Carola Fiocco - Gherardi Gabriella. In Ceramica e araldica Medicea, a cura di G.C.Bojani, 1992, pp.21-52.
Nel gennaio del 1478 Donato Giannarino, giureconsulto di Arezzo, vicario e vice-podestà di Pesaro, scrisse una lettera a Lorenzo il Magnifico, per avvisarlo dell'invio di parecchi vasi da Pesaro (1); si tratta di un servizio, accuratamente elencato, che il donatore definisce "tavoletta", e che il Magnifico avrebbe dovuto usare durante i soggiorni nella villa di Careggi.
L'elenco è di grande interesse per gli studiosi di ceramica, in quanto mostra come già a quei tempi fossero codificati i pezzi necessari per un servizio completo, seppure non grandissimo e destinato per così dire alla campagna (2); ancora più interessante è che il Giannarino trovasse la maiolica allora prodotta in Pesaro del tutto adeguata al livello richiesto per un dono a tale personaggio.
Per quel che riguarda per l'argomento della presente mostra, occorre sottolineare il
fatto che il Giannarino considerava indispensabile che sulle ceramiche destinate a Lorenzo
comparisse lo stemma mediceo. Nella lettera egli specifica infatti che,
essendosi rotto il rinfrescatoio, senz'altro il pezzo più
rappresentativo e grande del servizio, lo aveva dovuto sostituire con un altro che il
ceramista aveva in bottega già pronto, e che era in origine
destinato al Vescovo di Arezzo; di
conseguenza, alle armi di quest'ultimo, già tracciate in
precedenza, furono aggiunte quelle medicee.
Fortunatamente il Vescovo di Arezzo
era, con ogni probabilità, Gentile Becchi di Urbino, antico precettore di
Lorenzo, e la presenza del suo stemma non
doveva di conseguenza essergli sgradita. Diverso il caso di un
Malatesta, che a sua volta inviò a Lorenzo dei vasi; essi recavano però non lo stemma
mediceo, bensì quello del mittente. Lorenzo ringrazia, e scherzosamente
sottolinea che non occorreva la presenza delle armi malatestiane perché egli
si ricordasse del donatore, in quanto questi era sempre presente nei suoi pensieri (3).
Come si vede, gli stemmi sono un elemento importante per la decorazione ceramica; contrassegnano i pezzi di proprietà, e di regola lo
stemma è quello del proprietario.
Non mancano tuttavia esempi in cui sul vasellame compaiono le armi del donatore.
Gli stemmi si trovano anche su
vasellame non eseguito su commissione, e destinato al mercato; in questo caso sono intesi quale semplice omaggio a una famiglia
dominante, e gradualmente assimilati nella decorazione corrente.
È questo il caso di quei "massacri politici" di stoviglie anche faentine recanti la sega bentivolesca, avvenuti nel mercato di Bologna dopo la caduta dei Bentivoglio, di cuiil Rubbiani trovò menzione nella Cronaca Riniera (4). Questi episodi di intolleranza indicano dunque che l'araldica costituiva talvolta un ornamento diffuso, al di là della committenza, specie se si trattava delle famiglie più in vista.
Questo libero uso degli stemmi non era esente da rischi di altro genere. Un aspetto negativo era costituito dal fatto che talvolta essi venivano deformati, o eseguiti con una disinvoltura che poteva alla fine risultare offensiva. A questo proposito è opportuno ricordare un emendamento apportato nel
1378 allo statuto dei vascellari di Orvieto, che proibiva agli affiliati di decorare con stemmi il vasellame, se non su specifica richiesta degli acquirenti (5).
L'intenzione evidente è di limitare gli abusi; non è però escluso che regole come questa abbiano provocato deformazioni intenzionali, per creare scudi inesistenti ed aggirare il divieto conservando l'elemento araldico nella decorazione. A Orvieto questo potrebbe essere avvenuto con la caratteristica inversione delle bande doppio-merlate dello scudo dei Monaldeschi, che spesso divengono sbarre (6). La frequenza con cui questo si verifica sembra escludere l'errore, e indicare una precisa volontà.
Tutti questi elementi contribuiscono a rendere difficile e complicata la corretta identificazione degli stemmi sulla ceramica, che è tuttavia la premessa indispensabile perché l'araldica possa costituire un valido aiuto agli studi. Per il ceramologo infatti essa non solo è interessante da un punto di vista sociologico, per inquadrare la committenza, ma soprattutto in quanto può fornire indicazioni utili per l'attribuzione e per la cronologia.
Per quel che riguarda l'attribuzione, occorre innanzitutto sottolineare che uno stemma non è di per sé determinante per decidere la provenienza di un pezzo; fornisce però una conferma ad altri elementi stilistici e morfologici, se questi convergono verso la stessa area geografica cui anch'esso rimanda. È comunque tanto più significativo quanto meno la famiglia è importante e nota al di fuori della propria zona, oppure per quei periodi nei quali il commercio delle ceramiche era scarso al di fuori dei mercati locali, e la produzione serviva per lo più ai bisogni interni.
Questo avviene
specialmente nei
secoli XIII e XIV,
quando i primi esempi di
maiolica venivano per lo più
prodotti da una miriade di forni
disseminati anche nei centri più
piccoli. Anche se non
mancano esempi di
esportazione a vario
titolo (la chiesa di San
Nicolò a Deruta già nel 1290 pagava
con una soma di vasi il
dovuto al capitolo
della cattedrale di
Perugia, da cui
dipendeva (7), e nel
trecento i vasai
derutesi contribuivano con la
propria merce al
fabbisogno abnorme
del sacro convento di
Assisi (8), in linea di massima
il prodotto
"arcaico" è legato al
luogo di
produzione, e la
presenza di determinati stemmi acquista
dunque maggiore
significato a fini
attributivi. Purtroppo si tratta
anche del periodo in
cui la loro
identificazione è più
difficile; i vasai utilizzano
infatti per la decorazione
soltanto due colori, il
verde di rame e il bruno di
manganese, cui
aggiungono alla
fine del
trecento il blu di
cobalto.
Se consideriamo
l'importanza enorme,
nell'araldica,
degli smalti,
che in molti casi sono
l'unico elemento in grado
di distinguere uno stemma
dall'altro, è facile
comprendere quanto
sia problematica
un'identificazione
corretta in queste
condizioni. Anche in epoche
successive, comunque, i
ceramisti non disporranno mai
di tutti i colori
necessari, e questo
basta a rendere difficili
riproduzioni
accurate.
Oltre ai limiti tecnici, intervenivano
poi la scarsa cultura e la
cattiva
comprensione
dell'emblematica; di
conseguenza la tendenza a
variazioni arbitrarie era comune.
Anche
lo stemma mediceo va
soggetto a notevoli
varianti, a seconda
che si trovi su pezzi
commissionati o comunque
destinati alla famiglia,
o su ceramiche d'uso di livello
piuttosto basso, dove è
tracciato in maniera corsiva e
veloce;
fortunatamente, è nel complesso
sempre ben riconoscibile. Il potere e
la fama della famiglia Medici hanno
fatto sì che il loro stemma
sia fra i più diffusi, non
soltanto nella ceramica toscana, ma
anche in quella di altre
regioni.
Esso consente talvolta di datare con una certa precisione le ceramiche, ed è di conseguenza assai utile al lavoro dello storico; infatti, specie negli esemplari importanti, viene tracciato con cura in ogni suo aspetto, accostato magari ad altri stemmi in maniera storicamente determinabile, e collegabile a personaggi riconoscibili, a matrimoni, a papati.
E anche diffuso nella ceramica spagnola a lustro, prodotta nei secoli XV e XVI soprattutto a Valenza, Manises e dintorni, che veniva esportata in Italia e assai apprezzata per la presenza del riflesso metallico dorato o ramato che i vasai di quei luoghi avevano appreso dai mori, e che utilizzavano comunemente già in epoche in cui era ancora sconosciuto ai loro colleghi italiani.
Coloro dunque che qui in Italia avessero voluto il proprio stemma su una di quelle splendide ceramiche che avevano l'aspetto dell'oro non avevano altra scelta che commissionarle alle officine valenzane. In seguito, a partire circa dalla fine del secolo XV, le officine umbre e, in minima misura, quella di Cafaggiolo supplirono a questa carenza e diedero vita alla grande stagione dei lustri italiani; fino ad allora, però, era necessario rivolgersi agli spagnoli. La frequenza di tali importazioni è nota e ben documentata; essa emerge, fra l'altro, dalla consistenza del vasellame spagnolo in un elenco degli oggetti presenti in una ricca casa pisana, proprietà di Jacopo di Giovanni Ottavanti, quale risulta da un inventario del 1480 pubblicato dallo Spallanzani (9), Le ceramiche di casa sono distinte, nell'inventario, in "lavori di maiolicha", termine con cui allora si chiamava il lustro, e in "lavori di Montelupo", in semplice policromia, eseguiti nel celebre centro toscano vicino a Firenze.
I primi sono senz'altro di provenienza spagnola, e sono numericamente preponderanti (55 contro 17 esemplari montelupini) (10); alcuni recano al centro il monogramma di Cristo, ma altri lo stemma della famiglia Ottavanti e dei Cambini, mentre fra le decorazioni spicca quella "a fiordaliso",che corrisponde probabilmente alla "foglia di prezzemolo" della terminologia corrente.
Per gli arrivi di merci dalla Spagna, Pisa, ormai sotto il dominio di Firenze dall'inizio del XV secolo, rappresentava uno dei porti più attrezzati; da là era facile poi l'accesso ai mercati interni, e a quello fiorentino in particolare. Questi stretti collegamenti spiegano la frequenza con cui gli stemmi delle
6. Grande vaso con anse crestate,
probabilmente prodotto in
area
valenzana dopo il 1465, con su un
lato
l'anello diamantato con due penne
sull'
altro lo stemma mediceo.
Londra, British Museum.
ricche famiglie degli originali, e costando due, tre
volte di meno sul mercato (15).
È questo il caso di un ben noto vaso
nelle collezioni del Detroit
Institute of Arts (fig. 7), con
lo stemma d'alleanza
Medici-Orsini, che mostra
un'evidente derivazione
dalla stessa tipologia
cui appartiene il vaso del British
Museum, sia nella forma del corpo
che nei caratteristici
manici a cresta,
mentre la decorazione
ricalca quella a foglie di prezzemolo,
comunissima nella ceramica
valenzana.
Il vaso fu pubblicato dal Middeldorf nel 1937 (16), poi ripreso varie volte quale esempio di committenza medicea e di ceramica databile anche per via araldica (17); si tratta infatti di uno di quei casi fortunati in cui l'araldica concorre alla datazione del pezzo con una certa precisione, anche se non assoluta, essendo stati due i matrimoni Medici - Orsini: quello di Lorenzo con Clarice, avvenuto nel 1469, e quello del loro figlio Piero con Alfonsina, avvenuto nel 1487. L'ipotesi più probabile è che il vaso celebri il primo matrimonio; non vi sono tuttavia elementi tali da suggerirlo con sicurezza.
Fra i contributi più interessanti allo studio di questo esemplare c'è un articolo dello Spallanzani, che trovò traccia del vaso in un inventario relativo agli oggetti conservati nella villa di Poggio a Caiano (18); dove si annota che esso si trovava in una stanza vicino alla cucina; il documento purtroppo è privo di data, ma si può presumere fosse compilato in occasione di una vendita seguita alla cacciata dei Medici da Firenze nel 1494, e alla contemporanea confisca dei loro beni.
Un altro esempio di imitazione
spagnola da parte di
officine toscane è fornito da un piatto del Museo
del Bargello con lo stemma mediceo al
centro del cavetto, entro uno scudo
triangolare (fig. 8);
attorno alla tesa si dispone infatti un
tralcio delle consuete foglie di
vite, le cui venature sono
graffite sul fondo blu,
mentre lo scudo è
racchiuso
entro un disco solare il cui colore
giallo risulta
chiaramente un
sostituto del lustro.
Lo stemma mediceo non reca questa volta la palla d'azzurro caricata dei tre gigli di Francia, e il piatto dovrebbe quindi collocarsi in una data precedente il 1465, in perfetta coerenza con i dati stilistici, che ci orientano appunto verso la metà del secolo.
Nel 1494 la cacciata del figlio di Lorenzo, Piero, determina una momentanea eclisse della famiglia, a favore del ramo di Lorenzo di Pierfrancesco, che rinuncia addirittura al proprio nome e lo trasforma in quello di "Popolano". Solo quando un altro figlio di Lorenzo, Giovanni, diviene papa col nome di Leone X assistiamo a una ripresa di prestigio e al rientro dei Medici in Firenze. Le loro armi riprendono a dominare nella ceramica, e spesso la presenza della tiara e delle chiavi papali mostra uno specifico omaggio al papa.
Un elemento di confusione tuttavia è dato dal fatto che il pontificato di Leone X fu seguito, dopo un breve intermezzo, da quello di un altro esponente
8. Piatto con stemma mediceo entro triangolo e foglie di edera attorno alla tesa, produzione toscana, circa 1450-60.
Firenze, Museo del Bargello.
della famiglia, Giulio, figlio di Giuliano fratello del Magnifico, che prese il nome di Clemente VII; di conseguenza entrambi questi pontefici hanno stemmi il più delle volte uguali, anche se talora intervengono elementi che permettono di determinare di quale pontificato si tratti.
Questo avviene, ad esempio, per le mattonelle da pavimentazione provenienti da Castel Sant' Angelo (scheda n. 2), ritrovate durante lavori di restauro nella cappella di San Michele nel "cortile delle palle". Esse sono decorate "a cuenca", secondo una tecnica diffusa nelle officine spagnole a partire dall'inizio del secolo XVI, e che consiste nel ricavare l'ornato premendo sull'argilla ancora cruda uno stampo in rilievo. I margini rialzati del disegno fungono da barriera per impedire il mescolarsi dei colori.
Vista la tecnica, la tipologia decorativa e le tracce che ancora rimangono di lustro, il pavimento fu probabilmente eseguito a Manises, vicino a Valenza. Leone X ne fu il committente: su alcune mattonelle compare infatti il leone, che richiama il nome del papa; vi sono poi l'anello col diamante, il giogo e la testa di moro, stemma dei Pucci. Quest'ultimo onora Lorenzo Pucci, il primo cardinale nominato da Leone X nel 1513.
Nei peducci della copertura a volta, anch'essa ripristinata durante gli stessi restauri, furono poi ritrovati gli stemmi di Raffaele Petrucci, vescovo di Grosseto, nominato da papa Leone castellano di Castel Sant' Angelo, e da lui porporato. Non può esservi quindi dubbio sul periodo in cui furono eseguite le mattonelle.
L'interesse di Leone X per la ceramica valenzana è evidenziato anche dal boccale del Museo Civico e Medioevale di Arezzo (scheda n. 1), e dai due piatti rispettivamente nel Museo Civico di Bologna (fig. 9) e nel British Museum di Londra (19), probabilmente appartenenti allo stesso servizio, vista l'omogeneità degli ornati. In tutti e tre gli esemplari ricorre infatti lo stemma sormontato dalla tiara, stilizzata in maniera peculiare.
L'identificazione del committente con Leone X si basa questa volta più che altro su elementi di affinità stilistica: la decorazione flore ale, la scompartizione degli ornati e quella del retro delle forme aperte è tipica della ceramica valenzana fra la fine del secolo XV e gli inizi del XVI. Anche l'ornato a finti caratteri cufici rimanda allo stesso periodo: compare, ad esempio, sui piatti recanti lo stemma di Domingo Porta,
abate di Poblet dal 1502 al 1526 (20).
Il piatto di Bologna
reca il motto "GLOVIS", usato
sia da Leone X che da suo fratello
Giuliano, duca di Nemours, morto
ne11516. Secondo il
Vasari, si tratta delle
iniziali di Gloria, Laus,
Onor, Virtus, lustitia,
Salus, che il Magnifico
Giuliano riteneva
fossero entrate finalmente nella sua casa
con il pontificato del
fratello (21).
Secondo
Paolo Giovio, il motto entro un
triangolo fu invece
adottato da Giuliano
quando, sposata la zia del re di Francia e
divenuto gonfaloniere
9. Piatto con lo stemma
mediceo
sormontato dalla tiara
e dalle chiavi
papali, affiancato
dal motto "GLOVIS",
circondato da scomparti
con ornati
geometrici e vegetali
stilizzati, e da una
fascia con elementi
simili a una calligrafia.
Valenza o Manises,
1513-'21.
Bologna, Museo civico medievale.
della Chiesa, ritenneche la sua fortuna, fino ad allora cattiva, si fosse finalmente girata: rovesciato, infatti, il motto si legge "Si volg”(22).
Il "Glovis" ricorre anche su un piatto dove è raffigurata una figura maschile, probabilmente Abele, inginocchiata davanti a un altare su cui sacrifica una pecora (fig. 10): esso è scritto su un riquadro nel fianco dell'ara, su cui arde un ceppo ardente, anch'esso impresa medicea, che allude alla rinascita. Il piatto va pertanto riferito allo stesso periodo del precedente, mentre la presenza su retro della sigla "SP" e della scritta "Inchafaggiuolo" consente di attribuire con sicurezza il piatto a questo centro toscano.
L'autore è dotato di un segno asciutto, quasi caricaturale; il Rackham lo identificò con il "Pittore della processione papale", autore della coppa del Victoria and Albert Museum di Londra su cui è rappresentato Leone X in processione, benedicente, sulla sedia gestatoria, fra cardinali, ecclesiastici e soldati (fig. 11) (23). Davanti a lui procede Hanno, l'elefante avuto in dono da Manoel di Portogallo nel 1514, e che morì nel '16: la presenza dell'animale permette di identificare il papa e di precisare gli anni cui il soggetto si riferisce. La scena è festosa, riempie completamente la superficie con un andamento a fasce sovrapposte; questa volta la sigla sul retro è una "P", circondata da cerchi concentrici in blu.
Rispetto a quella di Montelupo, da cui pure deriva, la produzione di Cafaggiolo, quantitativamente limitata, presenta però dei picchi elevati, dovuti alla presenza di maestri di eccezionale abilità.
La bottega prende inizio nel 1487, con Stefano e Piero di Filippo, che da Montelupo si trasferiscono in un annesso del castello mediceo, ristrutturato da Michelozzo. Esso apparteneva a un ramo collaterale dei Medici, a quel Lorenzo di Pierfrancesco cugino del Magnifico che, durante la crisi savonaroliana e l'assenza della famiglia a seguito della cacciata del 1494, aveva assunto il nome di "Popolano" e sostituito lo stemma tradizionale con la croce del popolo. Non risulta tuttavia che l'attività ceramica nel castello sia legata al mecenatismo dei padroni di casa, poiché i vasai pagavano l'affitto, e venivano a loro volta pagati per il vasellame, anche quando questo era destinato a Lorenzo (24).
Sotto l'aspetto decorativo, non vi sono differenze rilevanti fra la produzione cafaggiolese e quella montelupina; in pratica, l'unico criterio valido per operare una distinzione sicura è la presenza della marca "SP", probabilmente composta dalle iniziali di Stefano e Piero. La manifattura produsse tuttavia alcuni esemplari istoriati di eccezionale pregio, tradizionalmente legati alla personalità di Jacopo, figlio di Stefano (25).
Vi sono poi altri maestri generalmente riconosciuti, come il "Pittore di Vulcano", il pittore che contrassegna le proprie opere col tridente, il monogramrnista “Af”. Nel complesso, la manifattura sembra rivolgersi a una
11. Piatto con Leone X in processione, circondato da armigeri e dignitari, preceduto dall'elefante Hanno. Cafaggiolo, circa 1516.
Londra, Victoria and Albert Museum.
comrnittenza di alto livello, che richiede talvolta opere di notevole elaborazione. È il caso dello splendido boccale del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza (fig. 12), che onora anch'esso il primo papa mediceo: vi è infatti raffigurato il ritratto di Leone X, di profilo, entro ornati "alla porcellana" caratterizzati dalla "mezzaluna dentata", tipica della produzione toscana. Il boccale è eccezionale, e forse fu eseguito in occasione di una visita del papa al castello, avvenuta nel 1515 (26).
Ma l'esempio più clamoroso di
araldica legata a papa Leone è costituito
da una grande coppa,
anch'essa di Cafaggiolo,
conservata nelle
collezioni del British Museum
(fig. 13), che di spiega
un vero e proprio repertorio di
emblematica medicea.
Lo
stemma centrale, sormontato da
una testa di leone, dalle
chiavi e dalla tiara, permette
di collocare la coppa nei
limiti cronologici del pontificato di Leone
X.
L'interno riunisce le
sue principali imprese:
l'anello diamantato, il
giogo, l'aquila e una ruota
attraversata da un
chiodo, che potrebbe alludere
alla ruota della fortuna
bloccata nel suo percorso,
e di conseguenza eternamente
favorevole ai Medici (27), All'esterno si
susseguono invece tre stemmi medicei
alternati a quelli di
famiglie imparentate col papa: Orsini,
Strozzi, Salviati. Le
grottesche che ornano
l'interno e l'esterno
della coppa sono di eccezionale
finezza: sirene, putti,
teste angeliche, draghi e
varie figure mostruose forniscono
un saggio esemplare dell'abilità
dei maioli cari toscani del rinascimento.
I vasai di Cafaggiolo erano fra i pochi in
grado di applicare sulle
loro maioliche il lustro; lo
dimostra una serie di oggetti
contrassegnati dalla "SP",
arricchiti da una
metallizzazione dorata
talvolta di tono
ramato, che ricorda i
prodotti spagnoli.
Secondo l' Alinari, però, non è
tanto dalla Spagna che pervennero
i modelli di questa peculiare
produzione, quanto da
Deruta: vi sono
infatti notevoli coincidenze
di forma e di
distribuzione
decorativa che inducono a questo
accostamento.
La stessa terra, pur non potendosi dubitare dell'origine cafaggiolese dei pezzi, a causa della sigla e della presenza di caratteristiche toscane negli ornati, appare diversa da quella degli altri manufatti, tanto che l' Alinari ipotizza la presenza di un vasaio derutese che, dopo essersi trasferito, insiste a utilizzare terre umbre (28).
La cronologia dei lustri di Cafaggiolo è tutt'altro che sicura; di conseguenza, non facile datare il piatto con tesa a scomparti al centro del quale spicca lo stemma mediceo (fig. 14).
Si può supporre che esso coincida all'incirca con la ripresa dell'emblematica medicea dopo il rientro della famiglia a Firenze nel 1512.
Rispetto a Cafaggiolo, Montelupo è un centro di capacità produttiva incomparabilmente più vasta; nel suo periodo più fortunato, tra la seconda metà del secolo XV e la prima del XVI, esporta quantità enormi di materiale, perfino in Inghilterra e Olanda, oltre che nel bacino del Mediterraneo.
La documentazione archeologica, di cui solo recentemente è stata valutata
12. Boccale con il ritratto di papa Leone X, Cafaggiolo, 1513-'21.
Faenza, Collezione Cora, Museo Internazionale delle Ceramiche.
13. Coppa a grottesche con al centro lo stemma di papa Leone X, e tutt'attorno emblemi medicei. All'esterno compaiono, alternati con quello Medici, gli scudi degli Orsini, dei Salviati e degli Strozzi. Cafaggiolo, 1513-21.
Londra, British Museum.
l'importanza, dopo gli eccezionali risultati dello scavo del "pozzo dei lavatoi",eseguito a partire dal 1973, ha trovato una degna collocazione nel museo locale,piccolo ma esemplare per la chiarezza didattica dell'impostazione.
Dalle sue collezioni provengono i due boccali e i tre piatti esposti in mostra (schedenn. 4-8), tutti di scavo dal sottosuolo montelupino, cosa che ne spiega il cattivo statodi conservazione. Essi documentano alcune fra le tipologie più comuni del primo quarto del secolo XVI, quando la produzione ceramica è più varia e abbondante, e la piccola città sembra agire come "fornace" della vicina Firenze; i vasai locali ricevono infatti finanziamenti da imprenditori fiorentini, che ne acquistano a scatola chiusa per un certo numero di anni l'intera produzione, mentre diminuiscono le botteghe nella città maggiore (29).
Dall'esame del
vastissimo materiale di
scavo è possibile rilevare
come la qualità del prodotto si
mantenga di livello medio, senza
punte di particolare
raffinatezza, con pochi
istoriati, ma proprio per
questo con una
potenziale
committenza quanto
mai vasta. Secondo il Berti, la
decadenza comincia
infatti quando, dopo la metà
del '500,
a seguito di una crisi
economica generalizzata,
si allarga la distanza
fra i ceti ricchi e quelli medi,
che si impoveriscono; la
richiesta penalizzò
infatti proprio il
prodotto medio, puntando da un
lato su oggetti più a buon mercato,
dall'altro su
quelli qualitativamente
migliori e più nuovi di Faenza e
di Savona (30).
Fra gli esemplari esposti, tutti contrassegnati dalle armi medicee, soltanto il piatto n. 4 reca una data sicura, il "1514".
È probabile che anche gli altri non siano cronologicamente distanti, e si riferiscano anch'essi al momento in cui i Medici, rientrati a Firenze dopo l'eclissi temporanea, favoriscono una ripresa del loro stemma nella decorazione ceramica.
Il piatto datato reca lo scudo appeso a un festone e affiancato da due girali fioriti, mentre attorno alla tesa si svolge un caratteristico motivo a fiori e nodi graffiti sul blu di fondo, fino a scoprire la maiolica sottostante. Non sono molti i centri in cui tale tecnica è diffusa, e Montelupo è fra questi. Il "blu graffito" caratterizza anche la decorazione cruciforme attorno alla tesa del piatto n. 5, sul quale lo stemma, caricato di tiara e chiavi papali, allude quasi certamente a Leone X, vista la somiglianza stilistica col precedente.
Gli altri esemplari di Montelupo mancano di data, e di contrassegni araldici tali da contribuire a determinarla; occorre dunque basarsi su elementi di forma e decorazione, che indicano il secondo - terzo decennio del secolo. È possibile vedere su due dei piatti un motivo "alla porcellana" piuttosto semplificato, e uno formato da mascheroni da grottesca alternati a palmette.
Nel boccale n. 10 lo stemma è racchiuso entro un grande anello diamantato, che sostituisce per l'occasione la più comune ghirlanda, mentre è usato come riempimento un grazioso motivetto a fiorami graffiti sul blu, con
cornucopie che simboleggiano l'abbondanza. In bruno, sotto l'attacco inferiore dell'ansa, vi è tracciata la sigla "Lo", che contraddistingue una bottega montelupina attiva fra la fine del XV e il primo quarto del XVI secolo (31).
Il modo con cui la sigla è tracciata, con la "o" appuntita verso l'alto, e alcune caratteristiche dell'esecuzione permettono di riferire il boccale a un decoratore attivo per alcuni decenni nella bottega, che l'Alinari chiama "Pittore n. 4", autore anche di un importante boccale con lo stemma Medici-Salviati (fig. 15), probabilmente da collegarsi al matrimonio fra Giovanni dalle Bande Nere e Maria Salviati, avvenuto nel 1516 (32).
La produzione a lui riconducibile è di livello elevato, e comprende tutte le principali decorazioni in uso, fra cui il blu graffito; si distinguono gli ornati flore ali policromi rialzati dal brillante tono di rosso che costituisce uno dei vanti sia dei vasai montelupini che di quelli di Cafaggiolo.
Il rosso arricchisce la gamma dei colori anche sul boccale della scheda n. 8, che utilizza come riempimento uno degli ornati più comuni a Montelupo, una specie di griglia diagonale puntinata. Al centro, ecco di nuovo lo stemma mediceo, entro il grande anello diamantato che funge da cornice; l'impresa dunque, che come abbiamo visto risale circa alla metà del quattrocento, trova particolare favore nel secondo - terzo decennio del secolo successivo, periodo a cui si fanno risalire entrambi gli esemplari, e racchiude nel suo cerchio lo stemma vero e proprio.
Spesso però l'anello viene associato ad altri emblemi della famiglia, quasi a precisarne il significato allusivo; lo troviamo, ad esempio, attorno a un falcone su un boccale del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, anch'esso attribuibile al "pittore n. 4" della bottega "Lo" (scheda n. 11).
Il falcone, anch'esso noto fin dalla metà del quattrocento, costituiva la divisa personale di Piero di Cosimo, e allude alla fedeltà, all'ardimento, ed anche alla rinascita, in quanto muta le penne (33).
In questo caso, tuttavia, il boccale sembra essere più tardo, databile probabilmente fra il secondo e il terzo decennio del secolo, e il falcone rappresenta dunque la persistenza di un emblema che fu ereditato dai discendenti diretti di Piero, fra cui Giovanni dei Medici - Leone X (34).
Nel 1523 un altro Medici sale al soglio pontificio: si tratta di Giulio, cugino del precedente pontefice, che assume il nome di Clemente VII, e il cui regno terminerà nel 1532. Come abbiamo visto, il suo stemma è uguale a quello di Leone X, e questo genera parecchia confusione nella datazione delle ceramiche su cui compare.
Un esempio è fornito da un
vaso a lustro biansato di
Deruta (fig. 16), in
cui l'araldica non presenta alcun segno
che permetta di distinguere fra i
due pontefici.
Puntualmente, si
dividono le opinioni degli
studiosi che se ne sono occupati:
mentre infatti il Robinson e il
Fortnum ritengono trattarsi di papa Leone (35),
15. Boccale con
stemma
MediciSalviati
entro anello diamantato,
e
decoro alla
"palmetta
persiana".
Montelupo, 1516-'27
circa.
Firenze,
Museo Nazionale del Bargello.
16. Vaso a lustro biansato con stemma di Leone X o di Clemente VII, Deruta, secondo-terzo decennio sec. XVI.
Londra, Victoria and Albert Museum.
il Rackham,notando come al blu e al lustro dorato si affianchi il giallo-arancio, preferisce avanzare la data fino al pontificato di Clemente (36).
In effetti, Clemente VII occupa un posto di riguardo nella produzione derutese, sui cui piatti da pompa sono peraltro effigiati molto spesso gli stemmi papali, poiché Perugia e i suoi castelli appartenevano allo stato della Chiesa, ed erano assai stretti i rapporti commerciali con Roma.
Sono dedicati a Clemente, fra l'altro, alcuni piattelli a girali con piccole foglie a goccia che terminano in grandi infiorescenze ovali (fig. 17). Si tratta di vasellame da tavola, non da pompa; lo stemma mediceo, ovale entro cornice miniata e affiancata da lacci, non reca le insegne papali, ma sotto la palla superiore, gigliata, si dispiega il nome "Clemens". Questo servizio è prezioso per datare tutta la tipologia decorativa ad esso collegata, di cui parecchi frammenti sono stati trovati in scavi romani; Deruta infatti, come Montelupo, produce quasi interamente per l'esportazione, e dipende finanziariamente e culturalmente dalla città maggiore, in questo caso Perugia, di cui costituisce quasi il sobborgo ceramico.
L'esemplare più importante
su cui compaiono lo stemma e il nome di
Clemente è probabilmente il
grande piatto toscano del
Kunstgewerbemuseum di Berlino
(fig. 18).
Si tratta di un esemplare da pompa, di grandi
dimensioni, in cui lo stemma
del pontefice, sorretto da
angeli, è affiancato dalle
allegorie della Fede e
della Carità, ed è inquadrato
da una grande arcata, su
cui è la scritta "CLEMENTE
VII.POT.MAX."
Esso
sovrasta quelli dei
Salviati e degli Strozzi, famiglie
entrambe più
volte imparentate coi
Medici: ricordiamo, ad esempio,
il matrimonio di
Lucrezia, figlia
di Lorenzo il
Magnifico, con Giacomo
Salviati; quello di Laudomia, figlia
di Lorenzo di Pierfrancesco, con
Francesco Salviati (1502); e
quello della nipote
omonima, Laudomia, che nel 1532 sposò in
prime nozze Alamanno Salviati.
Un'altra figlia
di Lorenzo, Clarice, aveva
inoltre sposato, nel 1508, Filippo
Strozzi.
La splendida fattura del piatto ha indotto la maggior parte degli autori a considerarlo opera di Jacopo, il pittore più abile della bottega di Cafaggiolo.
Gli stemmi medicei sono, come si può vedere, particolarmente frequenti nella ceramica dell'Italia centrale; non mancano tuttavia nemmeno in quella di Faenza, il più noto centro della Romagna. Faentino, ad esempio, è il piccolo boccale del Museo internazionale delle ceramiche con lo scudo di Clemente VII (scheda n. 12), la cui cronologia risulta fissata sulla base della somiglianza di alcuni suoi particolari decorativi con quelli di un boccale conservato nelle collezioni del Museo civico di Bologna, e datato "1533'' (37).
Vi è poi il grande piatto del Victoria and Albert Museum di Londra con lo stemma d'alleanza Medici-Strozzi (fig. 19) che presenta un ornato a rabeschi tracciati in blu e bianco su smalto azzurrato, ed è circondato al bordo dal caratteristico festone di Faenza, dalle foglie rigide e allungate e dai piccoli
frutti rotondi. La tipologiacorrisponde allo stile della prima metà del ' 500, ed è fra le più comuni nell' area faentina, collegata alle botteghe dei Pirotti e dei Bergantini.
L'araldica si presenta ambigua, essendo
almeno tre i matrimoni
che legarono gli Strozzi ai Medici
per il periodo indicato:
quello già menzionato di
Filippo Strozzi con Clarice,
avvenuto nel 1508, e quelli di
Pietro e Roberto Strozzi con
Laudomia e Maddalena,
figlie di Pierfrancesco, avvenuti
nel 1539. L'ipotesi
generalmente accettata
è che si tratti di Clarice, che morì
prima del marito,
nel 1528. Il Rackam
vi trova una conferma nel
fatto che ella era solita,
firmandosi, invertire
l'ordine dei cognomi consueto
alle donne sposate, mettendo prima il
proprio, e poi quello
del marito; questa
inversione si verifica infatti
anche nello stemma
d'alleanza sul
piatto, dove, nella parte
riservata di regola alle armi del
marito, si trovano invece
quelle medicee, pur non
risultando matrimoni fra
uomini della
famiglia Medici e
donne di quella Strozzi (38);
se questo fosse vero, ci
troveremmo però,
araldicamente parlando, di
fronte a un caso eccezionale e
privo di riscontri.
Il piatto, su cui le palle medicee sono colorate in una intensa tonalità rossastra, si collega tipo logicamente a una interessante produzione faentina di pezzi con stemmi toscani, fra i quali ricorderemo in particolare il servizio Guicciardini-Salviati, che reca le armi dello storico Francesco e di Maria Salviati. Esso si giustifica storicamente col fatto che il Guicciardini fu nominato da Clemente VII vicario della Romagna nel 1524, e Faenza era una delle sue sedi. Su un piatto del servizio, attribuibile alla mano del Maestro della coppa Bergantini e datato "1525", è illustrata la battaglia dei centauri e dei lapiti (fig. 20) ed è interessante notare come anche qui la gamma dei colori, piuttosto spenta, sia ravvivata dalla presenza del rosso (39). Altri esempi con caratteristiche simili, su smalto azzurrato e riferibili più o meno allo stesso periodo, sono forniti dai piatti con lo stemma d'alleanza Strozzi-Ridolfi, legato al matrimonio fra Roberto Strozzi e Marietta di Simone Ridolfi (40), e da quelli con le armi dei Salviati (41).
L'unione di stemmi diversi non avviene soltanto per matrimoni, ma anche per particolari vincoli di gratitudine e di clientela politica, o per adozione; ecco dunque che, sul piatto del Victoria and Albert con il "ritrovamento di Mosè" (fig. 21), lo stemma di Antonio Pucci è unito a quello di Clemente VII, che lo aveva elevato alla porpora e a cui era molto legato. Allo stesso modo Silvio Passerini da Cortona aveva messo in capo al proprio scudo le armi dei Medici, cui era devotissimo: era infatti stato il datario di papa Leone, ed aveva goduto poi della stima di Clemente VII. Il suo stemma, col capo mediceo, compare su un piatto da pompa nelle collezioni del museo del Bargello (fig. 22), forse commissionato alle officine derutesi quando Silvio rivestiva la carica di legato di Perugia, dal 1520. Il cardinale morì nel 1529 e, a partire dal 1523, aveva ricevuto l'importante incarico da parte del papa di assistere i giovani Ippolito e Alessandro nel governo di Firenze.
18. Grande piatto
con stemma di
Clemente VII fra due figure
allegoriche, con un arco di
trionfo sullo sfondo, su cui si
trovano gli stemmi
Salviati e Strozzi.
Cafaggiolo, 1523-'34.
Berlino, Kunstgewerbemuseum.
Dopo le vicissitudini del sacco di Roma e della ribellione di Firenze, Alessandro fu designato per volere papale duca di Toscana; sposò nel 1536 la giovanissima Margherita d'Austria, figlia naturale primogenita di Carlo V, e dopo pochi mesi, agli inizi del 1537, fu ucciso dal cugino Lorenzino. Al suo matrimonio potrebbe riferirsi un piatto ornato al centro con lo stemma d'alleanza Medici-Austria, entro un giro di motivi vegetali stilizzati "alla porcellana" (scheda n. 13).
Il piatto sarebbe stato dunque eseguito
nella seconda metà del 1536,
permettendo una
datazione estremamente
precisa della tipologia
decorativa in esso rappresentata.
Tuttavia la forma
particolarmente evoluta, e
talune somiglianze del ductus
grafico con il decoro di un boccale le
cui armi sono sovrastate
dalla corona
granducale, ottenuta dai
Medici solo nel 1569, ci fanno
sorgere il sospetto che
l'avvenimento cui lo stemma allude
sia in realtà successivo.
Potrebbe trattarsi, ad
esempio, del matrimonio fra
Francesco I e Giovanna
d'Austria, avvenuto nel
1565, e che terminò con la
morte di lei nel 1578. In
questo caso, occorrerebbe
collocare più avanti la
data di questa particolare
stilizzazione del decoro
"alla porcellana",
per la quale il piattello
costituisce un punto di riferimento
basilare (42).
Al matrimonio del padre di Francesco, Cosimo, con Eleonora da Toledo si richiama con certezza un grande piatto da pompa derutese del Museo di Écouen (fig. 23); Cosimo, figlio di Giovanni dalle Bande Nere e di Maria Salviati, nipote quindi di Caterina Sforza, succedette nel 1537 al duca Alessandro. Nel 1539 sposò Eleonora, figlia del vicerè di Napoli don Pedro Alvarez de Toledo. Fu il primo a ricevere il titolo di Granduca, dal papa Pio V, e morì nel 1574, dodici anni dopo la moglie. Il piatto fu quindi eseguito fra il 1539 e il 1562; esso reca, sopra lo scudo riccamente miniato, una corona ducale attraversata dalle tre piume, che allude chiaramente all'emblema dell'anello.
La decorazione della tesa presenta la tipica scompartizione derutese che, in questo caso, alterna embricazioni e foglie lanceolate a giral i fioriti. Come motivo di riempimento, nell'incavo sono usati i piccoli fiori quadripetali del decoro "ad arabesco", la cui data più precoce il 1514, ma che continuò ancora a lungo sul vasellame di Deruta (43). Si tratta evidentemente non di un generico omaggio ma di una commissione specifica, forse in previsione di un dono, per il quale ci si rivolse alle manifatture umbre, che erano specializzate in oggetti da parata.
In quest'ambito rientra anche il grande piatto del museo Ariana di Ginevra con lo stemma di papa Pio IV (fig. 24), Giovannangelo Medici da Marignano, che fu eletto nel 1559 e morì nel 1565. Non discendeva dalla celebre famiglia fiorentina, ma apparteneva ai Medici di Nosigia, una delle più importanti diramazioni del ramo milanese dei Medici, che alcuni storici del XVII secolo ritengono collegato a quello di Firenze.
Il fratello Gian Giacomo, che aveva conseguito, dopo una brillante carriera ,
militare il titolo di marchese di Marignano, lo chiamò a Roma, dove divenne un grande protetto di Paolo III Farnese. Divenuto a sua volta pontefice, a lui si deve la conclusione del Concilio di Trento, le cui sedute erano state per lungo tempo sospese, e che egli riconvocò su ispirazione di Carlo Borromeo, futuro santo, figlio di sua sorella Margherita e suo stretto consigliere e collaboratore.
Ad una produzione più comune, forse eseguita per motivi clientelari, sembrano invece doversi attribuire alcuni boccali del Museo di Roma (schede nn. 18-19) della cui tipologia si sono trovati frammenti nel sotto suolo della città (44)'. Essi furono eseguiti probabilmente come omaggio a papa Pio IV, oppure possono essere collocati nel periodo in cui il cardinale Ferdinando dei Medici, futuro granduca di Toscana e fratello di Francesco I, soggiornò a Roma (1574-1587). Egli iniziò qui la costruzione della villa Medici al Pincio, e radunò un'importante collezione di marmi antichi attualmente agli Uffizi (45). Questi boccali, dalla forma rotondeggiante, tipica della produzione romana, recanti lo stemma sul ventre, sottolineano quindi l'importanza della presenza medicea a Roma nella seconda metà del '500.
Dopo la sua elezione a granduca, Ferdinando abbandonò la porpora cardinalizia per sposare Cristina di Lorena nel 1589. A questo matrimonio rimandano alcune importanti fiasche, di manifattura montelupina (fig. 25), che recano lo stemma Medici-Lorena entro un motivo a grottesche su fondo bianco (raffaellesche), derivate dalla decorazione ceramica urbinate.
Questo gruppo di oggetti particolarmente raffinati presenta oltre a tutto inserti di medaglioni con cammei e ritratti, che ne sottolineano la destinazione da parata, probabilmente su diretta commissione della corte.
Ad una produzione elevata, ma più specificamente farmaceutica appartengono invece i versatori, anch'essi con decoro a raffaellesche, con lo stemma Medici-Austria, questa volta in relazione al matrimonio fra Cosimo II e Maria Maddalena d'Austria, avvenuto nel 1608. L'esemplare qui esposto (scheda n. 24) reca la data "1617", mentre un altro piatto dello stesso servizio, anch'esso nel Museo del Bargello, è datato "1626" (46), e testimonia come la granduchessa continuasse a commissionare opere con il proprio stemma matrimoniale anche dopo la morte del consorte, avvenuta nel 1621.
Anche il disco del museo di Deruta (scheda n. 25), molto simile per lo stemma e la stilizzazione decorativa, è opera della stessa manifattura di Montelupo che produsse i versatori.
Difficilissimo invece proporre un'attribuzione per il piatto su cui figura lo stemma Gonzaga-Medici (scheda n. 22): il riferimento è a Vincenzo Gonzaga ed Eleonora dei Medici, figlia di Francesco I, sposi nel 1584, oppure alle nozze tra Ferdinando Gonzaga e Caterina, figlia di Ferdinando I, avvenute nel 1617.
Stilisticamente, entrambe le ipotesi sono possibili: il piatto appartiene infatti
21. Piatto del servizio con stemma Medici- Pucci, con il "ritrovamento di Mosè", Urbino, 1531-'44.
Londra. Victoria and Albert Museum.
22. Piatto da pompa con lo
stemma
Medici-Passerini, entro
tesa a
scomparti. Deruta,
1520-'29.
Firenze, Museo
Nazionale del Bargello.
alla tipologia dei "Bianchi", collocabile fra la seconda metà del secolo XVI e la prima del XVII, che valorizzano particolarmente lo smalto di base, bianchissimo e straordinariamente ricco e pastoso, con forme elaborate e decorazione veloce e "compendiaria".
I "bianchi" furono inizialmente un vanto della ceramica faentina, tuttavia si diffusero con estrema rapidità in altri centri italiani, e più tardi addirittura europei.
Sebbene il piatto Gonzaga-Medici sia stato talvolta attribuito a Faenza (47), lascia perplessi la stilizzazione graficamente precisa dello stemma, che sembra aver poco a che vedere con la rapidità di tocco del compendiario faentino. Il Mallet ne ipotizza la provenienza da officine toscane, forse monte lupine (48); non bisogna però dimenticare che anche Mantova ha avuto una produzione di maiolica, e che vi erano presenti maiolicari di altri centri, sia toscani che faentinì (49).
Per quel che riguarda la ceramica toscana, il secolo XVII sembra essere stato un periodo di progressiva decadenza. Montelupo produsse sapidi piatti di tono popolaresco, ma l'epoca del granduca Ferdinando II (1625-'70) non sembra avere favorito alcuna importante ripresa qualitativa di queste manifatture, che pure continuarono ad avere un notevole diffusione a livello popolare.
Il granduca fu particolarmente amante delle scienze e della pittura contemporanea, incrementò le collezioni e favorì la produzione dei mosaici in pietra dura; la ceramica non fu probabilmente tra i suoi interessi, anche per il difficile momento che essa stava attraversando sia in Toscana che nel resto d'Italia.
Possiamo però notare il particolare sviluppo di una produzione di orci e vasi localizzata a Santa Maria Impruneta, legata sia a una destinazione farmaceutica (ad esempio, per S.Maria della Scala, datata 1661 (50) sia a complessi architettonici come ville e giardini (fig. 78).
E tuttavia proprio al matrimonio di Ferdinando II con Vittoria della Rovere (1634), ultima discendente dei duchi di Urbino, dobbiamo la presenza a Firenze, nelle collezioni medicee, di alcuni capolavori della maiolica urbinate del '500, che attualmente si trovano in parte al museo del Bargello.
Si apprezzava a corte la prestigiosa maiolica cinquecentesca, mentre le officine contemporanee tendevano ad abbassare il proprio livello ad una produzione senza alcuna pretesa di eleganza, ma di grande praticità e diffusione.
I boccali provenienti dalla fortezza medicea di Grosseto (schede nn. 27-29), datati fra la fine del '600 e gli inizi del '700, testimoniano questa produzione di uso quotidiano, nella loro semplicità sia di forma che di grafia decorativa. Lo stemma, che congiunge le palle medicee e la balzana di Siena, è infatti tracciato in maniera estremamente corsiva, ed unisce l'omaggio alla dominazione medicea con il segno di appartenza al territorio senese, da cui la provincia maremmana fu staccata soltanto nel 1766.
E’ questa l'epoca dei granduchi Cosimo III (1670-1723) e Gian Gastone (1723-37), che segna la piena decadenza della famiglia, che si estinguerà nel 1737 lasciando la successione ai Lorena.
E’ tuttavia possibile ricordare un ultimo
episodio di mecenatismo dei Medici
nei confronti della ceramica, la
protezione accordata da Violante di
Baviera, vedova di Ferdinando dei Medici,
governatrice di Siena, ai Terchi,
maiolicari originari
di Bassano di Sutri, e al senese
Ferdinando Maria Campani, che
onorarono la
loro benefattrice dando il
suo nome alle proprie figlie (51). Si tratta
naturalmente di
protagonisti di
eccezione nel campo della
maiolica, che nobilitano
l'arte in un momento in cui essa può
ancora esprimersi a livelli
qualitativamente altissimi,
prima dell'inevitabile
declino della fine del secolo, di
fronte alla concorrenza
della porcellana e della
terraglia.
NOTE
1. Archivio di Stato di Firenze, Carteggio Medici avanti il principato, in G. Guasti,Di Cafaggiolo e d'altre fabbriche di ceramiche in Toscana ... , Firenze 1902, p. 461 appendice. 2. 6 scodelle, 6 scodellini, 6 quadri tondi, 2 piattelli grandi, 2 piattelli mezzani, 4 piatttelletti da posare,5 tazze, 1 bacino colla mescirobbe, 2 coppe da frutti, 2 confettiere col coperchio, due candelieri, 1 rinfrescatoio.
3. Archivio di Stato di Firenze, Carteggio privato dei Medici, filza 43. In Gaye, Carteggio inedito d'artisti dei secoliXIV, xv, XVI, pubblicate ed illustrate con documenti pure inediti, Firenze 1839, tomo I, pp. 304-305.
4. A. Rubbiani, Una piccola fabbrica di ceramiche nel 'Podestà' di Bologna ?, in "Faenza" I, 1913, p. 72.
5. A. Satolli, Fortuna e sfortune della ceramica medioevale orvietana, in "Ceramiche medioevali dell'Umbria", a cura di G. Guaitini, Firenze 1981, p. 68 e nn. 51 e 119.
6. Ib. nn. 51 e 119.
7. U. Nicolini, Divagazioni sull' arcaico derutese, in "Omaggio a Deruta", Firenze 1986, p. 23.
8. U. Nicolini, La ceramica di Deruta: organizzazione, economia, maestri. I documenti. In "Antiche maioliche di Deruta", a cura di G. Guaitini, Firenze 1980, p. 23.
9. M. Spallanzani,M aio/iche di Valenza e di M, ontelupo in una casa pisana del 1480 , in "Faenza" LXXII, 1986,3-4,164-169.
10. Ibidem p. 166.
11. T. Wilson, Maioliche rinascimentali armoriate con stemmi fiorentini, in "L'araldica fonti e metodi", atti del Convegno Internazionale di Campiglia Marittima, 6-8 marzo 1987, Giunta Regionale Toscana 1989, pp. 128-131.
12. A. Frothingham, Lustreware of Spain, New York 1951, p. 127.
13. T. Wilson, Some Medici devices on pottery, in "Faenza" LXX, 1984,5-6,433.
14. F. Ames Lewis, Early M edicean devices, in "J ournal of the Warburg and Courtauld Institutes", 42, 1979, pp. 126-127.
15. M. Spallanzani, Il vaso Medici-Orsini di Detroit in un documento d'archivio, in "Faenza" LX, 1974, IV-VI, p. 90.
16. U. Middeldorf, Medici Pottery of the 15th century, "Bulletin of the Detroit Institute of Arts", XVI, 1937, fasc.III. Anche in "Faenza" XLI, 1955, I-II, pp. 3-7.
17. Ad esempio in T. Wilson, op. cit. 1989, fig. 8, p. 132.
18. M. Spallanzani, op. cit., pp. 89-90.
19. inv. MLA 1892,6-17,2, T. Wilson, Ceramic art oftheItalian Renaissance, London 1987, n.19.
20. M. Gonzales Marti, Ceramica del levante espaiiol, Barcellona 1944, pl. 523, fig. n. 637.
21. Le opere di Giorgio Vasari con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi. Ragionamenti. Firenze 1973, VIII, p. 120.
22. P. Giovio, Dialogo delle imprese militari e amorose, Roma 1978, p. 75.
23. B. Rackham, Victoria and Albert Museum, Catalogue oj Italian Maiolica, London 1940, n. 318, pp. 111-112.
24. Per un quadro aggiornato dell'attività ceramica a Cafaggiolo, v. A. Alinari, Maioliche marcate di Cafaggiolo, Museo Nazionale del Bargello, Firenze1987. Per l'affitto pagato dai vasai alla famiglia proprietaria del castello, v. G. Cara, Storia della maiolica di Firenze e del contado: secoli XIV e XV, Firenze 1973 p. 115. Per la lettera in cui, nel 1521, il maestro di casa di Lorenzo di Pierfrancesco, all'epoca proprietario del castello, si dice pronto all'invio di maioliche che aveva acquistato dai vasai, v. G. Guasti, op. cit., 1902, p. 107.
25. Come rileva l'Alinari (op. cit. p. 9) occorre però spiegare come mai le opere attribuite a J acopo appartengano tutte al primo quarto del secolo, mentre il pittore risulta ancora attivo fino al 1576.
26. G. Cora e A. Fanfani, La maiolica di Cafaggiolo, Firenze 1982, n. 14.
27. T. Wilson, Some Medici Devices on pottery, in "Faenza"LXX, 1984,5-6, p. 435. Il riferimento che sostiene questa interpretazione è dato dal fatto che su uno degli archi eretti in occasione dell'incoronazione del papa, nell'aprile 1313, figurava la ruota della fortuna immobilizzata affinché il papa ne potesse fruire per sempre.
28. A. Alinari, Un piatto araldico ed il problema dei lustri a Cafaggiolo, in "Ceramica antica", Ferrara, anno I, n. 3, marzo 1991, pp. 25-32.
29. Ricordiamo il notissimo documento con cui Francesco Antinori si impegna ad acquistare direttamente per tre anni l'intera produzione di ventitré botteghe montelupine; inoltre, dopo l'assedio imperiale del 1530, non risulta vi fossero più in Firenze manifatture di ceramica (F. Berti,Premessa, in F. Berti - G. Pasquinelli,Antiche maioliche diM ontelupo, secoliXIV-XVIII, Pontedera 1984, p. 9).
30. F. Berti - G. Pasquinelli,Antiche maioliche diM ontelupo, secoli XIV-XVIII, catalogo di mostra, Pontedera 1984, p. 10.
Perle notizie sulla bottega "Lo" e sul pittore "numero 4", v. A. Alinari, Una bottega di maioliche in Montelupo agli inizi del XVI secolo, in "Atti del XVI convegno internazionale della ceramica, 1983", Albisola 1985, pp. 199-206.
32. Ib. p. 201.
33. F. Ames Lewis, op. cit., pp. 134,135,138.
34. F. Ames Lewis, op. cit., pp. 135-136.
35. J. C. Robinson, Catalogue ofthe Soulages Collection, London 1856, p. 61.
C. D. E. Fortnum, A
descriptive
catalogue
of the majolica,
hispano-moresque,
Persian,
Damascus
Rhodian wares
in the South
Kensington
Museum,
London 1873, p. 217.
36. B. Rackham, Victoria andAlbert Museum. Guide to Italian maiolica, London 1933, p. 46.
Id., Victoria
andAlbert,
Department ofceramics.
Catalogue
ofltalian
majolica,
London 1940,
n.488.
37. C. Ravanelli Guidotti, La donazione Angiolo Fanfani, in "Faenza" 1990, p. 275.
38. B. Rackham, op. cit. 1940, pp. 16-22.
39. MLA 1855, 12-1,65., in T. Wilson, op. cit. 1987, n. 45.
40. Sévres, museé national de la ceramique,
inv. 3630, J.
Giacomotti,Les
majoliques
des musées
nationaux, Parigi
1974, n. 299.
41. British Museum, inv. MLA 1855,12-1,100, in Wilson op. cit. 1987, n. 113.
42. A. Moore
Valeri,La mezzaluna
dentata. Le
sue origini ed
il suo
sviluppo, in
"Faenza" LXX,
1984,
5-6, pp. 376 e 378.
43. C. Fiocco - G. Gherardi,
Ceramiche umbre dal
medioevo allo
storicismo,
parte prima,
Faenza
1988, p. 86.
44. M. Ricci, Note
sul consumo della
ceramica da
mensa nel
conservatorio di Santa
Caterina
della
Rosa, in Roma,
secoli XVI e
XVII, in "Atti del XIX
convegno internazionale
della
ceramica",
Albisola, 1986, pp. 221,
fig. 5.
45. Artisti alla corte granducale, catalogo di mostra, Firenze1969, p. 11.
46. Inv. maioliche n. 621,
in G. Conti,MuseoNazionale di
Firenze, palazzo
delBargello,
Firenze
1971, n.
621.
47. G. B. Siviero, Ceramiche nel
palazzo ducale di Mantova,
catalogo di mostra, Mantova
1981,
p. 74. M. Palvarini Gobio
Casali, La
ceramica a
Mantova, Ferrara 1987, p. 207.
48. 1. Mallet,
Pomp and
Circumstance, in
"Splendours of the Gonzaga", a cura di
D. Chambers
e J. Martineau, catalogo di mostra,
London 1982, p. 239.
49. G. B. Siviero, op.
cit., pp. 34-35. M.
Palvarini Gobio Casali, La
ceramica a Mantova,
op.
cit., p. 220.
50. A. Alinari,
Ceramica
postmedievale
in zona fiorentina.
Un profilo. In "Ceramica
toscana dal
medioevo al VIII secolo", a cura di G. C.
Bojani, catalogo di mostra,
Monte San Savino 1990,
p. 133
e p. 150.
E. Pelizzoni - G.
Zanchi, La maiolica dei
Terchi, Firenze
1982,
introduzione, "A
Siena",
senza
indicazione di pagina.