Carola Fiocco - Gherardi Gabriella. Relazione presentata a convegno del C.N.R., Gubbio, coordinata dalla dott.ssa Giuseppina Padeletti, 2005.
Il lustro in Italia compare verso la metà del 1400, sull’onda dell’ammirazione di cui era fatto segno il prodotto spagnolo, largamente importato. Questa ammirazione si era inizialmente tradotta nell’imitazione delle tipologie ispano moresche, con l’uso del giallo freddo al posto del lustro, che i vasai non sapevano ancora produrre. Fra gli innumerevoli esempi possibili, proponiamo un albarello databile verso il 1460, di officina toscana, probabilmente Montelupo, con decorazione a foglie di edera in blu rialzata da filetti giallo vivo (fig.1). La Toscana era particolarmente interessata ai prodotti di imitazione spagnola, che il Ballardini chiamò Famiglia Italo-moresca. Gli originali giungevano infatti in grande quantità attraverso i porti di Pisa e Livorno, e occupavano una parte importante nelle guardaroba delle ricche famiglie locali[1]. Non fu però in Toscana che nacquero i lustri italiani, anche se nei primi decenni del secolo XVI fiorì una splendida ma limitatissima produzione presso le officine di Cafaggiolo. Assai prima, a giudicare dalle tipologie, il lustro fu sperimentato a Faenza, Pesaro e nei centri umbri di Deruta e Gubbio.
A Faenza sono stati trovati frammenti con prove di lustro, e non v’è quindi dubbio che i vasai locali fossero in grado di farlo[2]. Alcuni (fig.2) recano un lustro ramato, simile a quello spagnolo, e appartengono tipologicamente alla seconda metà del Quattrocento, poiché recano un ornato di tipo gotico-moresco, a fiordaliso. Seguono poi esemplari nei quali i l’ornato “alla porcellana”, già di per sé esotico in quanto aspirava a imitare le fogliette ricurve delle porcellane cinesi bianche e blu, viene ulteriormente arricchito con applicazioni di lustro dorato. I vasai faentini continuarono quindi la sperimentazione sui lustri anche nella prima metà del Cinquecento, epoca a cui risale l’ornato “alla porcellana”, senza in apparenza mai passare a una produzione vera e propria.
Anche a Pesaro, verso la fine del secolo XV, furono prodotti oggetti con ornati di tipo moresco corredati da lustro ramato [3]. Alcune coppe di scavo dal sottosuolo pesarese mostrano una tipologia ispirata ai modelli spagnoli, ma con una sua specifica fisionomia che la distingue nettamente, e che indica una produzione locale (fig.3). La decorazione a piccole foglie cuoriformi e lanceolate è racchiusa entro scomparti, che si dispongono attorno a un rosone centrale. Il blu è utilizzato solo per delineare i filetti; per il resto, è il lustro che traccia e campisce la maggior parte della decorazione.
Gli esperimenti faentini e la limitatissima produzione pesarese non ebbero alcun seguito significativo. Fu l’Umbria l’unico luogo dove la tecnica mise radici, e si incanalò in una produzione sistematica e ben conosciuta.
A Deruta i vasai usavano il fumogeno legno di ginestra per le cotture almeno fin dal 1465[4]. La grande famiglia dei Masci, discendenti di Mascio di Vannuccio, si arricchì proprio grazie al lustro[5], che all’inizio sembra essere stato anche qui di tipo moresco.
Lo suggerisce la decorazione del più antico esemplare a noi noto, un albarello biansato con le armi dei Baglioni, signori di Perugia, la cui tipologia è ancora decisamente tardo-gotica e che dovrebbe collocarsi, cronologicamente, attorno agli anni 1460-‘70[6](fig.4). Si tratta dell’unico esemplare a lustro all’interno di un gruppo di vasi da farmacia generalmente policromi, e questo può forse essere motivato dalla importanza della famiglia committente. Il tono ramato e la presenza di motivi di contorno moreschi, come il fiordaliso, indicano che anche in Umbria le prime manifestazioni del lustro sono subordinate all’imitazione dei pezzi provenienti dalla Spagna.
A parte questo albarello, che rimane per ora un’eccezione, i reperti derutesi a lustro finora rinvenuti recano ornati rinascimentali, e vanno datati a partire dalla fine del ‘400. Negli scavi essi vengono spesso trovati negli stessi contesti del cosiddetto “petal–back”, tipologia policroma che si pone a cavallo fra i due secoli[7]. In questo periodo ai motivi tardo-gotici subentrano denti di lupo inframmezzati da infiorescenze, foglie frastagliate, ghirlande, embricazioni sovrapposte, dardi e ovoli, etc.. La distribuzione è per lo più a fasce concentriche, spesso entro scomparti (fig.5).
Ecco un altro esemplare riferibile a questa fase precoce dei lustri derutesi: si tratta di un piatto da pompa a lustro, importante perché databile entro il 1508, anno della morte di Guidubaldo da Montefeltro duca di Urbino, cui è dedicato. Accanto alle sue armi non compare infatti traccia dell’emblematica dei Della Rovere, che ne ereditarono la signoria (fig.6).
Pur affiancandosi a una produzione policroma di livello altrettanto alto, il lustro rimase per Deruta un tratto distintivo, e continuò ad essere prodotto con alterne fortune fino alla fine del Seicento, quando ancora il Sabelli menzionava ammirato una maiolica finissima di colore d’oro[8].
A Gubbio la situazione iniziale deve essere stata simile, anche se in dimensione minore, e l’acquisizione del lustro pressoché contemporanea. Dai documenti di scavo e di archivio si ricava che, a partire dagli ultimi anni del 1400, alcuni ceramisti eugubini padroneggiavano la tecnica del lustro, e ci sembra probabile che l’avessero appresa dai vasai derutesi[9]. Infatti, all’inizio, la produzione a lustro di Gubbio appare molto simile a quella di Deruta. A questa conclusione ci porta l’esame di un gran numero di frammenti di scavo eugubini, e dei loro motivi decorativi (fig.7). L’unica cosa che li distingue da quelli derutesi è la presenza precoce di un bel rosso rubino brillante, che non trova riscontro a Deruta, dove il tono del lustro rosso è più attenuato. Gran parte di questi frammenti recano decorazioni profilate in blu e prive di campiture. Sono cioè stati preparati per l’applicazione del lustro, che però non è mai avvenuta, ed equivalgono insomma a scarti di fornace, non avendo subìto l’ultima cottura. La loro presenza dimostra che si tratta di produzione locale, e non di importazioni da Deruta, malgrado la somiglianza.
A questa prima fase dei lustri faremmo risalire alcuni oggetti che condividono molte delle caratteristiche rappresentate nei frammenti. Ad esempio, questo bacile da acquereccia con testa maschile e motivi a foglie aguzze frastagliate, nel quale il lustro dorato si accosta a quello blu (fig.8), e questo grande piatto da pompa nel Museo internazionale delle ceramiche di Faenza con la ieratica figura di Sant’Ubaldo, patrono di Gubbio, entro un giro di denti di lupo(fig.9).
Come quasi sempre succede nella storia della ceramica, non è possibile collegare loro alcun nome di ceramista. Di recente però è emersa dagli archivi la figura di un vasaio di Gubbio, Giacomo di Paoluccio[10], attivo nell’ultimo decennio del ‘400. Giacomo è un vero maestro, in grado di produrre oggetti a lustro e fornito di una grossa clientela. Per ora è possibile attribuirgli con sicurezza soltanto due opere, entrambe firmate e stilisticamente affini. La prima è un piatto del Louvre con una scena di caccia, desunta da un’incisione con il ratto di Ganimede del maestro IB dall’Uccello (fig.10). Tutt’attorno alla tesa corre un giro di trofei d’arme, e i colori sono rialzati da lustro dorato e rossastro. Sul retro è tracciato il nome Giacomo. Lo stile del piatto rivela una forte influenza della maiolica marchigiana, legato certo all’appartenenza di Gubbio al ducato di Urbino.
Un’altra opera di recente recuperata a Giacomo è una coppa a lustro del museo Jacquemart André di Parigi, anch’essa con scena di caccia, siglata con le lettere IA (Jacobus) seguite da un piccolo vaso[11](fig.11). Giacomo morì prima del 1519. Dopo di lui la scena ceramica della città è interamente dominata da Giorgio Andreoli, il più famoso dei vasai eugubini.
Giorgio non era nativo di Gubbio, ma di Intra, sul lago Maggiore. Da qui dovette trasferirsi e risiedere per un certo periodo a Pavia, poiché in alcuni atti notarili egli si definisce “figlio di Pietro da Pavia”, e chiama Pavia “la sua vecchia patria”. A partire dal 1492 lo troviamo però a Gubbio assieme al fratello Salimbene, dove ottiene la cittadinanza nel 1498.
Inizialmente i due fratelli si mettono in società con Giacomo, poi gradualmente gli subentrano presso i committenti più importanti.
Il nome di Maestro Giorgio Andreoli è indissolubilmente legato al lustro rosso rubino, nel quale fu un tecnico eccezionalmente abile. Era però in grado di ottenere anche una tonalità intensamente dorata, oltre che camoscio, argento e verde metallico. Non sappiamo se avesse anche altre mansioni all’interno della bottega, ad esempio se dipingesse personalmente almeno una parte delle maioliche. E’ però sicuro che assumeva pittori da Casteldurante e Urbino, così viene da pensare che il suo fosse più che altro un ruolo manageriale, oppure di tecnico del lustro, abile nel trasformare la maiolica e renderla simile al metallo prezioso.
La prima produzione identificabile della bottega risale al 1515. In questa data, pur continuando e valorizzando l’uso del lustro, il modello decorativo prevalente non è però più quello derutese, ma quello di Casteldurante. Prevalgono infatti le grottesche e i trofei.
Esemplificano questa fase il piatto con lo stemma Aldobrandini del Museo civico medievale di Arezzo (1518, fig.12 ), e quello anch’esso stemmato dell’ Ermitage di San Pietroburgo[12] (fig.13), le cui grottesche, dominate dalle grandi figure di putti, richiamano nel loro schema quelle del vasaio durantino Zoan Maria. Vi è dunque in questo periodo un legame stretto fra Giorgio e le manifatture di Casteldurante, al punto da ripeterne a lustro le tipologie.
Seguiranno altre decorazioni tipiche, ad esempio le palmette: vediamo qui un piatto con lo stemma di Nicolò II Vitelli, signore di Città di Castello, e di sua moglie Gentilina della Staffa, di nobile famiglia perugina (fig.14), e un altro con un putto al centro(fig.15).
Precocissimo a Gubbio è anche l’istoriato[13], termine che indica l’esecuzione di vere e proprie storie, desunte da disegni o da stampe, tramite spolveri. Addirittura, l’istoriato a Gubbio sembra precedere quello di Urbino. Abbiamo infatti notizia di un piattello a lustro datato 1515 con tesa a grottesche e, nel cavo, la storia diAbramo e Isacco, i cui colori comprendono anche il rosso e il giallo a oro[14]. Non sappiamo dove si trovi attualmente, ma di sicuro esso, assieme ai piatti firmati da Maestro Giacomo, può essere annoverato fra gli esempi più antichi di istoriato marchigiano.
Per i cinque anni successivi c’è come un vuoto negli istoriati eugubini ma, a partire dal 1520, inizia una sequenza ininterrotta per continuità e coerenza. Essa viene aperta da un’opera emblematica, il piatto del museo del Petit Palais di Parigi con il Giudizio di Paride, la cui eccezionalità deriva dal fatto di essere firmato, sul retro, non a lustro, come di solito avviene, bensì col blu di cobalto (fig.16). Il piatto è dunque la dimostrazione palmare, al di là dei documenti di archivio, che nella bottega di Giorgio gli istoriati venivano anche dipinti, e non solo lustrati. Questo fatto, che oggi può dirsi acquisito, è stato però oggetto di innumerevoli diatribe fra gli studiosi della passata generazione, molti dei quali erano inclini a ritenere quella di Giorgio una bottega “accessoria”, dedita cioè soltanto a lustrare gli istoriati altrui.
A riprova, ecco due piatti più tardi, entrambi del 1534, attribuiti al decoratore Francesco Urbini, che hanno la stessa caratteristica, riferita però non alla bottega ma alla città di Gubbio, il cui nome è scritto sui retri col blu di cobalto. Si tratta di un piatto del museo Boymans van Beuningen di Rotterdam con la favola del corvo e della cornacchia, e la nascita di Esculapio, recante sul retro la scritta “I(N) gubio” in blu (fig.17), e di un altro con il ratto di Europa, della galleria Doria Pamphilj (fig.18). Non può quindi esservi alcun dubbio circa la capacità della bottega Andreoli di produrre istoriati, per i quali, come indicano i documenti, venivano assunte maestranze da altri centri del ducato.
Fra gli istoriati eseguiti negli anni venti presso la bottega di Giorgio, ecco alcuni esempi particolarmente significativi: un piatto con Abramo e Isacco datato 1522 della collezione Hockemeyer di Brema(fig.19), un piatto anch’esso datato 1522 con la caduta di Fetonte dell’Ermitage di San Pietroburgo (fig.20), uno con lo stesso soggetto datato 1527 del museo di Palazzo dei Consoli di Gubbio(fig. 21), uno con Satiro e fanciullo nel museo del Vino di Torgiano datato 1528 (fig. 22). E’ interessante notare che in tutti questi esemplari il lustro è dato a campiture ben definite, poiché coloro che hanno dipinto la storia, sicuramente più di uno, hanno lasciato spazi privi di colore, appositamente destinati ad accoglierlo.
L’aspetto forse più problematico dell’attività della bottega Andreoli riguarda il legame con la capitale del ducato, Urbino. I maggiori pittori di istoriato urbinati della prima metà del ‘500, fra i quali spiccano Nicola di Gabriele e Francesco Xanto Avelli, scelgono di fare talvolta applicare sulle proprie opere l’inconfondibile lustro di Gubbio. L’Avelli ricorre con particolare frequenza a questa tecnica, mostrando per essa una curiosa predilezione. Ne usufruisce sia prima del 1530, quando con ogni probabilità si trovava già all’interno del Ducato (anche se non si sa bene dove), sia dopo il ’30, quando sicuramente risiedeva in Urbino.
Per le opere da lui eseguite prima del 1530, firmate con uno svolazzo simile alla lettere ipsilon dell’alfabeto greco, è da considerarsi a nostro avviso molto probabile una sua reale presenza a Gubbio. In questa fase egli dipinse, fra l’altro, la famosa coppa del Museo civico di Arezzo datata 1528 con Ercole e Dejanira, dalle splendide campiture color rubino (fig. 23), e il piatto del Museo di Palazzo dei Consoli a Gubbio con Pico e Canente, recante la stessa data (fig. 24).
Quanto alle opere successive, il problema è complesso. Dopo il 1530 infatti l’Avelli operava sicuramente “in Urbino”, tuttavia il lustro rimane quello tipico di Giorgio. Dobbiamo dunque pensare che alcune maioliche istoriate venissero trasportate a Gubbio, appositamente per esservi lustrate. Oppure, più semplicemente, che a Urbino ci fosse una succursale della bottega, in grado di applicare lustri simili. Un piatto del Museo Civico Medievale di Bologna con la Presentazione della Vergine al Tempio, datato 1532, opera di un maestro assai vicino all’Avelli che il Mallet ha chiamato “Pittore del Bacile di Apollo”[15], sembra indicare la prima possibilità. Sul retro è infatti scritto “M(astro) G(iorgio) finì de maiolica”, cioè intervenne solo nell’ultima fase, applicando il lustro, allora chiamato maiolica (fig. 25). D’altro canto è ormai accertata la presenza a Urbino di Vincenzo Andreoli, figlio di Giorgio, che nel 1538 affittò per tre anni la bottega di Nicola di Gabriele, appena defunto, e più tardi prese la cittadinanza urbinate, pur continuando a operare anche presso il padre a Gubbio[16]. E’ questo probabilmente il punto di arrivo di una lunga serie di rapporti sviluppatisi in precedenza fra Giorgio Andreoli e figli con Nicola, Avelli e altri pittori, volti a promuovere la collaborazione fra la bottega eugubina e i maestri urbinati dell’istoriato, il cui centro elettivo era ormai divenuto Urbino.
Si ritiene comunemente che la sigla di Vincenzo Andreoli sia la “N” che si trova, a lustro, sul retro di numerosi piatti istoriati urbinati, accanto a quella di coloro che li hanno dipinti.
Come esempio di produzione urbinate a lustro, osserviamo questo piatto della collezione Gillet del Musée des Arts Decoratifs di Lione (fig. 26). Vi è rappresentata la storia di Deucalione e Pirra, composta riunendo insieme parti di numerose incisioni, ed è firmato dall’Avelli in Urbino. Allo stesso tempo le lumeggiature sono eseguite con il tipico lustro di Gubbio, e anche i motivi che ornano il retro sono tipicamente eugubini. Si tratta qui di lumeggiature a lustro, e non di campiture, come se il pittore avesse interamente e liberamente dipinto la storia, e il lustratore si fosse limitato a rialzarne i colori con qualche tocco prezioso qua e là. Questa coppa con Tiberio che riceve i messi di Cappadocia, scena desunta da un’illustrazione della Storia Romana di Dione Cassio, mostra invece la N a lustro di Vincenzo Andreoli accanto alla S in blu sigla del pittore (fig. 27). Non si tratta in questo caso dell’Avelli ma, a nostro avviso, di un suo collaboratore che più tardi si trasferirà a Pesaro, Sforza di Marcantonio[17].
Attualmente dunque, superate le diatribe del passato sulla capacità o meno della bottega di Giorgio di produrre istoriati, è proprio il problema dei rapporti fra Gubbio e l’istoriato urbinate quello su cui si focalizza l’attenzione degli studiosi, ed è ancora lontano dall’essere risolto.
Nella sua ultima fase, dopo il 1530, la bottega Andreoli sembra specializzarsi in una tipologia prevalente, la coppa su basso piede con decorazioni a rilievo, al cui centro si trovano stemmi, emblemi e figure di santi, mentre attorno alla tesa si dispongono radialmente pigne, infiorescenze e fiamme. Sono le cosiddette abborchiate, apprezzatissime per lo scintillio dei lustri più che per l’accuratezza dell’esecuzione, e considerate produzione seriale. La presenza della data è rara su questo tipo di oggetti, che vengono attribuiti a una fase in cui sono i figli di Giorgio a gestire la bottega, vista l’età avanzata del padre. Appartiene alla tipologia questa coppa con San Rocco, in collezione privata tedesca, e ne costituisce uno spendido esempio (fig. 28).
Giorgio morì nel 1554, seguito pochi anni dopo dal figlio Ubaldo. Rimase Vincenzo, che raccontò al Piccolpasso il procedimento del lustro, e che era ancora vivo nel ’75.
La bottega Andreoli non era però l’unica a produrre lustri a Gubbio. Fra il 1535 e il 1586 è infatti documentato un artefice anch’egli esperto di lustri, soprannominato Prestino. E’ l’autore di un piatto con Venere e Cupido della Wallace Collection datato 1557, firmato, che costituisce senz’altro la sua opera più famosa(fig. 29 ). Come hanno dimostrato Cece e Sannipoli[18], egli apparteneva alla famiglia Floris, e si chiamava Vittorio. La sua figura è un po’ oscurata da quella di Giorgio e dei suoi figli, ma il piatto dimostra una tecnica eccellente.
Dopo questa data sembra che a Gubbio la produzione del lustro sia stata praticamente abbandonata, fino alla ripresa ottocentesca del Carocci e di Angelico Fabbri. Non certo quella della maiolica, che prosegue fino ai nostri giorni con risultati egregi.
[1] Spallanzani Marco, “Maioliche di Valenza e di Montelupo in una casa pisana del 1480”, Faenza LXXII, 1986, 3-4, pp. 164-169
[2] Liverani Giuseppe, “Ancora sul lustro metallico a Faenza”, FaenzaLIV, 1968, 1,p. 3-8. Ravanelli Guidotti Carmen, "Prove di lustro a Faenza", CeramicAntica anno 5, n. 5, maggio 1995 p. 38-47
[3] Bettini Alessandro, “I lustri a Pesaro”, Faenza LXXVII, 1992, I-II, p.82-86
[4] Casagrande Giovanna, “Nuovi documenti sulla produzione di vasi a Deruta”, in Esercizi, 5, pp. 101-103
[5] Biganti Tiziana, "Documenti. La produzione di ceramica a lustro a Gubbio e a Deruta tra la fine del secolo XV e l'inizio del secolo XVI. Primi risultati di una ricerca documentaria", Faenza LXXIII, 1987, 4-6, p.214-220; id., "Lo stato attuale delle ricerche archivistiche sull'attività dei vasai in Umbria dal XIII al XVII secolo", in Ceramica fra Marche e Umbria, a cura di Gian Carlo Bojani (atti del convegno "Ceramica fra Marche e Umbria dal Medioevo al Rinascimento", Fabriano 9 aprile 1989), Archeoclub d'Italia, sede di Fabriano, 1992, p.65-75
[6] Parigi, museo del Louvre, inv. OA 1885, in Giacomotti 1974 n.92.
[7] Per una sintesi sul Petal-back e sui primi ritrovamenti derutesi v.Fiocco Carola - Gherardi Gabriella, La ceramica di Deruta dal XIII al XVIII secolo, Perugia 1994, p. 43-44
[8] Sabelli G A., La guida sicura del viaggio d’Italia, Ginevra 1680, p .223
[9] Fiocco-Gherardi 1996
[10] Biganti 1987 pp. 212
[11] T. Wilson, Il servizio siglato “S”, eseguito nella bottega di Maestro Giorgio negli anni 1524-25, in La Maiolica italiana del Cinquecento/ Il lustro eugubino e l’istoriato del Ducato di Urbino, atti del convegno di studi Gubbio 21-23 settembre 1998, a cura di G.C.Bojani, Firenze 2002 p. 113
[12] Inv. F 396, in Kube 1976 p.60
[13] Il termine risale al XVI secolo (v. ad esempio i termini del contratto fra Maestro Giorgio e Giovanni Luca da Casteldurante nel 1525), ed è usato anche nel Piccolpasso. V. ad esempio libro III, c.57, paragrafo 195 : Molti sonno che per fare gli penelli sutili, da dipingiare gli istoriati, sogliono mescholarvi alchuni peli o vogliam dire mostachi di sorci...
[14] Il piattello è il n. 13 dell’elenco del Carli (v. Sannipoli 1989 p.616) e reca, sul retro, una mano che stringe un’arma, probabilmente un’alabarda. Un altro piattello, infatti, reca sul retro lo stesso emblema e la stessa data, ed è decorato a grottesche (Londra, Victoria and Albert Museum , inv.C.477-1921.
[15] Mallet John V.G., « Il pittore del Bacile di Apollo”, in La maiolica italiana del Cinquecento. Il lustro eugubino e l’istoriato del Ducato di Urbino, atti del convegno di studi Gubbio 21,22,23 settembre 1998, a cura di Gian Carlo Bojani, Firenze, Centro D, 2002, p.85-112
[16] Negroni Franco, "Nicolò Pellipario ceramista fantasma", Notizie da Palazzo Albani, 1, 1985, p.13-20
[17] Fiocco Carola - Gherardi Gabriella, "Il Pittore 'S' e la coppa di Tiberio", "Faenza" LXXXII, 1996, IV-VI, pp.145-150.
[18] Cece Fabrizio- Sannipoli Ettore, "De Floribus: una famiglia di ceramisti eugubini", Arte, giugno 1993, p.10-13