Due albarelli su fondo berettino attribuibili alla bottega di Alfonso Patanazzi di Urbino

Carola Fiocco - Gherardi Gabriella, in Italienische Fayencen der Renaissance. Ihre Spuren in internationalen Museumssammlungen, atti del convegno di Norimberga, dicembre 2000, a cura di Silvia Glaser, edizioni Germanischen Nationalmuseums, Nurnberg 2004,   pp.215-228.

Con questa relazione ci proponiamo essenzialmente di attirare l'attenzione sulla produzione a fondo colorato, azzurro e verde-turchese, collegabile alla persona o alla bottega di Alfonso Patanazzi, l'ultimo personaggio ceramicamente rilevante della grande famiglia di Urbino.

L' articolo di Don Franco Negroni su un recente numero del bollettino Faenza, prezioso come sempre per la precisione della ricerca documentaria, ci fornisce le notizie relative alla sua biografia[1]. Riassumendo velocemente, egli era figlio naturale di Elisabetta di Simone, nato nel 1583. Fu poi adottato da Francesco Patanazzi, che aveva curato gli interessi della madre, e può perciò essere considerato a tutti gli effetti membro della famiglia. Dopo essere stato istruito nell' arte e aver lavorato a lungo presso di lui, ereditò da Francesco la bottega nel 1616[2], e morì entro il 1627, come risulta da un atto notarile redatto dalla moglie. Nessuno dei suoi sei figli pare aver continuato l'attività. Vincenzo, quando aveva 12 e l3 anni, firmò due piatti; in seguito però continuò la sua attività come pittore.



[1] Franco Negroni: Una famiglia di ceramisti Urbinati: i Patanazzi. Faenza LXXXIV, 1998, I-III, p. 104-115.

[2] Per questa e per ogni altra notizia sui Patanazzi di Urbino facciamo riferimento al recente saggio di Franco Negroni (nota 1), p. 105-115.

 

Poiché vi sono alcune opere sicure, è possibile definire, esaminandole, la maniera di Alfonso: si tratta di un piatto da lui firmato e datato 1606 del Victoria and Albert Museum di Londra con Romolo che riceve le donne sabine[1], di cui purtroppo non abbiamo una buona riproduzione, e di uno del Museo civico di Pesaro, su cui è raffigurato Priamo che si consulta con i suoi sull’opportunità di far entrare in città il cavallo, firmato ma privo di data[2] (fig. l). Quest' ultimo fa parte di un servizio contrassegnato da uno stemma non identificato, che compare anche su un piatto con Mosé che fa scaturire l'acqua dalla rupe (Esodo XVII), dipinto dalla stessa mano, anche se non firmato[3] (fig.2). Nel museo di Pesaro è infine conservato un terzo piatto, con al centro 1'allegoria della Fama, racchiusa entro un quadrato e circondata da grottesche su fondo bianco, firmato con il nome per esteso sul retro e con le iniziali nella parte anteriore (fig. 3).

Sappiamo, per aver letto il Fortnum, che nella collezione Swaby figurava un grande piatto ovale con mascheroni a rilievo e scene entro scomparti , con su scritto Alfonso Patanati fe. Urbini, in botega di Jos. Batista Boccione 1607, e che un grande piatto circolare dipinto col Giudizio di Paride, firmato Alfonso Patanati fecit, era nella collezione Cajani di Roma; non sappiamo però dove si trovino attualmente. Nel menzionare il piatto Swaby, dal quale trae l'erronea conclusione che i Patanazzi non erano proprietari di bottega, il Fortnum rileva che lo stile, pur sugli schemi decorativi dei Fontana, mancava ahimè della loro bravura nel dipingere[4]. Lo stile che emerge dalle opere certe di Alfonso è infatti tutt' altro che raffinato, con figure sintetiche e pesanti, un po' goffe, dai movimenti e dai panneggi rigidi, sullo sfondo di architetture classiche alquanto semplificate.

Naturalmente non è possibile dire quanto sia dovuto personalmente ad Alfonso o sia il risultato della collaborazione all' interno della bottega. C'è da notare però che si tratta di una maniera piuttosto unitaria, anche se con diversi livelli di qualità e accuratezza, legati probabilmente al tipo di oggetto e alla destinazione. Valutata su criteri stilistici, anche se con tutte le cautele dei caso, la produzione di Alfonso dovette essere quantitativamente molto vasta. Opere attribuibili alla sua bottega si trovano in numerosi musei: per fare qualche esempio, ecco due esemplari, anch' essi nel museo civico di Pesaro, con scene bibliche relative a Mosè e Abramo (fig. 4, 5); altri due, rispettivamente nel Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza (MICF) e nel Museo civico medievale di Bologna (fig. 6); un piatto in collezione privata con allegoria della Fede (fig. 7).



[1] Inv. 2612-1856, in: Bernard Rackham: Catalogue of Italian Maiolica. Victoria and Albert Museum, London 1940, 2 voll., n. 869. Alla base della scena, nella parte anteriore, è la scritta abbreviata  “ALF.P.F. / VRBINI 1606”, mentre sul retro la stessa si ripete per esteso: “ALFONSO PATANAZZI FECIT VRBINI 1606”.  

[2] Maria Mancini della Chiara: Maioliche del Museo Civico di Pesaro, Regione Marche e Comune di Pesaro, 1979, n. 18.La scritta esplicativa termina con “VRBINI/ALFONSO PATANAZZI/FE”.  

[3] Cfr. nota 4, n.2.

[4] Charles Drury Edward Fortnum: A Descriptive Catalogue of the Maiolica... in the South Kensington Museum. London 1873, p. 220. 

 

Anche l'ultima serie di vasi farmaceutici della Santa Casa di Loreto condivide i caratteri stilistici di Alfonso, e rientra con ogni probabilità fra le opere (fig. 8,9). E' vero che per il gruppo vi è un atto di pagamento a officina urbinate del 1531[1], quando Alfonso era già morto. Niente però si oppone a che fossero stati eseguiti alcuni anni prima del pagamento. I Patanazzi intrattenevano legami con il santuario lauretano fin dall' epoca di Francesco, che nel 1585 aveva ricevuto due commissioni per forniture di vasi, e nel 1588 aveva sposato la figlia di Lattanzio Ventura, lapicida e architetto della Santa Casa[2].

Incidentalmente, notiamo che lo stile di Alfonso, rispetto alla produzione precedente semplificato talvolta fino all' ingenuità, e sul quale poco incide la raffinatezza grafica delle fonti - fra cui le illustrazioni delle bibbie lionesi, incise dal Petit Bernard, sono le favorite- è quello di tutta una serie di oggetti un tempo attribuiti a Lione . In particolare, i piatti di argomento biblico con la scritta Genese, cui appartiene questo esemplare del Museo dell' Hotel Dieu di Lione, aprono un problema attributivo piuttosto complesso (fig. 10). La domanda a cui bisogna rispondere è, infatti, come mai, se non si tratta di produzione urbinate, come noi siamo portate a credere, lo Stile di Alfonso possa essersi trapiantato con tanta puntualità nella città francese.

Ma non è questo il luogo per la discussione. Come abbiamo accennato all' inizio, desideriamo qui parlare di fondi colorati relativi alla produzione di Alfonso. Tornando all' articolo di Don Negroni, esso reca in appendice un inventario redatto di sua mano da Antonio dei Patanazzi, annesso a un contratto del 1585[3]. Vi sono menzionati, fra gli altri, oggetti berettini, dipinti cioè su smalto azzurrato, mostrando che in questa specifica bottega essi venivano prodotti, anche se si tratta di una esigua minoranza rispetto al totale: un bacile bertino...Piati de bertino da mezo grosso sedici...e un bastardo e un da quatro carlini bertino.

Non conosciamo oggetti berettini attribuibili con sicurezza al periodo di Antonio. Riteniamo però di conoscerne alcuni di Alfonso, che testimoniano come quest' uso si sia protratto, all' interno della bottega, fino verso il 1630.

Che nella produzione urbinate e marchigiana in genere vi fossero oggetti a fondo azzurrato è noto da tempo grazie ai frammenti di scavo a paesi, ritrovati a Pesaro[4] e nelle volte del Palazzo Ducale di Urbino[5] (fig. 11).



[1] Ceramiche urbinati. Note storiche e inventario, 1976, p. 14.

[2] Cfr. Negroni, nota 1, p. 167.

[3] Negroni, nota 1, appendice 1 p. 112 e 113, nn. 30, 40, 41.

[4] Berardi Paride: L´antica maiolica di Pesaro dal XIV al XVII secolo, Firenze 1984 fig.

[5] Maria Giannatiempo Lopez: Urbino Palazzo Ducale / testimonianze inedite della vita di corte, catalogo della mostra dic. 1997-marzo 1998, Urbino 1997, no 41 p. 63.

 

Questo tipo di smalto doveva però riguardare anche altre tipologie decorative. Siamo del tutto convinte, ad esempio, che la brocchetta del Museo del Vino di Torgiano, proveniente dalla collezione Ducrot e assegnata dal Ballardini a Venezia, sia in realtä urbinate (fig.l2). La forma appare infatti tipica di questo centro, legata in particolare proprio ai Patanazzi, e se oggi dovessimo riprendere in mano il catalogo per aggiornarlo, non esiteremmo ad eliminare qualunque accenno a una possibile provenienza da Venezia. Lo stesso decoro a fiori e uccelli trova riscontro, a Urbino, con un motivo simile in policromia su fondo bianco che caratterizza un certo numero di manufatti (fig. 13), di cui i più famosi sono quelli del cosiddetto servizio Bozoleni, mentre il più interessante è un basamento (per un centro tavola o per un calamaio) nel quale esso si associa con due aquile plastiche e grottesche tipiche della produzione locale, conservato nel Museo di Palazzo Ducale (fig. 14).

Non è però stato il ricordo dell' ormai vecchio catalogo di Torgiano, pubblicato una decina di anni fa, a ridestare il nostro interesse per la produzione a fondo colorato dei Patanazzi, bensì la più recente schedatura del Museo Bagatti Valsecchi di Milano.

II museo, che si presenta come una splendida abitazione riccamente ammobiliata del secolo XIX, fra le sue numerose ceramiche ne annovera alcune veramente eccezionali, come due grandi albarelli dipinti sul fondo azzurro, in blu intenso con lumeggiature bianche (fig. 15, 16, 17, 18). La forma si presenta in entrambi con spalle arrotondate, rastremazione cilindrica al centro, bordo espanso, coperchio a cupola sormontato da un' aquila plastica, due anse a forma di sirena alata, verticali e contrapposte. Vi sono dipinte, in monocromia blu su fondo azzurrato, alcune scene di cui non sapremmo fornire una spiegazione. In questo primo albarello, da un lato si trovano alcuni personaggi seduti attorno a un tavolo, sul quale sono disposti libri e vasellame, con edifici sullo sfondo. Sulla destra, un giovane sta in disparte. Dal lato opposto, un personaggio giace sotto un albero, forse addormentato; lì accanto pascola il suo bestiame, mentre un cavaliere si allontana spronando il cavallo. La fonte grafica per il banchetto potrebbe ispirarsi liberamente a questa incisione di Bemard Salomon nelle Figure del antico et nuovo testamento illustrate da versi vulgari italiani, in Lione, per Jean de Tournes, 1559, che si riferisce però a un episodio sacro, durante il quale la Maddalena unge i piedi del Cristo. Qui invece l'elemento che differenzia l'episodio da altri consimili sta proprio nella presenza dei libri, il che fa pensare a un convito di sapienti.

L'altro albarello ha la stessa forma, ed è anch' esso dipinto in monocromia blu su fondo azzurro e lumeggiature bianche. Poiché costituisce un perfetto pendant del precedente, si può supporre che le scene che vi sono raffigurate siano collegate: su un lato possiamo vedere alcuni personaggi che circondano un catafalco: due di loro tengono in mano un libro, altri due sembrano intenti a deporre o a sollevare il corpo di un vecchio. Vi sono edifici classici sullo sfondo, e un grande vaso baccellato è posato al suolo in primo piano. Sul lato opposto siamo di nuovo in campagna, con una scena di mungitura: in primo piano, una capra e un palmipede; dietro la mucca, un vecchio fa cenno a un giovane fermo in piedi, con bastone e cappello in mano. 

 

La scena di deposizione (?) ricorda, con parecchie varianti nelle figure e nelle architetture di sfondo, un' altra incisione di Bernard Salomon per lo stesso testo, che rappresenta la Morte di Giuseppe. Non siamo però convinte che il modello sia questo, bensì un' altro, riferito a storie di argomento classico, che condivide lo schema compositivo delle incisioni del Petit Bernard perché le conosce, oppure perché utilizza le sue stesse fonti. Ci sembra possibile che si tratti della morte di qualche celebre studioso o filosofo del passato, ma le modalità della morte di Socrate, cui viene spontaneo pensare in questi casi, non rispondono pienamente all' iconografia.

Da un punto di vista strettamente ceramico, il problema posto dagli albarelli è analogo a quello della brocchetta di Torgiano: colori insoliti su forma e Stile urbinati. Stilisticamente, non v' è dubbio che gli albarelli Bagatti Valsecchi provengano dalla bottega di Alfonso Patanazzi. Riconosciamo i modi rigidi, semplificati e solenni, anche attraverso le insolite tonalità cromatiche. Appartengono quindi grosso modo al primo quarto del secolo XVII. Anche la forma è chiaramente urbinate: la ritroviamo nei due grandi albarelli attualmente nella spezieria della Santa Casa di Loreto, il cui coperchio è però sormontato da un drago, in onore probabilmente dei Borghese, il cui stemma compare su uno dei due. Lo stemma visibile è invece quello di Tiberio Cenci, che divenne governatore della Santa casa dal 1622 al 1632 [1](fig. 19).

Questa forma ha poi, nell' ambito della produzione della bottega, numerose varianti; fra i molti esempi possibili, vi mostriamo questo albarello del Musée des Arts Décoratifs di Lione, dove la forma è più panciuta ma sempre riconoscibile, nella sagomatura a sirena bifida e testa di leone die manici, e nel rapporto fra la rastremazione del corpo e le spalle arrotondate (fig.20).



[1] L´albarello, e l´altro che lo accompagna, non fa parte integrante del corredo, ed è più probabilmente proprietà personal del Cenci, poi lasciata al santuario. Secondo Dante Bernini, lo stemma Borghese sarebbe addirittura quello del futuro papa Paolo V (1605-1621), autore del importanti lavori nel santuario, ma potrebbe trattarsi di qualche altro prelato della famiglia. Si tratta comunque di produzione urbinate, dove è documentato e il Cenci si forniva di maioliche (Le ceramiche da farmacia della Santa Casa di Loreto, introduzione storica di Floriano Grimaldi/ saggio iconografico e commento alle tavle di Dante Bernini, Roma 1979, p. 22, nota 216).      

 


Ci soffermiamo un attimo su questo albarello, che crediamo inedito, e anch' esso su base stilistica attribuibile ad Alfonso. E' ornato prevalentemente a grottesche su fondo bianco, fantastiche e vivacissime, entro le quali spiccano due medaglioni: su un lato l' Evangelista Luca, con accanto il Vitello, e sotto l' allegoria della Temperanza; sull' altro l' Evangelista Giovanni, accompagnato dall' Aquila, e sotto l' allegoria della Fede, che regge in mano un cuore.

Tornando ai due albarelli Bagatti Valsecchi, non soltanto essi costituiscono una testimonianza inedita e importantissima che la produzione a fondo azzurro persiste, nell' ambito dei Patanazzi, fino all' epoca di Alfonso, ma sono di particolare interesse anche in relazione ad un altro gruppo di maioliche a fondo colorato, in cui ci siamo imbattute in occasione della recente mostra in onore di Gaetano Ballardini del MICF (giugno 2000).

Si tratta di un piatto di Palazzo Venezia con la scena di Mosè che, disceso dal Sinai, chiama gli anziani ed espone loro quanto il Signore ha comandato (Esodo XIX, 7-8 ) (fig. 21), e di un piatto nelle collezioni del MICF con Noè in atto di ringraziare Dio dopo il diluvio, da Genesi IX (fig. 22); vi è poi un vassoio ovale in collezione privata con la scena di Abramo e i tre angeli (Genesi XVIII), venduto presso Sotheby nel 1971, la cui attuale collocazione ci è sconosciuta. Tutti e tre questi esemplari sono dipinti in blu su un fondo di maiolica verde-turchese, e lumeggiato in bianco, con una intonazione cromatica insolita, che richiama quella del berettino. Le seene bibliche che li illustrano provengono dalle incisioni di Bernard Salomon per le Figure del vecchio testamento illustrate da versi vulgari italiani da Damiano Maraffi, Lyon, Jean de Tournes, 1554. Li accompagna, secondo una tradizione inaugurata dal Ballardini, un' attribuzione faentina a Giovan Battista dalle Palle. Eppure, ora che ci siamo un po' familiarizzati con lo Stile di Alfonso Patanazzi (fig. 23), non è difficile riconoscerne i tratti in queste figure rigide e semplificate, pur nella loro monumentalità.

Sembrerebbe dunque che la bottega non si limitasse ai berettino tradizionale, dal tono azzurrato, ma disponesse anche di un bei turchese. Questa particolarissima tonalità compare talvolta negli abiti delle figurine plastiche prodotte a Urbino sullo scorcio del secolo, e generalmente attribuite ai Patanazzi: ecco ad esempio questa Madonna del museo di Marcigny, in Francia (fig.24), segnalataci gentilmente dal curatore M. Perrot, analoga a molte altre, ma sul cui mantello è possibile vedere contemporaneamente entrambi i colori, 1'azzurro e il verde turchese simili a quelli dei piatti. II turchese è stato poi anche trovato in frammenti di scavo provenienti da Pesaro, pubblicati dal Berardi, a riprova della sua appartenenza marchigiana.

Concludendo, ci sembra trattarsi di una produzione di grande interesse, anche se numericamente poco rappresentata, e che prosegue a lungo, dall' epoca di Antonio Patanazzi, nella seconda meta del secolo XVI, fino almeno al terzo decennio dei secolo successivo. E' inevitabile collegarla non tanto col berettino di Faenza, così specifico e che si arresta prima dei 1550, ma con la maiolica veneziana a smalto azzurro, altrettanto longeva, con la quale deve esserci stato un rapporto continuativo, dovuto a scambi di artefici e di manufatti.

 

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