera. Probabilmente nella fase tarda della sua carriera vanno posti alcuni saggi "compendiari", eseguiti cioè con colori limitati al verde, giallo, blu, e con una certa velocità di tratto: alcune grandi coppe, quali quelle del Castello Sforzesco di Milano con Jiénere e Adone o quella del Museo Regionale della Ceramica Umbra con Piramo e Tisbe, costituiscono esempi notevoli della capacità di adeguamento del maestro a questo nuovo stile, destinato a grande affermazione (29).
Se la produzione derutese con la sua durata e il volume
produttivo si eleva decisamente al di sopra di tutti
gli altri centri umbri, Gubbio vive un momento di eccezionale fortuna
durante la prima metà del Cinquecento, quando
è attiva la bottega di maestro Giorgio Andreoli.
Nativo di Intra, sul lago Maggiore,
anche se talvolta è definito nei documenti
"da Pavia", Giorgio ottenne, con
i fratelli Salimbene e Giovanni, la
cittadinanza eugubina nel 1498, e risiedette nel comune di Gubbio fino alla
morte, avvenuta nel 1555.
Dopo di lui, il figlio
Vincenzo continuò a gestire la bottega
che, assieme al fratello UbaIdo,
aveva rilevato fin dal 1546; fece
testamento nel 1576, e
successivamente non risultano a Gubbio
maiolicari di pari
importanza (30). Quello che rese
famosa e ricca la bottega Andreoli fu la padronanza di
un tipo particolare di lustro,
quello rosso rubino, di cui
possedeva praticamente
l'esclusiva. A parteVittorio
"il Prestino", infatti, attivo anch'egli a Gubbio fra il
quarto e il settimo decennio del secolo, non sono
finora noti altri maiolicari in grado di
riprodurre quella particolare tonalità di rosso
(31).
L’abilità nell 'uso del lustro lega l’ opera di Giorgio all 'Umbria; tuttavia, a parte una ristretta quantità di esemplari che sembrano voler imitare il prodotto derutese, le scelte decorative inclinano decisamente verso le Marche, e in parti col are verso Urbino, cui Gubbio politicamente apparteneva. Le grottesche, le palmette, i trofei, tutto il repertorio decorativo che Giorgio arricchisce con l’applicazione del lustro trova riscontri in quello marchigiano.
Ancora più stretti si avvertono questi legami se prendiamo in considerazione la produzione istoriata della bottega. Oggi non è più possibile credere, come pure un tempo si sosteneva, che Giorgio si sarebbe limitato ad apporre il lustro su "storie" dipinte altrove, fuori della sua bottega; è infatti dimostrato che a Gubbio si foggiavano e dipingevano le maioliche, e si assumevano artefici capaci di farlo, facendoli venire da ogni parte del ducato. Tutta una serie di istoriati, in particolare quelli eseguiti dal Maestro del Giudizio di Paride Dutuit, o da Francesco Urbini negli anni fra il 1531 e il 1536 furono con ogni verosimiglianza eseguiti là (32). E però vero che illustro eugubino si trova anche su alcune opere attribuite a Nicola di Gabriele, il grande maestro di istoriati urbinate, e su altre, ben più numerose, eseguite in Urbino da Francesco Xanto Avelli e dalla sua cerchia negli anni successivi al 1530. A questo proposito tutta una serie di nuove possibilità ha aperto la notizia del soggiorno urbinate di Vincenzo, figlio di Giorgio, il quale nel 1538 rilevò per tre anni la bottega di Nicola di Gabriele da poco defunto, e nel 1544 ricevette addirittura la cittadinanza (33).
Dal momento che nella bottega patema egli doveva avere appreso come applicare il lustro, è plausibile che in Urbino si dedicasse proprio a questa attività, mettendola talora al servizio di altri, senza che vi fosse la necessità di inviare le ceramiche a Gubbio.
L'analisi degli istoriati della bottega Andreoli coinvolge dunque, dal punto di vista dei modelli, dello stile, del gusto e delle committenze, la grande produzione urbinate, e trascende i limiti di questa sintesi. È interessante notare come, prima del 1530, le forme più usate siano quelle aperte - per lo più piattelli di vario genere - pur non mancando saliere, coppe, calamai. Dopo questa data, la forma di gran lunga predominante è una coppa su piede basso e fondo convesso, ornata attorno alla parete con motivi a rilievo che valorizzano lo scintillìo del lustro.
La presenza frequente, sotto la base, della sigla nelle opere del maestro non implica in alcun modo l'autografia, ma costituisce una marca di bottega, che accomuna esemplari dipinti da mani diverse. Dopo la morte di Giorgio (1555)(34) e del figlio Vincenzo, che ne continuò per qualche tempo l'attività, la ceramica eugubina sembra riallinearsi alla tradizione precedente, su un livello meno elevato ,e più legato all'uso quotidiano. E di produzione locale una parte del vasellame da farmacia conservato nel Museo del Palazzo dei Consoli, di recente catalogato (35), Diverso è il caso di Deruta, il cui sviluppo si presenta più coerente e omogeneo, e che rimane pressoché l'unica protagonista della ceramica secentesca umbra.
All' aprirsi del XVII secolo continua la produzione del lustro derutese, che assume però un aspetto diverso rispetto a quello cinquecentesco: raramente è accostato al blu, diviene più giallo e cangiante, con riflessi violacei e verdastri, mentre la decorazione più frequente consiste in riccioli frastagliati, fogliette e motivi a giglio stilizzato. Ancora nel 1680 un viaggiatore, il Sabelli, menzionava la maiolica finissima e di colore dorato che si faceva a Deruta, fornendo così una prova del prolungarsi di questa tecnica fino quasi alla fine del secolo (36).
La produzione a lustro risulta però quantitativamente limitata, mentre predomina nettamente il "compendiario", lo stile sintetico e abbreviato diffuso anche in altre regioni italiane a partire dalla seconda metà del Cinquecento.
Fin dal 1580-1590 le figure monumentali tipiche della bottega del Frate lasciano il posto ad una stilizzazione più minuta e vivace: ciò si nota nelle targhe religiose datate agli ultimi anni del secolo, ma anche nelle figure rapidamente tracciate al centro di piatti o alzate.
Sarà questo il gusto predominante nella prima metà del XVII secolo, soprattutto negli esemplari attribuibili al cosiddetto Maestro degli Atteoni, che spesso utilizza quale decorazione di contorno le grottesche su fondo bianco, dette anche "raffaellesche". Desunte da quelle urbinati dei Fontana e dei Patanazzi, esse assumono in Umbria, oltre a colori decisamente più accesi dominati dall' arancio e dal verde squillante, un carattere vivace e caricaturale che denota un rapporto fra le botteghe dei ceramisti e quelle dei miniatori. In un periodo poco fruttuoso in Umbria per la pittura, che consiste più che altro in opere di artisti mediocri di formazione fiamminga o locale, a parte la folgorante presenza nel duomo di Perugia della Deposizione di Federico Barocci, i ceramisti sembrano ispirarsi al gusto dei miniatori perugini, tutti pervasi da un baroccismo minuto e vivace, in cui hanno larga parte sintetiche decorazioni grottesche. Le analogie maggiori si trovano in due miniatori attivi tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento, Biagio di Angelo Marini e Onofrio Marini, e specie per quest'ultimo sono particolarmente stringenti. Le migliori decorazioni grottesche del Maestro degli Atteoni e quelle sul frontespizio del Catasto della confraternita di San Domenico risultano estremamente simili (37).
Le "raffaellesche" si protraggono oltre la metà del Seicento, e sono fra i più diffusi ornati del repertorio derutese; compaiono infatti attorno alla tesa di piatti e alzate che recano al centro l'immagine della Madonna dei Bagni, e che sono quindi posteriori al 1657, anno di istituzionalizzazione del culto; inoltre nel Museo Nazionale di Sèvres un vassoio con San Martino in atto di donare il mantello è datato 1644 (38). Verso la metà del secolo appare il decoro calligrafico, che deriva da modelli cinesi decorati in bianco e blu importati in Europa tramite le Compagnie delle Indie olandesi e inglesi. Esso consiste in un intrico di fronde e fiori, fra cui svolazzano uccelli, o corrono cani e lepri.
E possibile che esso giungesse alle botteghe italiane, dapprima in Liguria, in seguito a Deruta, Torino, Faenza e forse anche in altri centri con la mediazione delle ceramiche di Delft, che subirono l'influenza dei motivi orientali e della bicromia bianca e blu per tutto il Seicento. Gli esemplari datati sono scarsi, e rimandano alla seconda metà del secolo, cui questo tipo di ornato deve quindi per ora essere riferito: fra essi, un vaso biansato in collezione privata con l'Annunciazione (1561) e un versatore del Museo del Vino di Torgiano (1676)(39). In altri casi, il periodo può essere dedotto su base araldica, come per il grande versatore con lo stemma del cardinale Peretti, che ricevette la porpora nel 1646 e che morì nel 1655; o per il piatto recante le armi del vescovo Bonaccorso Bonaccorsi , che tenne la carica dal 1669 al 1676 (40).
La varietà e vitalità delle maioliche consente di ritenere il Seicento tutt'altro che un secolo di crisi per la ceramica derutese, che esporta verso il Lazio e la Toscana e, a giudicare dalla sua abbondanza, era molto richiesta ad ogni livello.
Nell ' ambito della produzione religiosa, occupano un posto a sé le targhe votive legate al culto della Madonna dei Bagni di Casalina, di cui rappresentano i miracoli e che rivestono quasi interamente le pareti del santuario. Esse espnmono una VISIOne mgenua e popolare dell'intervento divino, e costituiscono una testimonianza di grande interesse anche sotto l'aspetto antropologico (41). Predilige invece soggetti mitologici il Maestro degli Atteoni, le cui incantevoli figurette evocano un clima di semplicità pastorale, arcadica, legato a una committenza provinciale ma colta; nei grandi vassoi, nelle coppe, nei piatti egli predilige i miti legati a Venere e Diana, e li trasforma in "pastorellerie" un po' rustiche ma vivaci e gradevolissime (fig. 5).
Questo clima colto e amante della mitologia continua, all'aprirsi del nuovo secolo, con l' opera del Maestro del Reggimento: fra le sue fonti preferite, le illustrazioni dell' opera del Cartari nell'edizione del 1571, che traduce con il brio di un'operetta settecentesca (42). Certo le scelte iconografiche gli vengono con ogni probabilità dettate dalla committenza, ed egli non rivela certo una cultura approfondita, vista la tendenza a storpiare in malo modo i versi del testo originale, come avviene in un bacile con Nemesi del Museo delle Ceramiche di Faenza (43). In compenso non rifugge da soggetti contemporanei sia storici che di costume, come l'Assedio di Vienna e un Reggimento di moschettieri, in cui vediamo introdotto un gusto architettonico piuttosto scenografico che, inoltrandosi il secolo, prenderà piede soprattutto nell' opera dell' ignoto autore di un'Annunciazione recante la dedica "GIUSEPPE CRESIMBENE"(44).
Assistiamo ormai a una sempre più accentuata tendenza della ceramica derutese ad adeguarsi ai modelli internazionali della decorazione, abbandonando le specifcità locali: al Maestro dell' Annunciazione sono infatti con ogni probabilità attribuibili alcuni versatori e piattelli i cui ornati sono racchiusi da tondi o cartelle mistilinee di tipo rococò, risparmiate entro motivi a scaglie (45).
Una più decisa anche se effimera modernizzazione viene tentata, verso la metà del XVIII secolo, da Pasquale Bravetti e ancor più dalla bottega di Gregorio Caselli, col suo miglior decoratore G. Meazzi. I modelli sono ormai quelli francesi, sia per le decorazioni che per le forme; intervengono, ad esempio, zuppiere con mascheroni per impugnatura che ricordano da vicino quelli delle manifatture di Moustiers. Si tratta dunque di un estremo tentativo, da parte di un centro di grande tradizione, di far fronte alla concorrenza delle porcellane e delle maioliche europee di maggior prestigio, ma anche a quella ormai industriale delle "terraglie ad uso d' Inghil terra"(46).
Pur producendo esemplari di buon livello, fra cui si distingue il lavabo oggi conservato nel Comune di Deruta (fig. 6), quest'ultimo guizzo della ceramica derutese non è di lunga durata. Nel 1758 il Passeri, grande conoscitore di ceramiche residente a Pesaro e autore di un trattato, menziona Deruta solo per una produzione bianca, sia pure eseguita con terre di ottma qualità (47). Anche per Gubbio, dopo la morte di Vincenzo Andreoli e di maestro Prestino, vi è un vuoto di informazioni che fa pensare a una fase di minore rilievo, anche se la produzione locale continua, e non è escluso siano di fattura secentesca
5. Coppa compendiaria con allegoria
della Fortezza circondata da ghirlanda
stilizzata, Deruta, Maestro
degli Atteoni,
XVII
secolo.
Faenza, Museo Internazionale delle
Ceramiche.
6. Lavabo
proveniente
dal convento di
San
Francesco di
Deruta,
Deruta,
bottega di
Gregorio
Caselli, 1765.
Deruta, Municipio
eugubina molti dei vasi da farmacia provenienti dagli antichi ospedali della città e conservati attualmente nel palazzo dei Consoli. Il lustro non sembra qui avere alcun seguito, contrariamente a Deruta, mentre si può dedurre dalla documentazione di archivio che tale tecnica fosse allora conosciuta a Gualdo Tadino, testimoniata dalle mattonelle murate all'esterno della chiesa della Madonna del Piano (48). Occorre attendere la metà del XIX secolo per assistere a una vera e propria rinascita della maiolica decorata che, in sintonia col gusto storicistico dell' epoca, comporta un recupero delle tipologie e delle tecniche rinascimentali, prima fra tutte quella del lustro. A Gubbio la riscoperta avvenne nel 1856, ad opera di Angelico Fabbri e Luigi Carocci, i quali inviarono alcuni lavori all'Esposizione Universale di Parigi del 1862, ottenendo una menzione onorevole; in seguito si distinsero Giovanni Spinaci e il Pieri, che lavorò anche a Faenza presso Achille Farina, Domenico Sforzolini, Giuseppe Magni, Luigi Carocci e numerosi altri. Maestro Giorgio era naturalmente il modello dichiarato, la fonte di ispirazione più frequente, sia nelle decorazioni che nelle tonalità accese, color rubino dei lustri (49).
Anche a Gualdo seguì in poco tempo una produzione con
caratteristiche analoghe, e subito
dopo la metà del secolo il lustro rosso iniziò a
ravvivare il vasellame
di numerose fornaci, in
particolare quella di Paolo Rubboli e
del suo successore Temistocle Vecchi,
di Angelo Pascucci e di Alfredo
Santarelli, fra tutti il più
famoso (50).
Questi, dotato di
eccezionale capacità grafica e di insolita
cultura, eseguì nella sua lunga e
prolifica carriera innumerevoli esemplari che ricreano i testi
del Rinascimento eugubino, non
con rigore filologico, ma lasciando ampio spazio a interpretazioni estrose, senza rifuggire da temi moderni, quali quelli preraffaelliti tratti da Dante Gabriel Rossetti.
Si fece attendere di più la "ripresa" derutese che, malgrado diversi tentativi, le esortazioni degli storici e gli auspici delle autorità, non può dirsi avviata prima del 1910, con la costituzione della Società Anonima Maiolica di cui divenne direttore tecnico-artistico Alpinolo Magnini. Si deve a lui, e alla sua collaborazione con Ubaldo Grazia, membro di una storica famiglia di vasai, il recupero del bel lustro dorato che aveva un tempo reso celebre la ceramica della sua città. Verso il 1915 essi erano già in grado di riprodurlo perfettamente, e numerose testimonianze di questa loro abilità, applicata naturalmente ai modelli della tradizione locale, sono conservate nel Museo di Deruta. Nello stesso periodo è attivo un altro maestro della ceramica storicistica derutese, il russo Davide Zipirovic, il quale, più che imitare le antiche maioliche, si dedicò a riprodurre con abilità estrema i più famosi dipinti rinascimentali, da Botticelli a Michelangelo e Raffaello (fig. 7)(51)\. Un tentativo di far rivivere le glorie del passato si verificò anche a Orvieto, volto naturalmente alle tipologie tardomedievali. Si tratta dei "Vascellari", società fondata da Pericle Perali nel 1920; uomo di grande cultura e storico della ceramica, questi si proponeva di ridare vita alle antiche decorazioni, curandone l'applicazione con rigorosa aderenza agli originali, anche se spesso su forme più moderne, come servizi da caffè e da te (52).
L'attività dei "Vascellari" cessò otto anni dopo, cedendo di fronte all'eccessivo dispendio che i metodi artigianali e ormai anacronistici comportavano. Rimane però un ammirevole esempio di quella volontà, comune a tutti i centri umbri, di non lasciar morire il passato, ma di ravvivarlo non solo conservandone e studiandone le testimonianze, ma anche fornendo un prodotto di tale qualità da non sfigurare nel confronto.
1 Baltrusaitis, 1977, p.
276.
2 lvi, p. 105.
3 Satolli, 1981, p. 71.
4 Fiocco - Gherardi, 1988, I, p. 246, n. 147; Omaggio a Deruta, 1986, pp. 29-35, nn. 6-14.
5 Satolli, 1981, pp. 39 e 68.
6 Frammenti di scavo di questa produzione sono in Busti - Cocchi, 1987, pp. 14-20.
7 Inv. 5413; Giacomotti, 1974, n. 63.
8 Londra, British Museum,
inv. MLA 1899,
6-15,1; Wilson, 1987, n.
28.
9 Londra, Victoria and Albert Museum, inv. 2559-1856.
10 Limmagine si trova, ad
esempio, su un tagliere del
Musée National de la
Cèramique di Sévres, inv. 21055;
Giacomotti,
1974, n. 680. Per il mito di
Anteros, v. Panofksy, 1975, pp.
135-183.
11 Nico Ottaviani, 1982, p, 265.
12 Inv. OA 1885;
Giacomotti, 1974, n. 92.
13
Biganti, 1987, pp. 209-220.
14 Rackham, 1915, pp. 28-35.
15 Farinella, 1992, pp. 3-26. re Inv. 1866.
17 Londra, British Museum,
inv. MLA 1855,
12-1,50 e MLA 1855,
12-1,61; in
Wilson, 1987, nn.
153 e 38.
18 Inv. 26.336.
19 Martindale, 1961, pp. 216-220.
20 Lessmann, 1976, pp. 27-30;
Clifford - Mallet, 1976, pp. 387-410, n.
118; Wilson,
1991, pp. 157-165.
21 Fiocco - Gherardi, 1988, p. 49.
22 Inv. F 413, in Kube, 1976, n. 50. Inv. Cluny 1986, in Giacomotti, 1974, n. 541.
23 Fiocco - Gherardi, 1984, pp. 183-188.
24 Londra, Victoria and Albert Museum, inv. C 2156-1910, in Rackham, 1940, n. 430.
25 Mallet, 1979, pp. 279-285.
26 Fiocco - Gherardi, 1991', pp. 12-15.
27 Inv. F1, in Mariaux, 1992, pp. 74-75, tav. xv.
28 Nicolini, 1983, p. 43, nota 5.
29 Inv. M 83, in Biscontini Ugolini - Petruzzellis Scherer, 1992, p. 103, n. 32; Antiche maioliche di Deruta, 1980, p. 124.
30 Per un'analisi dellla
vicenda storico-critica di
maestro Giorgio e per una bibliografia
specifica v. Fiocco - Gherardi,
1989, II,
pp. 401-455.
31 Il problema dei rapporti fra maestro Giacomo Paolucci e gli Andreoli, quale emerge dall'analisi di alcuni documenti pubblicati in Biganti (1987, pp. 210-213 e 221-222), e della eventuale priorità di Giacomo nella conoscenza del lustro, è ancora in fase di studio e non vi sono elementi sicuri (cfr. Fiocco - Gherardi, 1996, pp. 5-10).
32 Fiocco - Gherardi, 1989, pp. 421-424; Mallet, 1979.
33 Negroni, 1985,p. 19.
34 Menichetti, 1987,II,pp.144e
149.
35 Fiocco - Gherardi, 1995.
36 Sabelli, 1680, p. 223.
37 Archivio di Stato di Perugia, Catasti, III gruppo, 1604; Mancini, 1987, p. 96, fig. 62.
38 Sèvres, Musèe National de la Cèramique, inv. 2235.
39 Fiocco - Gherardi, 199 P,
p. 171, n. 261.
40 Omaggio
al collezionismo ... , 1989,
p. 116; Spallanzani, 1990,
p. 279.
41 Gli ex voto .... 1983.
42 Cartari, 1571.
43 Fiocco - Gherardi, 1988, I, p. 385, n. 367.
44
Collezione privata romagnola.
45 Antiche
maioliche di Deruta,
1980, p.
143; Fiocco - Gherardi,
1988, I, pp. 365-366,383-384.
46 Per una buona documentazione
sul Settecento derutese, v. Busti - Cocchi, 1986,
pp.
83-86.
47 Passeri, 1857, pp. 50-51.
48 Per un'analisi del problema dei lustri a Gualdo, v. Fiocco - Gherardi, 1989, II, pp.159-160.
49 Per una sintesi sul "revival" eugubino, v.Fiocco - Gherardi, 1989, II, pp. 467-469.
50 lvi, pp. 471-476.
51 Per il "revival" derutese, v. Fiocco - Gherardi, 1989, II, pp. 476-481.
52 lvi, pp. 482-484.