Castelli è un paese in provincia di Teramo, ai piedi del Gran Sasso. Circondato da una natura lussureggiante, perfetto per una vacanza, unisce la bellezza naturale all’arte ceramica. Ancora oggi chi ne percorre le vie passa da una bottega di ceramista all’altra, dove artigiani di eccezionale perizia ripetono e reinterpretano i motivi dell’antica maiolica. Castelli infatti è stata, dal Cinquecento fino alla fine del Settecento, uno dei più importanti centri di produzione della maiolica in Italia. Perché proprio in questo paese dall’aria inaccessibile si sviluppò quest’arte? Di sicuro c’era abbondanza di terre, di combustibile e di acqua. Inoltre la sua posizione lontano dai grandi centri evitava a questi ultimi il rischio di incendio, inscindibile dal mestiere di ceramista a causa dell’uso della fornace. E comunque le comunicazioni non dovevano essere così proibitive, visto che la sua produzione è sempre aggiornata e per niente provinciale. Questo è soprattutto dovuto alle costanti relazioni con Napoli, allora città fra le maggiori e più cosmopolite d’Europa, e vivacissimo centro di cultura.
L’attuale interesse per Castelli trae origine da una grande mostra interamente dedicata alla sua maiolica, che sta per aprirsi presso la Pinacoteca di Teramo. Vi verrà esposta una selezione di ben 219 opere provenienti da una prestigiosa collezione privata, quella dell’Ing. Giuseppe Matricardi di Ascoli Piceno, per il quale la maiolica è addirittura una tradizione familiare. Il nonno infatti fondò infatti la manifattura di Maioliche Artistiche Matricardi ad Ascoli, attiva dal 1922 al 1934. A lui si deve il primo nucleo della collezione che l’ing. Matricardi ha sempre più ampliato, trasformandola in una fra le più importanti e complete esistenti su Castelli. Oggi finalmente essa viene esposta al pubblico, e messa a disposizione di quanti vogliono conoscere questa produzione, studiarla o anche soltanto rallegrarsi guardando oggetti di straordinaria bellezza.
Percorrendo la mostra, è possibile seguire passo passo, senza lacune, l’evoluzione della maiolica castellana dal Cinquecento alla fine del Settecento, e l’opera dei maggiori maestri. Tutti vi sono infatti rappresentati, spesso con opere inedite che gettano nuova luce sulla loro storia. La caratteristica principale della collezione è infatti, oltre all’altissima qualità degli oggetti, la coerenza con cui sono stati scelti, in modo che sia testimoniato ogni aspetto della produzione. La mostra ha quindi una forte valenza didattica, poiché permette al visitatore di cogliere una visione organica di tre secoli di maiolica di Castelli, di percepirne i cambiamenti e l’adesione ai vari stili che si sono succeduti nel tempo, dal manierismo al barocco al rococò, fino all’esaurimento di quest’ultimo e all’apparire dei primi accenti neoclassici.
Ecco dunque, in grande evidenza all’inizio del percorso, i grandi servizi farmaceutici, capolavori del Cinquecento. Nei secoli precedenti vi è sicuramente stata a Castelli una produzione ceramica, ma è ancora di difficile definizione. Nel Cinquecento invece essa si manifesta in forme pienamente mature, smalti brillanti e vividi colori. Delle tipologie esposte ricorderemo, per la loro importanza e rarità, due preziosi albarelli del corredo che viene chiamato “B”, dalla lettera iscritta sul retro, e che è fra i più affascinanti e discussi della maiolica italiana. I curatori ne sostengono qui l’attribuzione a Castelli, supportata da un’affinità di smalto e di suddivisione decorativa con il corredo successivo, l’Orsini-Colonna, che appartiene sicuramente alla cittadina abruzzese. Anche una perizia tecnica, inserita nel catalogo, attesta la sostanziale compatibilità fra i due corredi.
Il gusto per i colori brillanti si attenua, dopo la metà del secolo, quando in tutti i centri italiani si diffonde il cosiddetto Compendiario. Il nuovo stile propone infatti una formula inedita: grande evidenza viene data allo smalto di fondo, generalmente bianco, ricco e pastoso, mentre la decorazione è eseguita in maniera rapida e in una gamma di colori ridotta, blu e giallo-bruna, con qualche tocco di verde. A Castelli ne propongono anche una particolare versione, nella quale lo smalto è di un turchino brillante, con abbondante utilizzo dell’oro: tipologia sontuosa, ambìta dalle grandi famiglie, fra cui i Farnese. Nella grande quantità di esemplari che illustrano il compendiarie segnaliamo un vaso di estrema rarità e bellezza, che unisce la raffigurazione del volto di Cristo a quella di offerenti che reggono in mano grandi vasi, di sapore quasi paleocristiano.
La terza sala è interamente dedicata a Francesco Grue e Berardino Gentili “il vecchio”, primi rappresentanti di spicco delle due maggiori dinastie di maiolicari castellani. Muovendo dal compendiario, Francesco lo supera decisamente, iniziando a dipingere sulla maiolica vere e proprie storie, anche molto complesse: battaglie, allegorie, episodi biblici ed evangelici. Per farlo ha bisogno di un supporto figurativo, che gli fornisca l’iconografia e, perché no, anche lo stile. Egli trova tutto ciò nelle stampe, dalle quali ricava gli spolveri che gli consentono di trasferire a ricalco le immagini sullo smalto ancora crudo. Frutto di un lavoro difficile e impegnativo, le maioliche così eseguite sono spesso destinate alla decorazione della casa più che all’uso, e vengono inserite in pannelli e in boiseries. Giganteggia nella sala un grande piatto con la raffigurazione di un trionfo, inserito in un ricco pannello di legno scolpito, che in origine apparteneva forse a un soffitto. Quanto a Berardino “il vecchio”, proprio da questa mostra egli riceve particolare risalto, quasi una consacrazione, e la sua maniera ne esce ben connotata. Privo di una bottega propria, egli lavorò a fianco del Grue e successivamente presso i Pompei, contribuendo alla formazione del grande figlio di Francesco, Carlo Antonio. Splendido interprete del barocco, Carlo Antonio perfeziona l’innovazione paterna utilizzando per le sue opere una incredibile quantità di stampe, che egli è in grado di tradurre sulla maiolica con efficacia e abilità espressiva. Per sottolineare l’eccellenza di questo artefice, una sua opera è stata scelta quale emblema di tutta l’esposizione. Si tratta di un tondo con il Trionfo di Bacco e Arianna, ispirato agli affreschi del palazzo Farnese a Roma, e commissionato dalla nobile famiglia degli Avalos, di cui reca lo stemma. E’ ammirevole il modo con cui l’artefice utilizza l’oro, tecnica anche questa già in uso nella bottega paterna, per impreziosire i suoi pezzi senza però appiattire il resto della decorazione, che mantiene intatto il suo risalto.
Accanto alle opere di Carlo Antonio sono esposte quelle di Francesco Antonio, uno dei suoi figli. Egli proseguì l’opera paterna, ma si avvantaggiò grandemente dal trasferimento a Napoli, che rese il suo stile più moderno e apprezzato. Ebbe anche l’incarico di rifornire di vasellame le farmacie di due monasteri calabresi, quello per i domenicani di Soriano calabro e quello certosino di Serra San Bruno, da cui proviene il grande vaso su cui è raffigurata l’estasi del santo. Gli altri figli di Carlo Antonio, soprattutto Aurelio e Liborio, ereditarono anch’essi, assieme ai suoi beni, il suo talento. Nella quinta sala dell’esposizione possiamo vedere le loro opere assieme a quelle dei figli di Berardino “il vecchio”, Giacomo e Carmine Gentili. Vorremmo qui attirare l’attenzione sull’unico manufatto attribuibile a Saverio, figlio di Francesco Antonio. Si tratta di un ovale con la raffigurazione di Santa Irene, e la sua peculiarità è data dal supporto, che non è terracotta bensì porcellana. Saverio, vissuto per lo più a Napoli, è infatti il tramite fra la maniera castellana e questo nuovo materiale, con cui venne a contatto operando come pittore presso la Reale Fabbrica Ferdinandea. E’ un oggetto veramente raro, e rappresenta quasi la rivincita del pittore, cui era stata negata l’ammissione alla manifattura di Capodimonte con il pretesto che ben altra cosa era dipingere sulla porcellana rispetto alla maiolica..
Con Saverio, e con i figli di Carmine Gentili, Giacomo e Berardino “il giovane”, inizia l’abbandono del barocco e l’adesione ai modi più gradevoli e leziosi del rococò. Verso la fine del Settecento troveremo addirittura, nella maiolica di Castelli, la “porpora di Cassio”, tonalità rosa intenso derivata dall’oro, che tanto aveva contribuito al successo delle porcellane di Sèvres. Passata in seguito alla maiolica, si era diffusa anche nei centri italiani, fra cui Castelli. Gesualdo Fuina pare l’avesse acquistata a caro prezzo, cercando poi di tenerla per sé. Con le opere del Fuina, a cavallo fra Settecento e Ottocento e già inclinate verso il neoclassico, si conclude l’esposizione. Siamo convinte che chiunque la visiti ne uscirà arricchito, e con un’idea precisa del perché la maiolica di Castelli sia universalmente apprezzata. La mostra evidenzia inoltre quanto sia importante incentivare l’esposizione delle collezioni private, che non potrebbero altrimenti essere fruite da molti e rimarrebbero praticamente sconosciute. E’ grazie al collezionismo privato che molte opere in passato uscite dall’Italia, e finite in altre nazioni europee o negli Stati Uniti, stanno ora rientrando in patria, e contribuendo a ripristinare l’integrità del nostro patrimonio artistico.