Carola Fiocco - Gherardi Gabriella, in "Faenza", bollettino del Museo internazionale delle ceramiche in Faenza, XCV, 2009, 1-6, p. 64
ALLA RICERCA DI ANTONIO
L’opera di Antonio Patanazzi rappresenta, per la maiolica rinascimentale, un’autentica zona d’ombra: è infatti praticamente sconosciuta. Antonio disponeva di una propria bottega già nel 1540, ma solo nel 1580 compaiono opere a lui riconducibili in quanto contrassegnate col suo nome. Vi sono dunque quaranta anni di vuoto da colmare, durante i quali solo i documenti di archivio ne attestano la costante attività nell’ambito della maiolica urbinate. Il nostro scopo è per l’appunto contribuire a questa ricerca, delimitando quello che, a nostro avviso, è il suo stile personale, a partire dai pezzi sicuramente suoi.
La figura storica di Antonio emerge con una certa chiarezza dalle ricerche di Don Franco Negroni negli archivi di Urbino, che hanno prodotto documenti di estremo interesse[1]. Ne risulta che era figlio di Giovanni Patanazzi e di Battista, sorella di Nicola Sbraghe. Era dunque nipote, per parte di madre, del grande maestro urbinate di istoriati comunemente chiamato Nicola da Urbino. Era anche imparentato con i Fontana [2]. Poiché rimase orfano molto presto, questo potrebbe avere indotto lo zio Nicola e Guido Durantino Fontana, entrambi capi-bottega, a prenderlo come apprendista e renderlo esperto nell’arte dei vasi[3]. Nel 1540 Antonio sposò Pantasilea, figlia del vasaio Federico di Giannantonio, e si mise in proprio.
In seguito la documentazione lo associa quasi sempre ai Fontana. Nel 1553 e nel 1560 Antonio fa da garante, assieme a Guido e Orazio, su questioni riguardanti i figli di Nicola Sbraghe. E’ anche molto probabile che sia lui quell’Antonio da Urbino vasaio che, nel 1562, è menzionato in un documento di pagamento della tesoreria reale di Torino per il rimborso di un viaggio a Urbino e successivo ritorno presso sua Altezza Emanuele Filiberto. Il 6 gennaio 1564 questo Antonio, assieme a Orazio Fontana, riceve un compenso per alcuni vasi destinati al Duca; il 25 agosto successivo egli è rimborsato per un viaggio fatto allo scopo di accompagnare le maioliche del Duca in Francia. Contestualmente si menziona un pagamento a Orazio, definito “capo mastro de vasari de S. Alt.”, per il quale aveva fatto da mallevadore l’arcivescovo di Torino Girolamo della Rovere[4]. Sembrerebbe dunque che Orazio fosse il protagonista di questo incarico presso il Savoia, ma che importante fosse anche la presenza di Antonio, e che i due lavorassero insieme.
La contiguità fra Orazio e Antonio è confermata da un documento successivo alla morte di Orazio, avvenuta nel 1571. Quando, nel maggio 1978, ottemperando alla volontà paterna, sua figlia Virginia restituisce alla madre la dote, risulta che vi era compresa una certa quantità di vasellame, parte del quale decorato a istoriato e a grottesche, che si trovava depositata presso il maestro Antonio Patanazzi. Questi dunque conservava nel proprio magazzino del vasellame di proprietà di Orazio. Alla morte di Orazio l’attività della sua bottega sembra proseguire col nipote Flaminio, che già nel 1564 aveva fornito assieme allo zio vasellame al Granduca di Firenze[5].
Antonio morì il 24 maggio 1587; la sua è una lunga carriera. Eppure, le uniche opere riconoscibili, in quanto recano il suo nome, sono datate 1580. Salvo ulteriori scoperte, sembrerebbe che solo allora egli sentisse il bisogno di firmare, quando ormai doveva essere già vecchio. Era comunque in attività almeno da quaranta anni. Com’è possibile che della sua opera precedente non sia rimasta traccia? L’ipotesi più attendibile è che egli abbia lavorato per lo più in stretto contatto con la bottega dei Fontana, con Orazio innanzitutto, quindi con Flaminio, e che entro il vasellame ad essa attribuito sia da rintracciarsi la sua mano. Tenteremo qui di fornire qualche spunto in questa direzione.
Le opere firmate da Antonio di cui siamo al corrente sono soltanto tre. Innanzitutto vi è un vaso a grottesche di cui non conosciamo l’attuale collocazione, ma che un tempo si trovava nella collezione Spitzer, e che è riprodotto nel relativo catalogo [6] (fig.1). Sul basamento recava la scritta “M° ANTONI .PATANAZ.VRBINI.1580”. Vi sono poi due vasi da pompa recanti lo stemma del corredo farmaceutico di Roccavaldina.
Di questi uno, proveniente anch’esso dalla collezione Spitzer, si trova ora nel Museo internazionale delle ceramiche di Faenza (MICF), e reca nel basamento la scritta ”M° ANT O/NI. / PATAZ/I / VRBINI./.1580” (fig.3). Un secondo vaso, simile al precedente, è tuttora conservato a Roccavaldina e reca scritto “M° ANTO / NIO / PATAN / AZI. VRBINI / 1580” (fig.4). Questi tre vasi sono tutto ciò che resta collegabile collegabile con assoluta certezza ad Antonio. Le scritte non attribuiscono l’esecuzione alla sua bottega, come avviene per i vasi recanti sul basamento il nome di Orazio Fontana[7], che sono pertanto meno significativi; riportano invece il solo nome di Antonio, preceduto dal titolo di maestro. Questo dovrebbe realmente indicare l’ autografia.
Naturalmente ciò non implica che Antonio abbia personalmente dipinto l’intero corredo di Roccavaldina. Nel 1580 i due figli, Giovanni e Francesco, dovevano essere già attivi nella bottega [8], ed è probabile che abbiano largamente partecipato all’esecuzione delle commissioni assunte dal padre, per non parlare di altri eventuali aiuti. E’ possibile che la mano di Antonio sia da riconoscersi soltanto negli esemplari più grandi e visibili, e non, come si è soliti fare per estensione, nell’intero corredo[9].
Di conseguenza, per recuperare l’opera di Antonio partiremo dai soli oggetti firmati, rintracciandone altri ad essi strettamente collegati, che per affinità stilistica appaiono eseguiti dalla stessa mano.
Il vaso un tempo nella Spitzer (fig.1) consente di attribuire ad Antonio un esemplare di forma simile, con grottesche praticamente uguali, conservato a Dresda[10] (fig.2). Consente anche di individuare un tipo di grottesca assegnabile direttamente alla sua mano, poiché si trova su un vaso firmato. Vi ricorrono elementi caratteristici, come piccoli cammei a fondo blu o nero incorniciati di perle, sfingi con braccia a serpente e la parte inferiore del corpo attorta in una stretta spirale conica, draghi con la testa di rapace
terminanti anch’essi talvolta a spirale, uccelli, chiocciole[11].
Questo tipo di grottesca si ripete in parte nei vasi di Roccavaldina(fig.3,4), con numerose aggiunte e variazioni sul tema, fra cui delfini dalla bocca spalancata e dentata, satiri in corsa con drappeggi svolazzanti, pavoni, sfingi che reggono corone, mascheroni, orsi araldici. E’ probabile che nella bottega, specie per commissioni importanti, più persone collaborassero anche alle grottesche. Ribadiamo però che la presenza della firma sul vaso Spitzer, che è esclusivamente a grottesche, sembra collegare personalmente ad Antonio questa specifica tipologia.
Per quanto riguarda gli istoriati, il riferimento obbligato è costituito dai due vasi firmati con stemma di Roccavaldina, quello del MICF (fig.3) e quello ancora conservato assieme al resto del corredo (fig.4). Entrambi sono ornati con scene della vita di Cesare, tratte dai disegni che gli Zuccari avevano fornito ai Fontana per la credenza spagnola[12]. L’uso di questi disegni è una costante della bottega Patanazzi, specie all’epoca di Antonio. A Roccavaldina essi ricorrono molto spesso, e forse proprio a questo uso intensivo si riferisce Annibal Caro nella famosa lettera del 15 gennaio 1563 a Vittoria Farnese Della Rovere in Urbino, in cui rileva che i disegni, pur essendo conclusa l’esecuzione della credenza, erano rimasti presso i maiolicari del luogo[13]. Viene così ulteriormente sottolineata la familiarità e continuità con i Fontana, cui pare fossero stati originariamente affidati. Antonio può infatti disporne liberamente.
Il vaso del MICF (fig.3) reca la scena raffigurante i Galli che si lamentano con Cesare della ferocia di Ariovisto. Questa scena si ripete anche su una coppa del museo Herzog Anton Ulrich di Braunschewig[14] (fig.5), in cui è riportata sul retro la spiegazione (“FRANCIA SI DVOL DEL FIERO ARIOVISTO”), probabilmente fra quelle elaborate dal segretario del Duca di Urbino Muzio Giustinopolitano per la Credenza Spagnola, secondo le informazioni fornite da Paolo Mario[15]. Benché la scena sul vaso sia meno accurata, e mostri una maggior tendenza alla deformazione grottesca dei personaggi, frequente a Roccavaldina, non vi è dubbio che entrambi, vaso e coppa, siano stati dipinti dalla stessa mano[16].
La scena sulla coppa è eseguita con straordinaria precisione e qualità, ed è circondata da una fascia a grottesche, fra le quali spiccano i piccoli cammei a fondo scuro, i draghi dalla testa di rapace e gli inconfondibili satiri in corsa che reggono un drappeggio svolazzante. Sul rovescio circonda il bordo una sequenza di satiri in corsa, sirene bifide con terminazioni a serpente, delfini dalla bocca dentata spalancata, cammei etc. e, attorno alla base, una fascia di motivi triangolari dalla punta dei quali nasce un giglio stilizzato. Fra la fascia a grottesche e quella a gigli si dispone la scritta, in stampato (fig.19).
Nello stesso museo, e in molti altri, sono conservate altre coppe con scene zuccaresche della vita di Cesare, tutte con gli stessi caratteri stilistici e tutte attribuibili su questa base ad Antonio Patanazzi[17]. L’intero gruppo si differenzia dal corredo di Roccavaldina, soprattutto per l’assenza di quella tendenza a deformare le figure e a renderle bamboleggianti che è così tipica nei vasi farmaceutici siciliani[18]. Nelle coppe il pittore vuole apparire al suo meglio, e tratteggia le figure con grande serietà, senza concedersi semplificazioni se non in quelle più lontane e parzialmente visibili, sul fondo. Più che da una evoluzione cronologica, questo ci pare dipenda dalla diversa committenza, che determina il livello di impegno da parte dell’autore. A questa conclusione ci porta la magnifica coppa del Museo di Pesaro(fig.6) datata 1585, con il Trionfo “del Ponto” dopo la campagna d’Asia condotta da Cesare contro Farnace, anch’essa modellata su un disegno di Taddeo Zuccari[19], molto vicina stilisticamente alle coppe precedenti. Reca però, sul rovescio, quattro putti che nuotano appoggiandosi a delfini. Qui le fisionomie appaiono prive di forzature o deformazioni, e sono accuratamente descritte..
A questa fase, che ruota attorno agli anni ottanta, appartengono anche, a nostro avviso, la coppa della collezione Del Prete di Pesaro con l’incontro fra Cesare e Crasso (fig.7) e la fiasca della collezione Strozzi Sacrati con il Patto per la santificazione del sabato e, sull’altro lato, Agar e l’angelo [20](fig.8).
Bastano queste opere per formare un gruppo omogeneo e stilisticamente definito [21]. Lo stile di Antonio ci appare ormai riconoscibile, con elementi che si ripetono e che si prestano a confronti “morelliani” con altri esemplari, allo scopo di ampliare il repertorio.
Come prevedibile, questo ampliamento avviene in direzione di tipologie prestigiose, quelle genericamente attribuite (in modo piuttosto indifferenziato) ai Fontana. Abbiamo già sottolineato la contiguità fra i due maestri, il fatto che lavoravano insieme, e che Antonio conservava presso di sé vasi di proprietà di Orazio. Non desta dunque meraviglia se l’opera si intreccia e si svolge all’interno di tipologie simili, probabilmente per le stesse commissioni.
Un esempio di particolare evidenza è fornito da un grande vassoio conservato al Louvre, (fig.11), dove troviamo ancora una volta i Galli che si lamentano di Ariovisto, secondo il disegno di Taddeo Zuccari. Si presta dunque particolarmente bene a un confronto con le due precedenti versioni della stessa scena (fig.9,10),consentendo di rilevarne l’assoluta omogenità stilistica. Non vi è dubbio, a nostro avviso, che tutte e tre sono state eseguite dalla stessa mano; basta osservare le fisionomie, specie quelle dei personaggi raggruppati di fronte a Cesare, e il modo di drappeggiare le vesti e il grande tendaggio sullo sfondo.
Il vassoio è caratterizzato dalla tipica suddivisione in cinque medaglioni contornati da una ricca cornice plastica a volute e mascheroni. La cornice delimita al centro la storia, mentre i quattro medaglioni di contorno sono decorati a grottesche. Appartiene dunque a una delle tipologie più legate ai Fontana, ben rappresentata, ad esempio, in quello che un tempo veniva chiamato “Servizio di Guidubaldo”, conservato in parte nel Museo Nazionale di Firenze[22]. Ne fanno parte i grandi rinfrescatoi sorretti da arpie o leoni mostruosi, i vasi a due manici adornati con aquile e maschere, le fiasche “da pellegrino”. Anche se la raccolta del Bargello è particolarmente preziosa e abbondante, oggetti del genere sono conservati in molti grandi musei, fra i quali il VAM e il Louvre. In base all’affinità stilistica, dunque, sembrerebbe che a questa magnificenza, destinata probabilmente alle collezioni medicee, opera riconosciuta di Orazio e Flaminio Fontana, avesse collaborato anche Antonio.
A supporto, consideriamo ora la grottesca che circonda la scena centrale nel vassoio del Louvre. Rispetto alle precedenti già viste sui vasi firmati, essa appare più miniaturizzata, anche se a ben guardare molti elementi sono gli stessi: sirene dalle ali di libellula terminanti in un cono ritorto, satiri in corsa che brandiscono scudi a mascherone, in lotta contro uccelli, piccoli cammei incorniciati di perle. Spiccano però gruppi di tritoni che reggono nereidi, ispirati a Raffaello: in uno il tritone tiene la nereide sul dorso, secondo la stampa del Raimondi, nell’altro dritta fra le braccia (fig.14). Questi gruppi continueranno ad essere utilizzati per le grottesche all’interno della bottega, anche quando questa sarà gestita da Francesco Patanazzi. Compaiono infatti, più sintetici e caricaturali, nel famoso bacile del British Museum datato 1608 (fig.15).
Stilizzati come nel vassoio del Louvre, essi ricorrono su un certo numero di piatti con scene bibliche o zuccaresche. Di questi, vorremmo attirare l’attenzione su uno in collezione privata [23], la cui scena centrale è tratta da un disegno di Taddeo Zuccari che mostra Cesare mentre sconfigge gli Elvezi[24] (fig.12). Da questo piatto isoleremo ora un particolare, quello con il soldato morto che cade da cavallo e resta sospeso a testa in giu, mentre sopra di lui un anziano commilitone sovrastato da un cavallo imbizzarrito si ripara con lo scudo (fig.16). Il particolare compare su uno dei vasi di Roccavaldina (fig.17), tracciato dalla stessa mano. Malgrado la notevole aderenza al disegno originale, e la cura maggiore con cui è stato dipinto il piatto rispetto al vaso farmaceutico, corrispondono il modo di segnare l’anatomia del torace, evidenziata dalla corazza, e i particolari del viso. Anche la scelta dei colori è la stessa, e non può certo derivare dal disegno: blu il soldato caduto, sullo sfondo del mantello verde, giallo-arancio per il vecchio che si copre con lo scudo, rossastro il cavallo che stramazza, bianco quello il cui cavaliere è raffigurato in atto di scagliare la lancia, mentre il suo mantello, che sovrasta la testa del vecchio, è in entrambi i casi blu. Se il disegno vincola l’esecutore maiolicaro, la scelta dei colori è però esclusivamente sua, e non può essere un caso che coincida sul piatto ex Cucci e sul vaso di Roccavaldina.
La puntualità del confronto ci permette di attribuire il piatto ex Cucci alla mano di Antonio. Il suo intervento è inoltre i riconoscibile in tutta una serie di opere fin qui attribuite ai Fontana, caratterizzate dal tipo di grottesche sopra descritte, con ninfe e tritoni (cfr. ad esempio un piatto del museo Herzog Anton Ulrich di Braunschweig[25],(fig.13).
Questo spiegherebbe come mai in qualche caso il retro di questi piatti risulti così simile a quello delle coppe di Antonio, con gli stessi motivi triangolari dalla punta dei quali nasce un giglio stilizzato(fig18 e 19)
Per concludere, l’identificazione dell’opera di Antonio Patanazzi passa a nostro avviso necessariamente attraverso un accurato riesame della produzione dei Fontana. Per tutta la vita Antonio deve aver lavorato a stretto contatto con Orazio, a tal punto che è veramente difficile trovarne le tracce prima che decida di firmarsi, nel 1580. Con questo contributo intendiamo muovere un primo passo in questa direzione.
LA SCODELLA DEL MALDONADO
Nelle civiche collezioni di Pesaro una ciotola istoriata[26] di modeste dimensioni (cm.23,8 di diametro) ha sempre destato un particolare interesse, perché legata alla storia del Ducato (fig.20): entro una fascia di vivacissime grottesche su fondo bianco che ornano il bordo è infatti rappresentato un episodio avvenuto ai tempi di Francesco Maria I della Rovere, quando questi lottava per recuperare il suo stato. La spiegazione si trova sul rovescio del piatto: “F.M. CON LA / SVA PRVDENTIA / SCOPRE IL TRATA/ TO DEL MALDONA / TO” (Francesco Maria, grazie al suo discernimento, scopre gli accordi segreti del Maldonado, capitano spagnolo al suo servizio).
La scoperta, nel 1517, del tradimento di Francesco Maldonado e la sua successiva immediata condanna a morte dovette rappresentare un momento di grande soddisfazione per Francesco Maria, duca spodestato in cerca di rivincita. Privato dei domini ereditari da papa Leone X in favore del nipote di questi, Lorenzo dei Medici, Francesco Maria decise di opporsi in armi alla volontà papale. Inviata la famiglia in salvo presso i parenti mantovani, raccolse un esercito per combattere quello mediceo e papale. I suoi stessi sudditi si sollevarono per appoggiarlo. Il tentativo ugualmente fallì, e dopo otto mesi il duca fu costretto a rifugiarsi anch’egli a Mantova. Non rinunciò però a lottare. In tali circostanze la fedeltà dei capitani era cruciale, e Francesco Maria volle ribadirla facendo loro pronunciare un giuramento. A Sermide essi si impegnarono solennemente a combattere per lui, e ad assisterlo fino a recuperare lo stato di Urbino. Sermide si trova presso Mantova, e l’episodio avvenne alla fine del 1516.
Francesco Maldonado fu fra coloro che giurarono a Sermide; pur avendo avuto in precedenza contatti con Lorenzo dei Medici, sembrava aver deciso a favore di Francesco Maria. In realtà si era segretamente accordato con i pontifici per consegnare loro il della Rovere e Carlo Baglioni. In cambio avrebbe ricevuto 15000 ducati subito, e altri 2000 in benefici ecclesiastici per uno dei suoi figli. Scoperto, dopo un veloce consiglio di guerra, per ordine del duca, fu giustiziato a Gubbio dai suoi stessi soldati. E’ possibile leggere un efficace resoconto della condanna e dei suoi antefatti nel XIII libro della Storia d’Italia di Francesco Guicciardini.
Il Giuramento di Sermide fu effigiato con grande evidenza sul soffitto della sala, detta appunto “del Giuramento”, nella villa Imperiale di Pesaro, ad opera probabilmente di Raffaellino del Colle[27]. La parte centrale del dipinto, di cui dovevano essere disponibili disegni preparatori, costituisce la base iconografica della ciotola con il tradimento del Maldonado. Per una sorta di contrappasso, il pittore maiolicaro utilizza una scena che esalta la fedeltà al Duca per illustrare la scoperta e punizione di un tradimento nei suoi confronti.
L’affresco era probabilmente completo entro il 1530[28]. La ciotola è sicuramente più tarda, poiché la prima comparsa delle grottesche su fondo bianco nella maiolica è successiva al 1560. Sembra infatti collegata al cosiddetto Servizio Spagnolo, eseguito nella bottega Fontana nel 1560-62 circa[29]. Non si conoscono in precedenza grottesche di questo tipo[30]. Soprattutto, conferma una datazione tarda la committenza, rivelata dalla presenza, sopra la scena istoriata, di uno stemma d’alleanza nel quale le armi dei Sanseverino si uniscono a quelle dei Della Rovere. Si tratta del matrimonio fra Niccolò Berardino Sanseverino, Duca di San Pietro e V principe di Bisignano (1541-1606), e Isabella Feltria della Rovere (1554-1619), figlia del duca Guidobaldo II e di Vittoria Farnese. La principessa era dunque nipote di quel Francesco Maria effigiato nella ciotola. Il matrimonio fra i due avvenne nel 1565[31], anno che rappresenta la data post-quem per l’esecuzione della ciotola.
Non si trattò certo di un’unione felice, funestata sia dal brutto aspetto della sposa che dagli eccessi caratteriali del principe, e ben presto i coniugi preferirono vivere separati malgrado la nascita di un figlio. Per motivazioni dinastiche lo stemma andava comunque esibito il più possibile: eccolo sul bordo della ciotola (fig.21), partito: nel primo figura il semplice blasone dei Sanseverino, d’argento alla fascia di rosso; nel secondo quello ben più complesso di Isabella, che unisce Montefeltro e Della Rovere con tutte le loro concessioni[32], e che ha obbligato il pittore maiolicaro a una certa semplificazione, pur rimanendo perfettamente riconoscibile.
Fu probabilmente Isabella che commissionò la ciotola. Come vedremo, anche in seguito la principessa fece grosse ordinazioni di maioliche, da offrire in dono a personaggi di alto rango. Apprezzava dunque il vasellame dipinto, e lo comprava volentieri. In questo caso c’è da credere che volesse tenere l’oggetto per sé, visto che onorava il famoso nonno riproducendo un episodio significativo della sua vita.
Non sappiamo se la ciotola del Maldonado facesse parte di una serie, o addirittura di un servizio illustrato con i fatti salienti della vita di Francesco Maria I. Di sicuro esiste almeno un altro oggetto che le si accosta, e che va considerato contestualmente, anche se privo di stemma. E’ una ongaresca decorata da entrambe le parti, conservata nel Musée International de la Cèramique di Sévres (fig.22,23). In essa Francesco Maria, inginocchiato, riceve il bastone del comando sull’esercito fiorentino. Dietro di lui spicca un grande vessillo gigliato. Sotto, in caratteri corsivi è tracciata la scritta esplicativa “F(rancesco) M(aria) gen(era)le d’la Rep(ubli)ca fiorentina”.
Come nel caso del Maldonado, il maiolicaro ha tratto l’iconografia dalla parte centrale di un affresco nella Villa Imperiale, collocato nel soffitto di una piccola stanza chiamata Studiolo della Pace odell’Elezione fiorentina. L’ incarico in esso celebrato fu assegnato al duca nel maggio del 1522, e durò un anno soltanto. La possibilità di disporre dei disegni preparatori relativi ai dipinti dell’Imperiale conferma a nostro avviso, anche in questo caso, l’identità della committente che, appartenendo alla famiglia ducale di Urbino, poteva ottenerli facilmente.
Sul retro dell’ongaresca di Sévres un putto alato, munito di tridente, sta in piedi sulla testa di un delfino, in mezzo alle onde. Entrambe le scene sono circondate da grottesche su fondo bianco.
Lo stile dell’Elezione fiorentina ci sembra compatibile con quello del Maldonado. Sono simili il modo di rendere le armature, colorate esclusivamente col blu, le proporzioni e le fisionomie delle figure , sempre più sintetiche man mano che si procede verso lo sfondo.
Le grottesche di contorno utilizzano gli stessi elementi. Vi compaiono sfingi alate dai lunghi colli, accovacciate, i cui corpi terminano in una coda arricciolata, affrontate o addossate, con i visi di fronte e di profilo. Satiri, uomini nudi e guerrieri armati di tutto punto si avventano a combattere, protendendo scudi a forma di mascherone. Fra loro si trovano uccelli, grifi dal corpo leonino, cammei con teste femminili o maschili. Perfino la cornice attorno alla scena principale e al bordo è praticamente la stessa. Ci sembra perciò che i due oggetti siano stati eseguiti a poca distanza di tempo l’uno dall’altro dagli stessi artefici. Questo rende probabile, vista anche la coerenza dei soggetti e la comune derivazione dagli affreschi dell’Imperiale, che le due ciotole facciano parte di una stessa commissione.
In qualità di committente di maioliche, sembra certo che Isabella si rivolgesse alla bottega dei Patanazzi. Secondo la documentazione pubblicata nel 1998 da Franco Negroni [33], il 10 dicembre 1599 tramite Giovanni Bernardino Albani la principessa commissionò al maestro Francesco Patanazzi una credenza di vasi istoriati e a grottesche, secondo una lista compilata dallo stesso Francesco, allora in mano al notaio[34]. La credenza era destinata alla viceregina di Napoli, Caterina moglie di Fernandez Ruiz de Castro, 6° conte di Lemos (1548-1601), e grande di Spagna fra i più eminenti. Le armi di questi erano state mandate al vasaio perché potesse ricopiarle sul vasellame.
In precedenza, nel 1593, risulta che la Principessa aveva commissionato, sempre a Francesco, una credenza, destinata in dono a un’altra viceregina di Napoli, Giulia Barrese di Pietrapersia, moglie di Juan de Zuniga, conte di Miranda.
Figlio di Antonio e vero erede della sua bottega, vista la morte precoce del fratello, Francesco morì nel 1616. Era però in piena attività già nel 1585, quando l’amministrazione della Santa Casa di Loreto comprò da lui “una cassa di diversi vasi fatti a grotesco” per l’arredamento del palazzo apostolico; nel luglio successivo gli furono pagati 14 fiorini per “due bacilli grandi,due bronzi e due tassoni, tutti grottesca, istoriati” destinati alla villa estiva del Governatore. Se a questa data era in grado di assumersi commissioni di tale prestigio, significa che aveva già conquistato una completa autonomia nell’ambito della bottega, benché il padre fosse ancora in vita. Tuttavia, un po’ come succede per il padre Antonio, l’unico manufatto a noi giunto che reca la sua firma è molto tardo. Si tratta di un grande bacile rinfrescatoio del British Museum datato 1608, su cui è dipinta una scena della Genesi, circondata da grottesche di eccezionale vivacità, con putti alati, ninfe e tritoni, sirene, draghi, pavoncelle. Vi spiccano anche vere e proprie scene di caccia, con cavalieri che impugnano frecce coadiuvati dai loro cani. La scritta dice “VRBINI EX FIGLINA FRANCISCI PATANATII 1608”.
Risultano quindi fondamentali le ricerche di archivio del Negroni, poiché consentono di attribuirgli, con ragionevole certezza, la credenza Ruiz de Castro, che ci permette, assieme al bacile del 1608, di individuare e connotare certi elementi della sua maniera. Permangono infatti alcuni esemplari, mentre meno certa sembra l’individuazione dell’altra credenza, quella de Zuniga.
Esaminiamo dunque gli esemplari rimasti della Ruiz de Castro: una bottiglia del British Museum di Londra[35], una saliera nelle collezioni del museo Herzog Anton Ulrich di Braunschweig[36], una fiasca nella Fondazione Bemberg di Tolosa[37]. In essi è riscontrabile un particolare modo di stilizzare le figure grottesche, diverso da quello delle due scodelle in esame. I profili arcigni delle sfingi dal dorso ricurvo, dalle creste arricciate e dal mento da cui pendono due bargigli, così caratteristiche nella Ruiz de Castro, si trovano anche in numerosi oggetti genericamente attribuiti alla bottega dei Patanazzi. Ricorrono ad esempio nella credenza “Ardet Aeternum”, che a noi sembra doversi attribuire a Francesco, non certo ad Antonio, come pure comunemente viene fatto. Questa stilizzazione delle grottesche sembra essere tipica della bottega Patanazzi negli ultimi venti-venticinque anni del secolo, quelli appunto sotto la gestione di Francesco.
Le grottesche sulla scodella del Maldonado e quelle sull’esemplare di Sévres non hanno però molti punti di contatto con questo gruppo. Trovano invece un preciso riferimento in alcune opere attribuibili ad Antonio, in quanto affini a quelle da lui firmate. Ad esempio, è evidente il riferimento al corredo farmaceutico di Roccavaldina, firmato da Antonio nel 1580. Per la grottesca del Maldonado è poi particolarmente efficace il confronto con alcune coppe recanti scene della vita di Cesare nel museo di Braunschweig, nelle quali ritroviamo gli stessi satiri in corsa con un drappeggio svolazzante, che imbracciano scudi formati da mascheroni di profilo, i trampolieri, le sfingi alate e i grifoni dalle lunghe code arrotolate che affiancano piccoli cammei o, nel nostro caso, lo stemma dei principi di Bisignano[38].
Anche le storie centrali presentano affinità, benché le scene con la vita di Francesco Maria, rispetto a quelle con la vita di Cesare, appaiano meno accurate e più bamboleggianti. Alcuni visi sono però gli stessi, e questo è particolarmente evidente nella coppa di Braunschewig con Cesare che riceve gli ambasciatori dei Senoni e dei Carnuti[39]e in quella con Cesare e Pompeo[40], dove il soldato che si affaccia dietro al condottiero romano appare una replica esatta dei protagonisti della scena col Maldonado.
Le fisionomie bamboleggianti rimandano più all’epoca di Francesco, e sono tali persino nella coppa del 1608, che doveva essere un pezzo di rappresentanza, vista l’evidenza con cui reca il nome della bottega. L’attribuzione a Francesco delle coppe in esame è però contraddetta dalla tipologia delle grottesche, decisamente più legata alla produzione del padre. Riteniamo dunque di trovarci di fronte a una delle prime commissioni della Principessa di Bisignano alla bottega dei Patanazzi, quando Antonio ormai vecchio cedeva sempre più spazio ai figli, pur rimanendo forte il segno della sua presenza. Potrebbe trattarsi degli anni 1580-85, periodo in cui venne eseguita anche la splendida coppa del Museo di Pesaro con un Trionfo di Cesare, molto vicina allo stile di Antonio, che reca sul retro una serie di putti su delfini, come nell’ongaresca di Sévres.
DIDASCALIE
1- Vaso a grottesche, firmato da Antonio Patanazzi e datato 1580, un tempo nella collezione Spitzer
2- Vaso a grottesche, attr. Antonio Patanazzi, circa 1580, Dresda, Kunsgewerbemuseum
3- Vaso firmato da Antonio Patanazzi e datato 1580, Faenza, Museo internazionale delle ceramiche
4- Vaso firmato da Antonio Patanazzi e datato 1580, Roccavaldina, Antica farmacia
5- Coppa con scena della vita di Cesare, attr. ad Antonio Patanazzi, c.1580, Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum
6- Coppa con il “trionfo del Ponto”, attr. ad Antonio Patanazzi, datata 1585, Pesaro, Museo Civico
7- Coppa con l’incontro fra Cesare e Crasso, attr. ad Antonio Patanazzi, c.1580, Pesaro, Coll. priv.
8- Fiasca con il Patto per la Santificazione del Sabato, attr. ad Antonio Patanazzi, c.1580, Ferrara, Collezione Strozzi Sacrati
9- Particolare della coppa con scena della vita di Cesare (i Galli si lamentano di Ariovisto), attr. ad Antonio Patanazzi, c.1580, Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum
10- Particolare del vaso firmato da Antonio Patanazzi e datato 1580, Faenza, Museo internazionale delle ceramiche
11- Particolare del vassoio con scena della vita di Cesare (i Galli si lamentano di Ariovisto) entro grottesche, attr. ad Antonio Patanazzi, c. 1570, Parigi, Museo del Louvre
12- Piatto con Cesare che sconfigge gli Elvezi entro tesa a grottesche, attr. ad Antonio Patanazzi c. 1570, un tempo nella collezione Cucci di Rimini.
13- Piatto con scena biblica entro tesa a grottesche, attr. ad Antonio Patanazzi, c. 1570, Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum
14-Particolare delle grottesche sul vassoio con scena della vita di Cesare (i Galli si lamentano di Ariovisto) entro grottesche, attr. ad Antonio Patanazzi, c. 1570, Parigi, Museo del Louvre
15- Particolare delle grottesche sul rinfrescatoio eseguito nella bottega di Francesco Patanazzi, 1608, Londra , British Museum
16- Particolare del piatto con Cesare che sconfigge gli Elvezi entro tesa a grottesche, attr. ad Antonio Patanazzi c. 1570, un tempo nella collezione Cucci di Rimini.
17- Particolare di vaso con scena di battaglia, Roccavaldina, Antica Farmacia.
18 – Retro del piatto con scena biblica entro tesa a grottesche, attr. ad Antonio Patanazzi, c. 1570-’80, Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum
19- Retro della coppa con scena della vita di Cesare (i Galli si lamentano di Ariovisto), attr. ad Antonio Patanazzi, c.1580, Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum
20- coppa con Francesco Maria I Della Rovere che scopre il tradimento del Maldonado, Pesaro, Museo civico
21- Particolare con lo stemma sulla coppa del Maldonado
22 – Coppa con Francesco Maria che riceve le insegne del comando dell’esercito fiorentino, Sévres, Musée International de la Ceramique
23- Retro della coppa precedente.
[1] Franco Negroni, Una famiglia di ceramisti Urbinati: i Patanazzi, “Faenza”, LXXXIV, 1998, 1-3, p. 104-115
[2] Franco Negroni, Nicolò Pellipario ceramista fantasma, in “Notizie da Palazzo Albani”, 1985, n. 1, 1985 p.19 nota 42: in un documento notarile del 6 maggio 1560 Gabriele, figlio di Nicola Sbraghe, e le sue sorelle vengono definitii consanguinei di Orazio Fontana e Antonio Patanazzi. Secondo il Negroni, la parentela comune risaliva probabilmente a Camilla, madre di Nicola di Gabriele, che doveva essere una Ciarlini. Con atti del 25 agosto 1515 e 20 settembre 1515, infatti, Giovanni Ciarlini contribuisce alla dote di sua nipote Battista, figlia di Camilla e sorella di Nicola, che sposerà Giovanni, padre di Antonio Patanazzi. Quanto a Orazio, sua madre era Giovanna, figlia di Bernardino Vici, alla cui dote contribuisce lo zio materno Ludovico di Francesco Ciarlini, come risulta in un atto del 1519 (ibidem p. 14 nota 10)
[3] Negroni 1998 op.cit., p. 106
[4] Per questo documento e per i successivi v. Giuseppe Campori, La manifattura della maiolica e degli stucchi in Torino nel secolo XVI, in Giuliano Vanzolini, Istoria delle fabbriche metaurensi, Pesaro ,Nobili, 1979, II, pp.170-1 (prima ed. 1864)
[5] Marco Spallanzani, Maioliche di Urbino nelle collezioni di Cosimo I, del cardinale Ferdinando e di Francesco I de’ Medici, “Faenza” 1979, IV , pp.115-116.
[6] Emile Molinier, Les faïences italiennes, hispano-moresques et orientales, in La Collection Spitzer, antiquité, Moyen-Age, Renaissance, vol. IV, Paris 1892, n. 1137. Nella scheda non è menzionato nessuno stemma, per cui presumiamo che il vaso non facesse parte del complesso di Roccavaldina.
[7] Per una discussione di autenticità su questi vasi, v. Hugh Tait,Ormolu-mounted maiolica of the Renaissance: an aspect of the history of taste, in Italian Renaissance Pottery, Papers written in association with a colloquium at the British Museum, a cura di Timothy Wilson, London 1991 pp. 271.
[8] Negroni 1998, op.cit., p. 107
[9] Al di là di una evidente discontinuità stilistica e qualitativa, e della presenza di più mani, è comunque difficile dare un giudizio sul complesso farmaceutico di Roccavaldina. Malgrado la sua fama, il corredo è sostanzialmente poco conosciuto e ancor meno studiato. Abbiamo reperito un articolo di Giuseppe Liverani del 1967 (Il corredo in maiolica di una farmacia cinquecentesca, “Faenza”, LIII, 1967, II-V, p. 35-43) e gli atti di un convegno tenuto a Roccavaldina stessa il 31 ottobre 1982, tutti miseramente illustrati con foto sfocate in bianco e nero, né ci risulta una ricognizione fotografica esauriente a disposizione degli studiosi. Un articolo del Governale su CeramicAntica (La farmacia di Roccavaldina, in “CeramicAntica”, dicembre 1992 pp.16-32) ha costituito, per parecchio tempo, l’unica fonte iconografica leggibile, anche se per un limitato numero di pezzi. Una riproduzione soddisfacente disponibile agli studiosi è sempre stata quella dell’anfora del MICF, universalmente conosciuta. La maggior parte degli altri esemplari, confinati sugli scaffali in loco, sono difficilmente consultabili. Segnaliamo anche un paio di articoli di Rosario Daidone ( Il commercio della maiolica tra le manifatture metaurensi e la Sicilia nella seconda metà del Cinquecento: le importazioni palermitane di Cesare Candia e un vaso di Urbino col sacrificio di Isacco, in “CeramicAntica”, anno 13, n.4, Aprile 2003, pp. 52-59; I vasi della farmacia di Roccavaldina e un viceré collezionista,ibidem anno 14, n.9, ottobre 2004, pp. 20-29) relativi alla personalità di Cesare Candia, il cui nome appare talvolta attorno allo stemma che contrassegna ogni esemplare del corredo. In uno di essi, ci fa notare Justin Raccanello, cui è dovuto un eroico tentativo di ricognizione del corredo in loco, vaso per vaso, è scritto il cognome ripetuto due volte: “Candia–Candia”. Cesare Candia è tradizionalmente considerato committente messinese e ricco aromatario (Governale op.cit. p17). Secondo la documentazione prodotta dal Daidone, invece, egli risulta piuttosto mercante e intermediario. Soltanto nel 1628 il corredo confluì a Roccavaldina presso Messina, dove in gran parte si trova ancora oggi. E’molto numeroso. Nel 1967 il Liverani contò 238 pezzi residui, di cui diede l’elenco. A questi sono da aggiungere, secondo il Governale, 2 albarelli a Waddesdon Manor in Inghilterra, 3 albarelli presso il Castello di Anet in Francia, 2 albarelli presso il museo di Ecouen, 1 brocchetta presso il Museo Duca di Martina a Napoli; una grande anfora apoda istoriata comparsa nella Biennale di Antiquariato di Firenze 1991; 1 grande anfora apoda simile in suo possesso. Nel 1992 il Governale continua a menzionare presenti a Roccavaldina 238 pezzi, esattamente il numero fornito dal Liverani.
[10] Staatliche Kunstsammlungen Dresden/ Kunstgewerbemuseum in Schloss Pillnitz/ Gotten, Helden und Grottesken, Munchen 2006 n. 138 p.176-177
[11] Per la tipologia delle grottesche ci sembrano assimilabili a questi due vasi anche le fiasche del British Museum ripr. In Dora Thornton–Timothy Wilson, Italian Renaissance Ceramics / A catalogue of the British Museum Collection, the British Museum Press 2009, nn.237-8, e il vaso esposto nella mostra Decorative Arts of the Italian Renaissance 1400-1600, the Detroit Institute of Arts, Nov. 18 1958-Gan.4, 1959, n. 126A
[12] Per una sintesi sulla Credenza Spagnola, v. Cristina Acidini Luchinat, Taddeo e Federico Zuccari, Roma 1999, I vol, p.79 ss.
[13] Campori op.cit p.112 nota 2
[14] Si ripete anche, con molta accuratezza e sempre ad opera della stessa mano, in una coppa venduta da Christie’s , Roma, il 26 novembre 1981 lotto 93, con la scritta “Francia s i dul de fiero ariovisto”, e su un’altra nel City Museum and Art Gallery di Birmingham (Timothy Clifford, Some unpublished drawings for maiolica and Federigo Zuccaro’s role in the Spanish Service, in Italian Renaissance Pottery, a cura di T. Wilson, Londra 1991, p.174 fig. n.6
[15] Paolo Mario a un Ministro del Duca di Urbino, 17 settembre 1562, Archivio di Stato di Firenze, Carte d’Urbino, Div.G, filza 254 (Acidini Luchinati, op. cit.,p.99 nota 9).
[16] Come del resto riconosciuto da Johanna Lessmann, che assegna senza alcun punto interrogative la coppa ad Antonio (Lessmann op.cit., n. 249)
[17] Cfr. ad esempio Lessmann op.cit., nn. 250-253, XXI-XII.
[18] Tendenza che è perfettamente avvertibile, ad esempio, nella già citata coppa di Birmingham, vicinissima a Roccavaldina
[19]J.A. Gere, Taddeo Zuccaro as a designer for Maiolica, in “The Burlington Magazine”, vol. CV n.724, Luglio 1963, fig. n. 37.
[20] Da due incisioni di Bernard Salomon per le Figure del Antico et Nuovo Testamento illustrate da versi vulgari Italiani del Maraffi, Lione 1559, rispettivamente Genesi XVI C.3 e Esodo XVI c.5,
[21] E’ questo il motivo per cui abbiamo proposto un numero relativamente basso di immagini, rispetto a quelle numerosissime che avremmo potuto indicare.
[22] A proposito di questo gruppo, sono documentati un pagamento e uno scambio epistolare fra Orazio Fontana e Francesco de Medici, tutti del giugno 1569, che costituiscono la prova di un invio di vasi a Firenze da parte della manifattura urbinate, e del particolare apprezzamento del Granduca nei confronti di Flaminio, al quale fa mandare in dono una catena d’oro (Spallanzani op.cit, pp. 115-116). Vi è poi un ordine di pagamento del 30 settembre 1573 che riguarda dieci vasi a grottesche di maiolica venduti al Granduca Francesco da Flaminio (ibidem pp. 116-117). Altra documentazione relativa ai rapporti fra Flaminio e Ferdinando de’ Medici sono riportati e commentati dallo Spallanzani alle pagine successive.
[23] Ex collezione Cucci di Rimini, ripr. In Giuliana Gardelli, A gran fuoco, p. 132-133 n. 55.
[24] Acidini Luchinat, op.cit., p. 88 fig. 15
[25] Lessmann op,cit., nn. 243-245)
[26] La ciotola corrisponde più o meno a quella che il Piccolpasso definisce “ongaresca”
[27] Paolo Dal Poggetto, Francesco Maria I, Eleonora Gonzaga e il cantiere pittorico dell’Imperiale Vecchia, in I Della Rovere, a cura di Paolo Dal Poggetto, catalogo di mostra, Milano, Electa, 2004 p.136-142
[28] Ibidem p. 141
[29] Per una sintesi efficace sul Servizio Spagnolo e una bibliografia esauriente, v. Acidini Luchinat op.cit., vol. I capitolo V, pp. 79-102
[30] Christopher Poke, Jacques Androuet I Ducerceau's 'Petites Grotesques' ad a source for Urbino maiolica decoration, in “The Burlington Magazine”, Giugno 2001, p. 332-342
[31] Niccolò era figlio di Pietro Antonio Sanseverino e di Irene Castriota, pronipote dello Scanderbeg. Il matrimonio non fu felice: la sposa era affetta da un grave morbo alla bocca, e di fatto i coniugi vissero separati. Nacque tuttavia un figlio maschio, Francesco Teodoro, morto a 14 anni. Niccolò era dotato di folle prodigalità, a causa della quale fu interdetto, e solo la successiva oculata gestione della moglie salvò la famiglia dalla rovina. Isabella fu però anche una generosa patrona, e se ne ricorda in particolare il mecenatismo nei confronti della Compagnia di Gesù, per l’interno della chiesa del Gesù Nuovo a Napoli, sorta sul palazzo Sanseverino, di cui conserva la facciata.
[32] Secondo la puntuale descrizione del Cioci (Xanto e il Duca di Urbino, Milano 1987 p.17) lo stemma familiare di Isabella è a sua volta partito: nel 1° spaccato alle armi dei Montefeltro: in capo d’oro all’aquila di nero, in punta bandato d’oro e d’azzurro all’aquila spiegata di nero nella seconda banda a destra; nel secondo spaccato alle armi dei Della Rovere; in capo d’azzurro alla rovere sradicata d’oro, i rami passanti in doppia croce di Sant’Andrea, in punta a) al fasciato d’argento e di rosso (Ungheria), b) d’oro palato di rosso (Aragona), c) d’azzurro seminato di gigli d’oro (Angiò), d) d’argento alla croce di Gerusalemme d’oro (Gerusalemme)
[33] In alternativa (a nostro avviso improbabile) alla già menzionata Isabella, il Negroni suggerisce che la Principessa possa essere un’altra Isabella, figlia di Alfonso Felice d’Avalos e di Lavinia Della Rovere, sposata nel 1597 a Innico III d’Avalos, Marchese di Pescara.
[34] Le notizie qui riportate su Francesco Patanazzi e sulle commissioni della Principessa di Bisignano sono tratte da Negroni, Franco, Una famiglia di ceramisti Urbinati: i Patanazzi, in “Faenza” LXXXIV, 1998, I-III, p.108 e 114
[35] Thornton-Wilson op.cit., I, n. 242
[36] Lessmann op.cit. n.254 p. 237
[37] Drouot Montaigne, Cabinet de curiosité d’un grand amateur, Parigi 20 ottobre 1990, n. 5
[38] Lessmann op.cit. nn. 249-253
[39] Ib. n. 251
[40] Ib. n. 253