La collezione Matricardi, con la sua eccezionale completezza, consente di focalizzare quello che è un passaggio fondamentale nella storia della ceramica di Castelli, e dei suoi rapporti con Napoli, un rovesciamento di influenze che potremmo sintetizzare così: fino verso la metà del ‘700 è stata Castelli a condizionare in maniera determinante la maiolica napoletana, poi è avvenuto il contrario. La straordinaria evoluzione e il rinnovamento culturale che si sono verificati nella capitale, e l’introduzione della porcellana, hanno avuto ripercussioni sulla piccola Castelli, portandovi ventate di novità. Personaggio chiave è stato, a nostro avviso, Saverio Grue, perennemente in transito fra Napoli e Castelli.
E’ un grande vanto per Castelli l’aver esercitato una influenza così profonda sulla maiolica napoletana. Come apprendiamo anche dagli studi del Dr. Giacomini, è importante la presenza di maiolicari castellani a Napoli, e sono emerse lunghe liste di nomi. Poiché questi maiolicari portavano a Napoli il loro modo di fare ceramica, è estremamente difficile, in molti casi, capire se un manufatto sia stato prodotto in un luogo o nell’altro, e deve essere chiaro che non tutto quello che attribuiamo a Castelli vi è stato necessariamente eseguito, e che potrebbe trattarsi di maniera castellana fatta a Napoli. Questo per non impegolarci in questioni attributive che sono pressoché irresolubili e che comunque non interferiscono con il discorso generale.
L’influenza di Castelli su Napoli è massima a partire dal compendiario. In seguito, ebbero enorme successo le opere di Carlo Antonio Grue, richieste anche dalla corte austriaca, mentre la permanenza di Francesco Antonio Saverio, il famoso dottor Grue, crea le condizioni per una vera e propria scuola, di cui fanno parte nomi come Coccorese e Criscuolo e Lorenzo Salandra. Egli stesso fu certamente attivo nella fabbrica dei Massa[1].
[1] Guido Donatone, Maioliche napoletane del ‘700 da Carlo a Ferdinando IV di Borbone, Napoli 2006, p. 27
A riprova, confrontiamo qui un grande vaso della spezieria per la Certosa di Santo Stefano del Bosco a Serra San Bruno, in Calabria, eseguito dal dr. Grue circa nel 1728 (Fig.1)
e un altrettanto grande vaso a tema domenicano attribuibile a Lorenzo Salandra nella bottega di Donato Massa, circa 1729, entrambi nella collezione Matricardi. (Fig.1a)
Il dr. Grue rientrò a Castelli definitivamente tra il 1735 e il ’36, subito dopo l’insediamento al trono di Carlo III di Borbone, re di Napoli dal 1734. Aveva avuto il suo momento professionalmente migliore in coincidenza con la dominazione austriaca, e forse temeva un ritorno a un assolutismo piuttosto soffocante. In realtà l’illuminismo napoletano nacque proprio all’epoca di re Carlo, e come è noto la città rifiorì da un punto di vista economico e culturale, con teatri, palazzi e fabbriche di oggetti di lusso, destinati all’arredo delle residenze reali e alle esigenze sempre più raffinate della corte. L’artigianato fu valorizzato al massimo, e giunsero a Napoli artigiani da tutta Italia e spesso dall’Europa per lavorare nelle nuove manifatture reali. La civiltà figurativa si caratterizzò sempre più in senso internazionale e cosmopolita, superando i limiti della tradizione e aderendo in maniera convinta ai modelli d’oltralpe.
Tutto questo tocca appena il dr. Grue. Dopo aver contribuito a trasmettere le regole della decorazione castellana tradizionale all’ambiente napoletano, Francesco Antonio Saverio portò tuttavia da Napoli a Castelli qualcosa di nuovo non tanto nel modo di dipingere, che rimane quello suo caratteristico, ma nell’adozione di soggetti esotici (Fig.2) . Pur ispirandosi a un incisore seicentesco, Giacomo Della Bella, nella scelta stessa denota una adesione al gusto della cineseria che, già presente in epoca barocca, si andava diffondendo sempre più assieme ai tessuti e lacche orientali e alle porcellane di Meissen.
Solo dal clima cosmopolita napoletano, dovuto alle relazioni di commercio con l’Olanda, il Portogallo e l’Austria e alla forte presenza inglese , poteva venire al dr. Grue e alla piccola città di Castelli questa splendida cineseria, che forse vuole confrontarsi con un ornato particolarmente famoso
di Meissen, quello a scene portuali con navi, mercanti e marinai spesso in vesti cinesi o turche, che adombrano fantasticamente i porti lontani dove le spezie venivano acquistate dagli incaricati delle Compagnie delle Indie (Fig. 3, 3a). Questo tipo di ornato fu appannaggio del cugino di Johan Gregor Hoerold, Christian Friederich, decoratore a Meissen dal 1725 al 1768.
Le porcellane di Meissen, importate a Napoli ben prima dell’avvento di Carlo, sicuramente influenzarono i ceramisti. Dopo l’insediamento di Carlo, e il matrimonio con Maria Amalia, figlia del fondatore della manifattura di Meissen, la moda delle decorazioni alla tedesca divenne sempre più importante. La stessa Capodimonte ebbe una fase “alla Meissen”, prima di orientarsi decisamente verso il rococò, il gusto francese e le raffinatissime decorazioni che affascinarono i ceramisti e cambiarono il loro gusto.
La figura più importante per il rinnovamento della maiolica castellana a contatto con le novità napoletane fu a nostro avviso quella di Saverio, il figlio del Dr. Grue (Atri 1731- Napoli 1799 o 1800,). Questi infatti, pur risiedendo a Napoli, ritorna spesso a Castelli. Non vogliamo dilungarci, ma sono veramente interessanti i suoi andirivieni fra la capitale e la piccola città cui rimaneva evidentemente legato. Qui si trovava alla morte del padre nel 1746, e vi rimase fino all’anno seguente[1]; tornò poi a Napoli, dove ottenne la cittadinanza[2]. Nella città partenopea si trovava ancora nel 1749 [3] ma, a partire dal gennaio 1752, è di nuovo a Castelli, probabilmente fino al 1754. Dall’ottobre 1754 al 3 maggio 1755 risulta attivo come pittore nella Real Fabbrica di maioliche di Caserta, dove decorava vasellame “all’uso di Abruzzo”[4]. Nel 1758 fece domanda per entrare nella Real Fabbrica di Capodimonte [5], ma venne respinto con la motivazione che egli era esperto nel decorare la maiolica, cosa molto diversa rispetto alla porcellana. Ritornò a Castelli nel 1768, per la divisione dei beni paterni [6]. Nel 1772 figura come pittore negli organici della Real Fabbrica di Porcellane, dove rimase almeno fino al 1781, quando fece domanda di assentarsi per recarsi nella sua patria, ad Atri[7]. Ritornato alla Real Fabbrica, forse già nel 1794 [8], nel 1796-97 vi è documentato come Direttore dell’officina dei tornianti [9], attività che svolse fino alla morte, avvenuta tra l’ottobre 1799 e il febbraio 1800[10].
Saverio è dunque un tramite perfetto per trasmettere ai giovani maiolicari castellani, professionalmente curiosi, le novità che provenivano dalla capitale.
[1] Per parte del 1747 dovette risiedere a Castelli. Infatti il Genolini menziona un ovale con un paesaggio che gli venne mostrato dal nobile Carlo Cagnola di Milano, sul quale si leggeva “lSaverio Grue fece in Castelli / D. Francesco Virgulti 1747” (Genolini 1881 p. 140; v. anche Battistella – De Pompeis 2005 p.174)
[2] Cherubini 1878 p.17
[3] V. targa fig. 4, su cui è scritto “S.Grue P Napoli/ 1749”
[4] Donatone 1971 pp. 32-33; 1979, pp. 71-72
[5] Minieri Riccio 1878 p.26. In questa occasione si dichiarò “da Castelli, nativo di Atri”
[6] Ibidem p.175
[7] Ibidem.p.42
[8] Caròla Perrotti 1978 p. 246
[9] Minieri Riccio 1878 p. 57
[10] Caròla Perrotti 1978, p.. 246
E’ gli stesso una figura di ceramista caratterizzata da un andamento stilistico insolito. Guardiamo questa targa (Fig.4), esposta in mostra, firmata e datata 1749, quando Saverio aveva 18 anni. Riusciva però già non solo a dipingere in maniera eccellente, ma a interpretare efficacemente lo spirito nuovo del rococò.
Sembra un passo indietro la maniera che sfoggia nelle targhe conservate nel museo di san Martino (Fig.5), e che devono essere state fatte quando lavorava nella Real Fabbrica di maioliche di Caserta. Fa pensare che gli siano state richiesti specificamente oggetti decorati alla castellana secondo la tradizione, e che egli si sia adeguato.
Eccolo però di nuovo agganciarsi al filone rococò nella scelta del pittore Amigoni quale ispiratore di questa serie di targhe (Fig.6-6e). Sappiamo che ci sono dei dubbi attributivi, per queste targhe, fra Saverio e Silvio de’Martinis, ma a nostro avviso esse appartengono a Saverio, vista l’estrema vicinanza con le opere firmate, ad esempio Agar nel deserto siglata e datata 1752
Per Saverio si può dunque parlare di due approcci diversi, uno più tradizionale, l’altro invece estremamente moderno. Quest’ultimo era sicuramente legato alla porcellana che in quel momento veniva prodotta a Napoli e cui egli, come abbiamo visto, era estremamente interessato.
La targa con santa Irene (Fig.7) ce lo mostra all’opera sul nuovo supporto, col quale sembra cavarsela benissimo.
La figura di Saverio ci appare fondamentale per la formazione di Berardino Gentili, più vecchio di lui di qualche anno e più legato alla cultura figurativa castellana. Anche Berardino soggiorna a Napoli, dove fa la famosa Sant’Orsola, molto vicina allo stile tradizionale di Saverio Grue. Il suo soggiorno , dal 1762-63 fin verso il 1768, è breve ma fruttuoso, e altrettanto deve esserlo stato il contatto con Saverio.
Emblematica di questo rapporto è la targa del museo Barbella con Apollo e Fetonte (Fig.8), datata 1762, siglata da Saverio, ma eseguita in uno stile che viene spontaneo accostare a quello di Berardino. Da qui interessanti oscillazioni attributive che sono proprio il sintomo di questa fase stilisticamente così vicina fra Saverio e Berardino. Se anche non ci sono dati oggettivi per ipotizzare una collaborazione fra i due, sicuramente ci fu una reciproca conoscenza e affinità. Allo stesso modo rientrano in questo filone “saveriano” la sant’Orsola del Museo di San Martino e il vaso con Ester e Assuero in collezione privata[1]che recherebbe la sigla di Berardino nelle pieghe dell’abito della protagonista. In seguito, tornato a Castelli prima del 1768, vediamo che Berardino, al di là delle targhe religiose in cui mantiene sempre un modo di fare tradizionale, evidentemente in rapporto ai gusti della committenza, si abbandona letteralmente al gusto rococò, ed è autore di opere nelle quali inserisce elementi decorativi tipici di questo stile, mentre la grazia delle figure si associa a fiori, conchiglie, cornici rocaille etc.
[1] Battistella – De Pompeis 2005 n. 306 p. 145
In questa targa che illustra la partenza del figliol prodigo (Fig.9) l’approccio appare tradizionale. Tuttavia, guardate su che tipo di stampa converge la sua scelta : si tratta di una stampa veneziana, di intonazione decisamente rococò, nella quale i personaggi vestono abiti
contemporanei a scapito della solennità evangelica. Berardino ha qui scelto di eliminare i tratti rocaille più appariscenti , come la cornice, intimidito forse dal significato religiosa del soggetto. Ha però mantenuto intatta la sorridente interpretazione della scena, che appare più come una garbata recita che come un dramma biblico-familiare .
Il contrario avviene quando Berardino decide di utilizzare, per questo piattino, l’immagine di una zingara estrapolandola da una famosa incisione di Jacques Callot (Fig.10). Mentre nella stampa originale la carovana dei nomadi, pur pittoresca, è interpretata dal Callot con grande partecipazione nella consapevolezza di una vita difficile e per molti aspetti dolorosa, nel piatto di Berardino la donna diventa ormai di
una graziosa figura leggera e sorridente, che invece di cavalcare siede un ghirigoro formato da una elegante cornice rocaille (Fig.10a). Quanto alla tesa del piatto, con gli angioletti a rilievo e il bordo frastagliato, richiama decisamente le porcellane coeve.
Ed ecco infine una Madonna con uno splendido bordo a fiori e motivi rocaille (Fig.11), e dove, pur utilizzando colori a gran fuoco , Berardino ha ottenuto diluendo il manganese un tono rosato adatto alla grazia dell’immagine, e che prelude decisamente alla porpora di Cassio.
Concludendo, con Berardino Gentili la maiolica castellana cambia decisamente registro, acquisendo un nuovo stile (Fig.12,12a) che non poteva giungere se non dalla capitale del regno e soprattutto dal contatto con Saverio, che a Napoli abitava quasi stabilmente.
E’ poco importante se nel frattempo la grande maggioranza dei maiolicari castellani continuava a
fare le stesse cose dei padri e dei nonni. Come sempre nella storia dell’arte e della ceramica, sono le punte che contano, dapprima isolate, ma che in seguito costituiranno l’esempio da seguire.
Ed eccoci arrivati a Gesualdo Fuina, che dall’influenza combinata di Saverio e Berardino sembra ricavare il proprio stile. E’ significativo che certe tipologie ormai riconosciute del Fuina siano state in passato spesso attribuite a Saverio, perché la vicinanza stilistica è impressionante. Essendo però molto più giovane, è più spiccata la sua aderenza alla fase finale del rococò e al gusto Luigi XVI, e successivamente al neoclassico.
Abbiamo esitato molto fra Saverio Grue e Fuina, decidendo poi in favore di quest’ultimo, nell’attribuzione di questa targa straordinaria (Fig. 13), tratta da un dipinto di Marcantonio Franceschini che si trovava un tempo nelle collezioni del re d’Inghilterra Giorgio III.
Il dipinto fu tradotto in stampa da Francesco Bartolozzi durante il suo soggiorno inglese (1764 - 1802), e la stampa (Fig.13a) fu poi inclusa in un album che ne comprendeva 73 , tutte basate su dipinti della pinacoteca reale. La targa è quindi sicuramente post 1764, probabilmente degli anni settanta-ottanta , e per il tramite della fonte grafica è legata all’Inghilterra. La stampa del Bartolozzi fu replicata da Francesco del Pedro, incisore friulano attivo a Venezia nella seconda metà del ‘700 (1740-1806). Difficile dire se la maiolica fu tratta direttamente dal Bartolozzi, ma in questo caso è possibile che una copia dell’album con le riproduzioni reali si trovasse presso l’enclave inglese di Napoli, e che da lì fosse arrivata al maiolicaro.
Anche questo tipo di albarello (Fig.14) veniva in passato attribuito a Saverio. Furono poi pubblicati dal Donatone i due esemplari qui esposti che recano la firma di Gesualdo Fuina, restituendo a quest’ultimo la tipologia. Malgrado la cornice rocaille, gli albarelli recano busti maschili e femminili di un neoclassicismo arcadico, influenzato dal nuovo gusto classico dei ritratti reali di Angelica Kauffman, anch’essi tradotti in stampe dal Bartolozzi (Fig.14 a,b).
Guardate ora questo vaso (Fig. 15), e in particolare i grandi uccelli nei quali è possibile riconoscere un gruccione e una capinera. La cura e il realismo con cui sono stati eseguiti va oltre i variopinti e indefiniti uccelli rococò, per riallacciarsi al filone delle illustrazioni naturalistiche, sull’esempio del cosiddetto “Servizio di Buffon”, che la manifattura di Sévres aveva eseguito qualche anno prima, dal 1779 al 1784 per il conte di Artois, e che replicava su porcellana le splendide tavole delle opere del grande naturalista. L’interesse per la scienza, l’amore per la natura sono connaturati alla sensibilità dell’epoca, e all’ illuminismo.
Allo stesso modo la targa con la Madonna del Buon Consiglio (Fig.16,16a), datata 1782, incorniciata di nastri sinuosi, illustra bene il passaggio fra il rococò e lo stile Luigi XVI.
E’ chiaro che il Fuina dà prova di una cultura figurativa ben al di là di quella che poteva venirgli dall’ambiente di Castelli, e al di là anche della semplice influenza di Saverio e Berardino.
Avanziamo volentieri l’ipotesi di una sua frequentazione napoletana, anche se non documentata, da cui deriva fra l’altro la sintonia con la porcellana, in particolare quella Ferdinandea.
Questa sintonia è visibile nel vaso a medaglioni (Fig.17), che ha la bianca freddezza della porcellana, e a livello tematico nella caffettiera, con le sue figurette di costume napoletano (FIG.18, 18a, 18b).
La stessa porpora di Cassio (Fig.19), che il Fuina avrebbe acquistato a caro prezzo verso la metà degli anni ’90, deriva dalla porcellana. Le temperature altissime richieste dall’impasto rendevano necessario l’uso di più cotture a piccolo fuoco, e la porpora di Cassio non doveva superare i 700° gradi. I primi a usarla sulla maiolica, gli Hannong di Strasburgo, erano anche proprietari di una fabbrica di porcellana a Frankenthal, subito al di là del confine francese.
Gesualdo Fuina rappresenta dunque il culmine (e il momento finale) di un rinnovamento culturale figurativo proveniente da Napoli, e che nella seconda metà del ‘700 ha investito Castelli come una ventata, scompaginando le abitudini decorative consolidate e proponendo cose nuove.