Carola Fiocco - Gabriella Gherardi. In Castelli e la Maiolica cinquecentesca italiana (atti del Convegno, Pescara 1989), Pescara 1990, p.146-151; "intervento", ibidem, p. 125-126
Nell'ambito della produzione derutese, che durò vastissima e ininterrotta dal
Medio Evo al secolo XVIII, una fase
ancora poco conosciuta e di grande
interesse è quella tardo-gotica,
relativa alla seconda metà del 1400.
Nell'introduzione al catalogo della ceramica umbra del
Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, dove
abbiamo tentato una prima sistemazione generale della Ceramica
derutese (1), è stata questa la parte che
probabilmente ha destato più sorpresa. Risultano infatti
derutesi alcuni piatti e piattelli con
raffigurazioni spesso delineate da cornici che
ne seguono i contorni, circondate da occhi di penna di pavone, motivi
a rosetta, a' 'foglia di felce" e a "foglia
accartocciata", mentre la tesa è spesso
percorsa da file di punte oblique bipartite. Vi
figurano anche motivi più o meno complessi
graffiti su un fondo viola manganese, spesso
rialzati da tocchi di verde. Molti di questi
esemplari sono "da pompa", ed hanno il retro non rivestito o
semplicemente verniciato, e i fori di
sospensione al piede. Il retro privo di
smalto, pur non esclusivo della
produzione derutese, ne costituisce
tuttavia una costante a partire dal Medio
Evo fino a tutto il secolo XVI,
assieme alla predilezione per gli
oggetti da parata (2).
Nel riconoscere la provenienza derutese di queste tipologie, non abbiamo fatto altro che trarre le inevitabili conclusioni dai frammenti di scavo pubblicati nel 1934 da Alpinolo Magnini sulla rivista "Faenza"(3) e da quelli pubblicati nel 1987 da Giulio Busti e Franco Cocchi (4). Anche nel recente convegno di Fabriano ne sono stati presentati altri simili dagli stessi autori, tutti provenienti dal sottosuolo derutese (5). Fra essi, è particolarmente significativa la presenza frequentissima di motivi a foglia o punta obliqua bipartita, in cui la bipartizione è sottolineata dalla diversità del colore; di rosette o "fiori di brionia" entro tralci sinuosi da cui si dipartono riccioli arabescati; di motivi ricurvi più o meno complessi graffiti sul fondo brunomanganese, rialzati da tocchi di verde (Tav.1).
Questa del manganese graffito sembra essere una vera specialità per i vasai derutesi della seconda metà del secolo XV, vista l'enorme quantità di frammenti, fra cui numerosi scarti di fornace. Nel 1924 già il De Mauri aveva attribuio a Deruta un grande piatto da pompa del Louvre con al centro una infiorescenza gotica entro un giro di foglie oblique bipartite (6),
Fu però ripreso con tale decisione dal Ballardini nella recensione che segui la pubblicazione del volume (7) che, in seguito, l'attribuzione generalmente accettata per la tipologia fu a Faenza (8), Di recente il Wilson, nel catalogo della mostra tenuta al British Museum nel 1987 , avanzò dubitativamente la attribuzione a Deruta per il piatto da pompa con un soldato che imbraccia lo scudo (9), I piatti da pompa tardo-gotici non costituiscono l'unica novità emersa dallo studio del materiale di scavo derutese. Risultano infatti presenti, anche su scarti di fornace, elementi che consentono di a:ttribuire a Deruta una caratteristica serie di vasi da farmacia, fra cui molti albarelli. Questi ultimi hanno corpo cilindrico appena rastremato, e spalle angolate. Sono per lo più biansati, e le anse possono essere a nastro, a torciglioni, o sagomate a cresta, come negli esempi spagnoli. La decorazione è distribuita in due pannelli contrapposti, ed è di tipo tardo gotico. Attorno al piede si dispone generalmente una serie di tratteggi obliqui. L'interno non è smaltato, ma soltanto invetriato. L'attribuzione ha finora oscillato fra Faenza e la Toscana, con una netta propensione per quest'ultima, dopo la pubblicazione del libro del Cora (10). Fra i frammenti di scavo particolarmente convincenti vi sono anse a torciglioni, parti decorative con motivi a ciuffo entro linee serpentinate o cruciformi, foglie bipartite etc. Vi sono tracce di lettere gotiche entro foglie di felce, che presentano alloro interno circo letti e altri motivi graffiti sul blu di fondo. Determinanti ci sembrano infine alcuni scarti di fornace di anse sagomate a cresta, e di un motivo decorativo graffito sul manganese che si trova talvolta su tali anse, come ad esempio nell'albarello del Museo Nazionale di Firenze 12 o attorno al bordo di alcuni piatti, uno dei quali, un tempo nella collezione Beckerath, reca lo stemma dei Ranieri di Perugia, d'azzurro alla banda d'argento doppiomerlata (11). L'attribuzione a Deruta diquesta tipologia di albarelli e vasellame da farmacia è confermata dalla sporadica presenza del lustro e di quella, frequente, di stemmi di nobili famiglie perugine. Su un albarello del Louvre, ad esempio, compaiono tracce di lustro rosso e oro (12), Trattandosi di un oggetto ancora quattrocentesco, questa è da considerarsi fra le più antiche comparse del lustro in Italia. Su una delle facce di questo albarello è raffigurato lo stemma dei Baglioni di Perugia, d'azzurro alla fascia d'oro, che possiamo vedere anche su un esemplare un tempo nella collezione Bringsheim.
L'albarello accanto pubblicato nel 1904 dal Wallis nei suoi studi sulla maiolica italiana (13) e nel 1974 in vendita presso
Com'è noto, il passaggio alla fase rinascimentale è contrassegnato a Deruta, oltre che dal diffondersi del lustro, dalla
comparsa di una tipologia denominata dal Rackham "Petal-back" (14). Questo vassoio del
Museo dell'Hermitage di Leningrado (Tav.3) fornisce un buon esempio della caratteristica distribuzione decorativa, a fasce
concentriche attorno a un motivo centrale, e del retro con i grandi
petali striati trasversalmente e intercalati da asterischi e triangoli puntinati. Numerosi frammenti di scavo consentono di eliminare, anche in questo caso, il benchè
minimo dubbio attributivo (Tav.4a), e di osservare come presenti il retro a petali anche un poco
frequente motivo a "occhi di penna di pavone" policromi su fondo giallo intenso. È interessante notare come il motivo
del retro a petali, in diversa stilizzazione, non sia esclusivamente derutese. Fra le versioni meno note, una sembra appartenere alla produzione di
Castelli se, com'è molto probabile, alcuni frammenti di recente rinvenuti fanno parte di una produzione locale. Fanno propendere per questa
conclusione il tipo di smalto, il cui bianco vira verso toni giallorosati, diversi da quelli più freddi di Deruta e,
nonostante l'estrema somiglianza, la mancanza di asterischi e puntinature e la presenza di motivi
giallo-arancio su fondo giallo (Tav.4b). Osserviamo inoltre che il
frammento con le foglie bipartite, che è cosi simile agli esempi derutesi, ha però sul retro una decorazione che non si trova a Deruta. Altri
frammenti, esposti alla mostra sulla maiolica cinquecentesca di Castelli, mostrano motivi analoghi a quelli umbri, fra cui una specie di bulbo rigato che
possiamo confrontare con quelli su questo frammento di scavo da Deruta (Tav.4c).
Tornando alla produzione derutese, al gruppo "petalback" non appartengono solo le forme col retro decorato che gli hanno dato il nome, ma anche piatti da pompa e
vasi da farmacia, assimilabili per colori e motivi decorativi. Scompaiono però negli albarelli le anse, cosi frequenti nella fase precedente; essi passano
inoltre dal profilo quattrocentesco più rigido e squadrato a quello più
fluido degli inizi del '500, mentre la decorazione, con la perdita delle anse, non è più distribuita in due pannelli contrapposti, ma tende a racchiudersi in una
ghirlanda bipartita dal cartiglio e legata con nastri svolazzanti (15), Il "petal back" cede poi il posto alla grande e notissima produzione rinascimentale, policroma e a lustro,
sulla quale non è qui il caso di soffermarsi. È però interessante notare come vi persista il gusto delle forme biansate, negli alti vasi a
corpo ovoidale o a palla, e nelle grandi coppe su piede.
Tale gusto è forse la più appariscente fra le affinità che legano la produzione di Deruta a quella rinascimentale di Castelli. Tuttavia quest'ultima utilizza a lungo le anse a torciglioni e la distribuzione in pannelli nel vasellame da farmacia, quando ormai a Deruta erano da tempo cadute in disuso (Tav.5). Tale ripresa avviene a Castelli nell'ambito dell'elaborazione manieristica delle forme, visibile in particolare nel corredo "Orsini-Colonna".
Non insisteremo oltre sui
rapporti fra
l"'Orsini-Colonna" e la
produzione cinquecentesca
derutese, perchè evidenti e
debitamente sottolineati da Marco Ricci e da Guido
Donatone sia a livello di forme che di
particolari decorativi'
(16).
Poco significativi
invece ci sembrano i
raffronti con le
"turchine". La presenza
di smalto turchino nei frammenti
di scavo derutesi è sporadica, e
insufficiente a
ipotizzare una produzione vera e
propria (17). Un rapporto fra i due centri
deve esserci stato,
dovuto non soltanto a probabili
passaggi di mano d'opera e di
materiali, ma soprattutto all'appartenenza
a una comune area
culturale, dove convergono
la parte meridionale
dell'Umbria e delle Marche,
quella settentrionale
dell' Abruzzo e la parte di Lazio che
vi si insinua. All'interno di
tale area gli scambi e i contatti dovettero
essere frequenti,
attraverso le vie degli
Appennini. Basti pensare
alla vicenda esemplare del pittore e
architetto Cola dell'
Amatrice. Egli fu ad Ascoli dal 1518,
dove lavorò a lungo e dove con
tutta probabilità mori nel
1547. Operò anche a Campli
e all' Aquila, e gli sono attribuite opere a
Chieti e Tortoreto, e in Umbria nella chiesa
di S. Claudio a Spello. Fu dunque un
artista che si spostava spesso
proprio all'interno
dell'area
umbro-marchigiano-abruzzese.
Il problema dei rapporti fra la ceramica umbra e quella abruzzese non può quindi certo essere affrontato con confronti tipologici, bensì in un'ottica storica ed economica più vasta. Andrebbero esaminate le relazioni commerciali, le vie di comunicazione, la documentazione sugli spostamenti dei ceramisti e cosi via. Si tratta di una ricerca di proporzioni vastissime, che non è assolutamente nei nostri programmi affrontare.
Per incoraggiare ulteriori approfondimenti in questo campo, desideriamo riproporre una curiosa annotazione del catalogo della collezione Castellani, dove è menzionato un piatto col busto di un'eroina, una banderuola e la firma inequivocabile di Orazio Pompei. Questo piatto, che aveva tutt'intorno embricazioni e rami di frutta, era arricchito da "bei riflessi metallici blu madreperlaceo e bruno violaceo con riflessi dorati, rialzati in blu (18). Ignoriamo l'attuale collocazione del
piatto, ma ci auguriamo che esso possa presto tornare alla luce, costituendo una possibile testimonianza dell'esistenza di una produzione a lustro abruzzese (19).
1 C. FIOCCO - G. GHERARDI, Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza. Ceramiche umbre dal Medioevo allo Storicismo. Faenza, 1988, I, pp.139-161.
2 I retri non rivestiti o
ricoperti di vernice
trasparente sembrano
essere una
caratteristica
specificamente umbra, o
comunque li-
mitarsi all'Italia
centrale.
3 A. MAGNINI,
Elementi decorativi
delle antiche
maioliche di
Deruta, in Faenza, XX,
1934, IV-V, p.130.
4 G. BUSTI - F. COCCHI, Prime
considerazioni su
alcuni frammenti da
scavo in Deruta. Ib.,
1987,1-3, pp.14-20,
tavv.IV-XII.
5
ID., La ceramica derutese
dal XIII al XVII
secolo, nei reperti
da recenti scavi
locali, relazione
presentata al convegno "Ceramica
fra Marche e Umbria dal Medioevo al
Rinascimento", Fabriano, domenica
9 aprile 1989.
6 DE MAURI, Le maioliche di Deruta, Milano, 1924, tav. V.151
7 G. BALLARDINI, Maioliche di Deruta, in "Faenza", Faen-
za, XII (1924), III, p.58.
8 Vedi ad esempio J. GIACOMOTTI, Les majoliques del Musées nationaux, Parigi 1974, nn.84 e 164; e T. HAUSMANN, Kataloge des Kunstgewerbemuseum, Berlin. VI. Majolika. Spanische und italienische keramik von 14. bis zum 18. jahruhundert, Berlino 1972, n.109. Il Rackham preferi invece l'attribuzione a Firenze (v. B. RACKHAM, London, Victoria and Albert Museum. Dept. of Ceramics. Catalogue of ltalian Majolic, Londra 1940, n.95.
9 T. WILSON,
Ceramic art of the Italian
Renaissance, Londra,
1987 n.28.
10 A Faenza lo attribuisce J. Giacomotti (v. op. cito nn.87, 88; 91-93. L'attribuzione è dubitativa per il n.92, che è l'albarello con stemma Baglioni e tocchi di lustro oro e rosso). Il Rackham ne attribuisce parte a Firenze (op. cito nn.71, 91 e 93) e parte a Faenza (nn.106-108. È da notare che sul n.93 compare lo stemma dei Ranieri di Perugia). Il von Falke, il Cora e l'Husmann li attribuiscono alla Toscana (v. von FALKE, Die majolikasammlung Alfred Pringsheim in Munchen, L'Aja 1914, nn.8-14. C. CORA, Storia della maiofica di Firenze e del contado. Secoli XIVeXV, Firenze 1973, tavv.122a, 206, 208. T. HAUSMANN, op. cit., n.84.
11 O. von FALKE, Die majolikasammlung Adolfvon Beckerath, Berlino 1913, n.58.
12 Inv. DA 1885, ripr. in J. Giacomotti, op. cit., n.92.
13 H. W ALLIS, Italian ceramic art. The albarello. A study in early renaissance majolica ... , Londra 1904, p.20 fig.19.
14 B. RAKHAM, An new chapter in the history of Italian maiofica, in "Burlington Magazine", Londra, XXVII, 1915, I, pp.28-35.
15 Per le
caratteristiche di questi
albarelli, V. C. FIOCCO -
G. GHERARDI, op.
cit., pp.60-64. Essi hanno in
genere l'interno privo di
smalto, soltanto rivestito di una
vernice trasparente.
16 M.
RICCI, La maiolica
rinascimentale dalla
nascita al
compendiario, in "La
maioliche cinquecentesche
di Castelli", Pescara
1989, p.51, G. DONATONE,
I mattoni dell'antica cona e la
maiolica del cinquecento a
Castelli, ibidem p.114.
17 Non è derutese, a nostro avviso, il vaso turchino a forma di pigna del Museo Medievale di Arezzo, pubblicato come tale da C. RAVANELLI GUIDOTTI in La produzione turchina: la nascita e l'affermarsi del nuovo gusto tra manierismo e barocco, ibidem p.127 n.5. La forma non rispecchia infatti quella del vasellame derutese, mentre è vicinissima ai vasi globulari biansati Orsini-Colonna, classificati nello stesso catalogo come "gruppo III". Si tratta dunque di un interessante esempio di "turchina" castellana.
18 Catalogue des
faiences
italiennes ... de
M. ALESSANDRO
CA-
STELLANI,
Hotel Druot, Parigi
1878, p.32 n.95.
19 Vedi C. RAVANELLI
GUIDOTTI, Aspetti della maiolica po-
licroma castellana del '500 ... in "Le maioliche
cinquecentesche
di Castelli", op. cit., p.120.