Carola Fiocco - Gherardi Gabriella. In Maioliche umbre decorate a lustro, a cura di G.Guaitini, Firenze, Nuova Guaraldi, pp. 59-73. 1982
La tecnica a lustro è rimasta sconosciuta in Italia fino alle soglie del 500; benché fosse nota per le importazioni soprattutto dei prodotti spagnoli, il più antico pezzo a lustro conosciuto porta la data del 501 ed è la targa, ora al Victoria and Albert Museum diLondra, rappresentante a rilievo S. Sebastiano.
Questo dato di fatto non esclude naturalmente una precedente produzione a noi non pervenuta, o una possibile retrodatazione di oggetti attualmente datati ai primi anni del XVI secolo (1).
Anche se episodi di maiolica a lustro sono dimostrati o ipotizzati per altri centri italiani, è soprattutto nell'Umbria che essa ha un grosso sviluppo ed è meglio documentata.
I centri principali sono stati Deruta e Gubbio; il Piccolpasso cita i lustri di Gubbio, afferma di averne visto personalmente l'esecuzione nella bottega di Cencio, figlio di Maestro Giorgio, e ne dà la formula (2) .
Sorprendentemente, pur avendo soggiornato a Perugia parecchi anni, non parla della produzione derutese; cita invece le "maioliche... di Santa Natoia" , località non ancora bene individuata, malgrado alcuni autori abbiano tentato di attribuirvi qualche pezzo abnorme e difficilmente classificabile nell'ambito della produzione a lustro (3).
Per Deruta supplisce però un'altra testimonianza, quella fornita dal frate bolognese Leandro Alberti nella sua" Descrittione di tutt'Italia" edita a Bologna nel 1550: "Sono molto nomati i vasi di terracotta ivi fatti, per essere talmente lavorati che paiono dorati. Et anche tanto sottilmente sono condotti che insino ad hora non si ritrova alcun artefice nell'Italia che li possa agguagliare, benché assai sovente abbiano isperimentato et tentato di fare di simili. Sono dimandati questi vasi di majorica per che primieramente fu ritrovata quest'arte nell'Isola di maiorica et quivi portata".
Egli visitò l'Umbria attorno al 1530, quando i lustri erano al loro culmine (4).
Questa fonte così esplicita è stata poi suffragata dagli scavi: quelli
avvenuti nella seconda metà del 1800, di cui ha relazionato il Piot, quelli più recenti dei
Magnini, i cui reperti hanno dimostrato l'abbondanza e la
varietà dei lustri derutesi e orientato, almeno per
ora, 1'annosa questione delle attribuzioni a
Pesaro o a Deruta in favore di questa ultima (5).
Quanto alla produzione di
Gualdo Tadino, mentre vi è certa
l'antichità della ceramica, è dubbia una produzione
rinascimentale a riflessi (6).
Poiché i primi pezzi attribuibili con sicurezza alla bottega Andreoli di Gubbio non risalgono a prima del 1515, la produzione derutese ha cronologicamente la precedenza, A Deruta è infatti attribuita la targa sopra citata col S, Sebastiano, il cui lustro ha una sfumatura rosata. A questo proposito sono numerosi i pezzi che, pur presentando caratteristiche derutesi, sono arricchiti da un lustro di tonalità rosata o rossa.
Ciò ha posto il problema della attribuzione a Gubbio o a Deruta, e dei rapporti fra Deruta e Gubbio, dal momento che illustro rosso si riteneva fosse una prerogativa della bottega di Maestro Giorgio.
Lo stesso De Mauri, che pure fa giustizia di molte attribuzioni sbagliate restituendo a Deruta ciò che le spetta, dubitava che vi fosse stato prodotto del lustro rosso, data la scarsa quantità nei reperti di scavo, Ipotizzava così che i vasai derutesi mandassero a lustrare in rosso a Gubbio, ipotesi dubitativamente condivisa dal Magnini e decisamente rifiutata dal Rackham.
Lo studioso inglese restituisce il lustro rosso a Deruta, limitandone però la produzione ai primi anni del 1500.
Noi siamo propense ad allargare la datazione, sulla base di alcuni pezzi più tardi e che presentano uno smagliante tono di rosso (7).
La mostra ha cercato, nei limiti del possibile, di presentare una scelta esauriente delle varie tipologie derutesi, sia per la decorazione che per le forme.
I pezzi cosidetti "da pompa" sono senz' altro quelli più noti; si tratta di grandi piatti il cui uso non era quello di contenere cibi, bensì di essere esposti su mobili o piattaie, o di essere appesi; parecchi reca
no, alla base, i due fori per il cordone eseguiti a crudo. A causa della loro funzione, si tratta di ceramiche in cui il soggetto effigiato ha grande importanza. Devono ammaestrare, esortare, dare motivo di riflessione; a volte, sostituiscono l'immagine religiosa, altra semplicemente, lodano la bellezza di una donna che probabilmente ha ricevuto il piatto quale dono da un innamorato.
L'impostazione spiccatamente religiosa e moraleggiante che predomina fa risaltare per contrasto una minoranza di piatti con soggetti licenziosi, ammiccanti,. sempre però trattati con una buona dose di umorisrno.
Il ceramista è in grado di supplire a tutte le esigenze, di rispondere a ogni richiesta, anche se insolita.
Evidentemente i maestri derutesi disponevano di un ricco repertorio di cartoni e spolveri da trasferire al centro dei grandi piatti, adattandoli via via alle richieste.
Si ripetono spesso le stesse figure, per la maggioranza di chiaro stampo peruginesco, derivate probabilmente dalla diffusione dei cartoni serviti alla decorazione del
Cambio; ma spesso, tramite stampe, si arriva anche a nomi di artisti non locali: alla bottega del Finiguerra, a Pollaiolo, a Raffaello.
Di particolare interesse sono le scritte che serpeggiano in cartigli alle spalle dei
personaggi; vi si possono riconoscere versi (Petrarca è uno degli autori
preferiti), salmi e testi sacri, anime di imprese,
proverbi.
Anche la classicità ha la sua parte, con detti da Seneca o
dall' edizione napoletana di Esopo.
Non esiste un "corpus" di queste scritte, che pure andrebbero studiate e valutate, insieme ai soggetti che esse accompagnano, nel contesto della cultura che li ha espressi.
Questi grandi piatti sono al tempo stesso sfarzosi e severi. Predomina la bicromia blu e lustro dorato, di chiara ascendenza spagnola, raramente arricchita da tocchi di altri colori.
La presenza dell' oro, dato in campiture uniformi, mette in secondo piano gli effetti classici e prospettici, pur molto ricercati, facendo invece risaltare l'arabesco e i motivi decorativi.
La tesa presenta di solito decorazioni che inquadrano come una cornice la scena centrale, riservata al cavetto. Può trattarsi di una corona di "denti di lupo" elementi triangolari fra i quali si ergono infiorescenze verticali; oppure motivi ad embricazioni, che si presentano a volte simili a squame, ad archi, a foglie e ad occhi di penna di pavone.
Spesso la tesa è occupata da una ghirlanda di infiorescenze, variamente annodate; si trovano pure due cornucopie affrontate, fiori quadripetali ete. Ma la decorazione che di gran lunga prevale è quella in cui i precedenti motivi sono associati in una scompartizione che ricorda, nella sua scansione, quella a "metope e triglifi" degli architravi dei templi classici (8).
Anche il vassoio d'acquereccia è estremamente comune nella produzione
derutese; si tratta di un piatto a stretta tesa, col centro rialzato a formare
un umbone, sul quale poggia il piede del versatore. Piuttosto rara nella coeva
ceramica italiana, questa forma
trova un preciso riferimento con quella spagnola.
Vi si applicano, in differenti combinazioni, tutti i motivi presenti nei piatti da pompa, in particolare scaglie, quartieri, infiorescenze
etc.
Talvolta vi è anche una decorazione a rilievo per lo piu a grottesche, eseguita con notevole maestria e raffinatezza. .Al centro dell'umbone prevalgono profili femminili, ma troviamo anche guerrieri, agnelli mistici, maniche si stringono, santi etc.
I versatori hanno una caratteristica forma ovoidale su alto piede; mono o biansati, con o senza beccuccio, ripetono i soliti temi in associazioni di estrema eleganza.
Di uso farmaceutico sono la caratteristica brocchetta e l'albarello, più tipici però della produzione non lustrata (9) .
Ricorre una insolita forma a pigna, spesso completamente ricoperta di lustro, la cui unica decorazione è data per lo più dalle scaglie in rilievo; secondo il Pedrazzini, è anch' essa destinata alla farmacia (10).
Originariamente, queste forme erano completate da coperchi, che
attualmente rimangono in pochi esemplari. Altre
forme ricorrenti sono piattelli, coppe, ciotole.
Alcune dl queste hanno la particolarità di essere decorate .con figure in
rilievo, di soggetto religioso:
presepi, santi, soprattutto Girolamo e
Francesco, ma anche Rocco e Sebastiano.
Quasi tutti i pezzi recanti 1'Adorazione dei pastori recano la data, e si collocano generalmente fra il 1521 e il 1534.
Fra la produzione in rilievo, lustrata, dobbiamo ricordare alcune targhe rettangolari, con gli stessi santi ricorrenti (11).
L.a datazione dei pezzi lustrati talvolta presenta
dif-
ficoltà. Il punto di riferimento è costituito da
alcune rare opere datate oppure riferibili, attraverso
stemmi o emblemi, a personaggi storici certi.
Sono datati, ad esempio, il S. Sebastiano di Londra (1501) e la brocchetta del British Museum (1502) riferibile al corredo di una farmacia il cui emblema era la testa di moro. C'è poi il coperchio ad arabeschi pubblicato dal Rackham nella collezione di Ferdinand Adda, che porta all'interno la data 1514; e un vassoio da acquereccia del Louvre, con motivi di grottesca a rilievo, datato sul retro 1546.
Si annoverano fra gli esemplari più precoci di piatti da pompa quello del museo di Pesaro recante le armi dei Montefeltro e la scritta "Viva Viva el Ducha di Urbino", e quello del British Museum con le armi e le iniziali di Giulio II.Naturalmente le datazioni che questi personaggi
suggenscono (entro il 1508 e il 1513, anni di morte rispettivamente di Guidubaldo di Montefeltro, ultimo della sua famiglia, e di Giulio II) sono da accetarsi con cautela, in quanto armi e ritratti di personaggl famosi venivano utilizzati anche dopo la morte di questi.
Assai più tarda è invece la data del piatto del Victoria and Albert rappresentante il "lavare il capo all'asino" (1556).
Come si vede, la produzione di lustri a Deruta si prolunga nel secolo XVI e oltre. Un frammento a lustro della Madonna dei Bagni, del Museo di Deruta, presente alla mostra, ci testimonia il perdurare della produzione a lustro in pieno '600, come pure le affermazioni del Sabelli alla fine del secolo (12).
Gli stemmi dei papi medicei compaiono spesso su pezzi lustrati, e consentono datazioni approssimative. Queste sono
naturalmente tanto più valide quando è possibile accertare di quale papa si tratti,
come avviene nel caso dei due piattelli, rispettivamente al museo di Sèvres e al Kunstgewerbemuseum di Berlino, nei cui stemmi è inserito il nome “ Clemens “: la loro decorazione, a girali e
foglie ovali, richiama per alcuni elementi, quella ad arabeschi (13).
Date precise portano le opere del "Frate", identificato con Giacomo, figlio del Mancino di Deruta.
Egli è l'autore di un gruppo di istoriati, lustrati e non, sui cui retri sono riportati, oltre la data e la firma, anche versi a
commento del soggetto e la dicitura "in Deruta".
E’ qui pubblicato un frammento particolarmente significativo che appartiene ad un gruppo di opere ispirate all' edizione veneziana
dell'Orlando Furioso, edita da Gabriele Giolito de Ferraris nel 1543.
Oltre al lustro, egli utilizza anche il blu, verde, giallo scuro e giallo arancio.
Le opere da lui firmate sono tutte comprese fra il 1541 e il 1545, ad eccezione del pavimento della sagrestia di S. Pietro,
databile agli anni 1562-63 (14).
Per quanto riguarda la produzione a lustro, il Frate
è l'unico maestro al quale sia possibile riferire con certezza un ben determinato gruppo di opere, essendosi egli
spesso firmato, fatto eccezionale in una produzione generalmente anonima.
I nomi dei maestri derutesi ci sono noti più che altro dai dati cl'archivio (15).
Tuttavia, esaminando attentamente l'opera, e specialmente i pezzi da pompa, è possibile riconoscere alcune caratteristiche comuni che permettono di individuare maniere distinte.
E’ chiaro che non è del tutto legittimo operare una separazione netta fra
produzione lustrata e non; le opere a lustro e quelle policrome uscivano
verosimilmente dalle stesse botteghe, come nel caso del Frate.
Limiteremo comunque il discorso a quello che è l'ambito della presente
mostra.
Uno dei problemi più interessanti è costituito dal Maestro del pavimento di S. Francesco; questo pavimento, che non è lustrato, si distingue nella produzione derutese per la straordinaria qualità, oltre che per la forma composita a stella e croce di derivazione islamica, ed è datato 1524.
Alla stessa mano sono chiaramente attribuibili, ad esempio, i due taglieri a lustro, rispettivamente al Victoria and Albert di Londra e al Louvre, con profili su sfondo di paesaggio, e il piatto, sempre al Louvre, con un cervo che bruca.
Il Rackham credette poi di riconoscere, in alcuni piatti lustrati, i modi di un altro maestro, da lui chiamato" Diruta Painter" dal piatto del Victoria and Albert datato 1515 (o 1525), non a lustro, che reca, fra altre iscrizioni, la dicitura "fatto in Diruta" (16).
In generale, sembra di poter facilmente individuare un "maestro peruginesco" assai legato ai modi e agli schemi decorativi della sala del Cambio di Perugia; è difficile però stabilire se si tratta di riproduzioni dagli stessi modelli o addirittura dagli stessi spolveri, oppure del lavoro della stessa mano.
Ben più caratterizzato è invece quello che potremmo chiamare "maestro delle Virtù", da uno dei suoi soggetti preferiti, eseguito sia a lustro che in
policromia.
Mentre per il tipo peruginesco si può a nostro avviso accettare la datazione corrente che ne limita la produzione al primo terzo del secolo XVI, per il secondo occorre spostarla verso la metà del secolo, se nonoltre.
A questo proposito un utile termine di riferimento può essere la tesa del piatto del museo Ariana di Ginevra, con al centro lo stemma del papa Pio IV (1559-1565 ) (17).
Non ci soffermeremo oltre sulla produzione derutese, che pure presenta ancora tanti problemi irrisolti, come ad esempio il mistero dei suoi rapporti così evidenti con l'Islam, e con la produzione ispanomoresca.
Probabilmente la chiave sta nelle relazioni tra Stato della Chiesa e Spagna nel periodo immediatamente precedente e seguente il papato dei Borgia, nell' importanza
dello Studio perugino come centro universitario di prim' ordine, e nei suoi collegamenti con
Roma, . estremamente favoriti dalla situazione politico-geografica.
Deruta, castello di Perugia, è da sempre legata alle sorti della città maggiore, e, tramite la committenza estremamente elevata (Baglioni, Raineri, Orsini, i Papi etc.) alla sua cultura e a quella romana.
A Gubbio l'arte del lustro si identifica quasi con la attività del maestro Giorgio Andreoli.
Nativo di Intra, sul Lago Maggiore, si stabilì a Gubbio con i fratelli Salimbene e Giovanni, e ottenne la cittadinanza eugubina nel 1498 (18).
Fin dal 1300 risulta da dati cl' archivio la presenza di ceramisti a Gubbio: tuttavia, allo stato attuale, le nostre conoscenze sulla produzione precedente a quella dell' Andreoli sono estremamente lacunose.
Fu l'arte di applicare il lustro a render famosa la ceramica eugubina: oro, argento, e soprattuto un bel rosso rubino di tonalità più intensa di quello di Deruta.
Oltre che sui pezzi della propria bottega, è comunemente accettato che egli lo applicasse su alcuni esemplari pregiati provenienti da altri centri, soprattutto dal ducato di Urbino, di cui anche Gubbio faceva parte (19).
La data più antica su un pezzo lustrato nella tipologia di Gubbio è il 1515 (20); la prima volta che compare la firma del Maestro è su un piatto del museo di Arezzo datato 1518, recante lo stemma Aldobrandini.
Sulla produzione della bottega fra il 1498 e il 1515 ben poco ci è dato sapere, anche se su di essa gli studiosi hanno esercitato la propria fantasia, con attribuzioni sostanzialmente prive di fondamento (21).
È documentata, nel 1510 (data del pagamento) una fornitura al monastero di S. Pietro di vasi da olio, boccali, tubi da camino e da fonti, scodelle varie, mezzette, olle da aceto e perfino calcina; sembra dunque trattarsi di produzione di livello non particolarmente elevato.
Tuttavia i privilegi goduti dall' Andreoli fin dal tempo del duca Guidubaldo I (dall' esenzione da ogni imposta per la durata di vent'nni, privilegio rinnovato successivamente, alla nomina a castellano della fortezza) testimoniano la fama del Maestro, e la considerazione di cui godeva (22).
Uno dei maggiori problemi relativi all'opera del maestro riguarda l'origine del suo lustro; come già detto, a Deruta, sin dagli inizi del secolo, si produceva sia il lustro oro che il lustro rosso.
La novità del maestro Giorgio consiste nell' aver accentuato la tonalità del rosso, che diviene più intenso e coprente, e nell' averlo inserito in una policromia piena, mentre a Deruta negli stessi anni la prevalente bicromia blu e oro segue più da vicino l'esempio ispano-moresco.
Anche se è stata da taluni ipotizzata una
produzione a lustro lombarda, che dovrebbe costituire un
precedente all' Andreoli, è estremamente probabile
che la tecnica a lustro gli venisse dai vasai
derutesi (23).
Occorre a questo punto fare il nome di Paolo
da Deruta; un autografo del maestro, in
data 19 novembre 1516, rimane a
testimoniare che Paolo era alle sue dipendenze, o
perlomeno sbrigava per lui delle commissioni (24).
Ciò non prova naturalmente che Paolo sia un ceramista, ma è generalmente considerato un fatto probante dei rapporti del maestro con Deruta.
I due fratelli di Giorgio gli premorirono entrambi; continuatori della sua opera furono invece i figli, e dal 1536 egli affidò la cura dei suoi affari a Vincenzo detto "Cencio".
Nel 1547 Cencio e il fratello Ubaldo definiscono di fronte al notaio i rispettivi compiti nella attività della bottega paterna: Cencio si impegna a foggiare i vasi, Ubaldo a decorarli e, ove fosse necessario, rifinirli col lustro.
Giorgio morì verso il 1553, Vincenzo fece testamento nel 1576, e dopo di lui sembra tramontare definitivamente la produzione del lustro a Gubbio, Mentre a Deruta il lustro si prolunga in pieno XVII secolo, forte di una tradizione che, anche se ormai in decadenza, costituisce però un elemento caratterizzante della produzione ceramica della città, a Gubbio invece la bottega Andreoli è rimasta un episodio di altissima qualità, ma purtroppo, a quel che ci è dato sapere, praticamente isolato.
Solo il maestro Prestino sembra avere
una produzione autonoma rispetto a quella della bottega
Andreoli, mentre il "maestro Gilio o Gileo" è
ormai ritenuto comunemente frutto di una cattiva
lettura del
nome di Giorgio (25).
Oltre a Paolo da Deruta, sono documentati nella bottega i nomi di altri collaboratori non eugubini; ad esempio, Giovanni Luca da Casteldurante e Federico da Urbino nel 1525. Particolare è il caso di
Francesco Urbini, di cui parleremo più avanti. La presenza di questi apporti esterni potrebbe spiegare lo stretto legame che intercorre fra alcune tipologie eugubine e di Casteldurante , e la vecchia dicitura "fatto a Casteldurante e lustrato a Gubbio" sembra essere ormai superata per certe tipologie eminentemente decorative, mentre rimane valida per alcuni pezzi importanti, soprattutto istoriati.
Esaminando la produzione più
corrente, quella nella quale le date vanno dal 1515 al
'24, si nota che è caratterizzata da trofei
e grottesche, in cui
compaiono teste di putti, vasi di fiori
o di frutta, iscrizioni, collane ed altri
motivi del repertorio rinascimentale, in
modi assai vicini a quelli di
Casteldurante.
Spesso la data è inserita nella parte
anteriore, in piccole targhe rettangolari.
Segue una cospicua produzione caratterizzata da motivi a palmetta, paragonata da J. Giacomotti a quella faentina del tipo detto "Cà Pirota" (26); ma vicino anche ai tipi durantini, che sembra apparire attorno al 1524 e che continuerà ad essere prodotta per lungo tempo. Se ne trovano esempi datati al 1536.
All'interno di questa tipologia possiamo individuare dagli stemmi al centro del cavetto alcuni servizi per nobili famiglie: famosi quello per il cardinale Ciocchi Dal Monte, e quello Vitelli-Della Staffa, datati 1526 e 1527, come pure quelli con le armi Saracinelli e Bonaiuti.
Negli anni dal 1525 al 1530 la bottega Andreoli
sembra avere prodotto tipi assai simili a quelli derutesi, con girali di foglie
ricurve e tese a scomparti.
Oltre agli stemmi, i centri recano come figurazioni più ricorrenti putti in
vari atteggiamenti con in mano strumenti od oggetti; con tutta probabilità hanno significati genericamente allegorici, talvolta evidenti (colonna spezzata indicante la Forza, Amore Bendato etc.),
talaltra più oscuri.
Sono frequenti profili femminili e maschili, lettere dell'alfabeto e qualche figura di Samo.
La tipologia a rilievo corrisponde al periodo in cui il lustro metallico si diffonde maggiormente e diviene l'elemento principale della policromia. Si tratta per lo più di coppe con basso piede e centro rialzato, attorno al cui bordo si irradiano decorazioni in rilievo più o meno naturalistiche, ad esempio ovali, pigne, motivi a raggiera, fogliame, bacche etc. intercalati da infiorescenze.
Al centro sono posti soggetti in maggioranza di significato religioso: santi (Ubaldo, Sebastiano, Francesco, Maddalena e altri), il trigramma bernardiniano, l'Agnello mistico, e una caratteristica rappresentazione con due occhi che piangono su cuori trafitti.
Spiccano poi alcune raffigurazioni profane, come il bellissimo cavaliere del museo di Pesaro (27).
Questa tipologia è più raramente datata delle precedenti. Il Ballardini, nel Corpus, ne segnala tre pezzi datati rispettivamente 1530, 1531, 1532 (28).
In realtà si tratta di una produzione di enorme
diffusione, e che si è certo
protratta per lungo tempo.
Su questi pezzi
ricorre in modo particolare la "N" (identificata in
passato senza fondamento come il monogramma di
Cencio) (29).
Si tende comunque a legare questa tipologia alla seconda fase della bottega, quella in cui predominano le personalità dei figli di Giorgio.
Un problema a sé presenta la produzione istoriata a lustro.
Anche se, come abbiamo già detto, Maestro
Giorgio lustrò pezzi fatti in botteghe altrui, è tuttavia dimostrato che una
parte uscì dalla sua bottega.
Probante è a questo proposito la sua firma e la data
1520 su un piatto della collezione Dutuit al Petit Palais di Parigi,
tracciato non a lustro ma in blu sottovernice (30).
La parola" in
Ugubio" compare inoltre, sempre in blu a gran fuoco, nel retro
del piatto col "parlamento del corvo e della
cornice e la nascita di Esculapio”' , nel
museo Boyman van Beuningen di Rotterdam; l'iscrizione è circondata dai
caratteristici racemi spiraliformi a lustro
che decorano i retri dei pezzi della bottega di Maestro Giorgio (31).
Sembrano essere della stessa mano del piatto Dutuit il famoso tondo del Victoria and Albert con le "Tre Grazie", da una stampa del Raimondi, e il "Bagno delle
Ninfe" della Wallace Collection, entrambi del 1525. Oltre al "Maestro delle Tre Grazie", il Rackham identificò un altro esecutore, che egli chiamò" Maestro di S. Ubaldo" dal soggetto di due dei suoi piatti (32).
La firma di Maestro Giorgio infatti non indica la paternità del pezzo, trattandosi di una vera e propria sigla di bottega, nella quale operavano anche decoratori provenienti da altri centri.
Uno dei casi più interessanti è la presenza del maestro che, nel 1537, si firma "Francesco Urbini in Deruta" nel piatto del Victoria and Albert con scene del mito di Apollo. Questo maestro, secondo l'opinione espressa dal Mallet in un recente studio, avrebbe trascorso il suo apprendistato a Urbino, forse nella bottega dell' Avelli. Si sarebbe poi spostato a Gubbio, producendo una serie di opere le cui date vanno dal 1531 al 1536, e che recano sul retro i ca
ratteristici motivi a lustro della bottega Andreoli, oltre a un marchio somigliante a un cavalletto. Sarebbe poi passato a Deruta, dove la sua opera non è però lustrata.
La serie completa delle opere a lui attribuibili, con le relative schede, è fornita dal Mallet nello studio
citato; ad essa aggiungeremo il piatto del museo di Cracovia, con Teseo, Arianna e il
labirinto, che ci sembra condividere le caratteristiche del gruppo (33).
Abbiamo qui cercato di condensare quanto è oggi noto a proposito dei lustri umbri.
Per proseguire il discorso, è fondamentale il riordino del materiale di scavo disponibile, e ulteriori indagini volte a far luce sulla produzione rinascirnentale di altri centri umbri, attualmente poco indagata; altrettanto importante ci appare un' indagine storica che focalizzi il problema della ceramica umbra nel quadro più vasto della cultura rinascimentale.
NOTE
1) Per la terminologia sul lustro, v. G. BALLARDINI, Corpus della
Maiolica
Italiana, Roma, Libreria dello Stato, 1933 e 1938, voI. I
p. 31 e voI. II p. 17 nota 9; v. anche A. DEL VITA, Le Maioliche
Italiane e la
Terminologia dei loro Colori in «Corriere dei ceramisti», Perugia, 1936. Per una introduzione al problema in termini generali
relativamente all'Italia, v. E. LIVERANI, In tema di lustro
metallico: dei rapportifra la 'loza dorata'
ispano-moresca e la maiolica italiana, in
«Faenza», XVIII (1940), V-VI, 87. La targa con S. Sebastiano è riprodotta nel catalogo del Victoria and Albert Museum di Londra redatto da Bernard RACKHAM (ultima ediz.
Londra, Her Majesty's Stationery Office, 1977, Prima edizione 1940) alla tavola 68, fig. n. 437; porta la
scritta «Adi 14 deluglio 1501», ed è stata dal FORTNUM
attribuita a Gubbio (v. Majolica, Oxford, Clarendon, 1896, pp. 161 e 165 e A descriptive
catalogue o/ the majolica ... in the South
Kensington Museum,
London, 1873, 231.
2) Cipriano PICCOLPASSO, I tre libri dell'arte del vasaio, Bologna,
Atesa, 1974 (ristampa anastatica della terza edizione), pp. 35 e 36.
3) Cipriano PICCOLPASSO, Le piante et i ritratti delle città e terre
dell'Umbria sottoposte al governo di Perugia, Roma, Ist. Naz. di
Archeologia e Storia dell' Arte, 1963, p. 242.
Esistono diverse località così denominate in Umbria (S. Anatolia di Narco, S. Anatolia presso Cascia, Esanatoglia in provincia di Perugia) e nel Lazio(S. Anatolia presso Rieti), ma per nessuna è dimostrata, fino a questomomento, una produzione a lustro. A. DEL VITA, raccogliendo il suggerimento del PICCOLPASSO, la cita come officina di lustri scadenti (Maestro Giorgio da Gubbio, «Corriere dei Ceramisti», giugno 1938, p. 186) e, pur ammettendo che non ci sono certezze, vi attribuisce dubitativamente un’alzatina del Museo di Pesaro con S. Francesco (Le maiolicbe a riflesso del museo di Pesaro, «Dedalo» XIII, 1933, pp. 84-116).
4) Ci siamo servire, per la citazione, dell'edizione di Venezia del 1553
(folio 85 verso, voce «Druida a Deruta»). Per commenti alla testimonianza albertiana, G. BALLARDINI, Corpus, II, 13; C.F. BONINI, Sulle maJoliche pesaresi a riflessi metallicii, «Corriere dei ceramisti», Perugia, Agosto 1938, 99, nota 4.
5) Per gli scavi
ottocenteschi, v. la
relazione del PIOT in
«Gazetre des Beaux Arts»
1881; vedi anche E.
MOLINIER , La
collection Spitzer,
Paris, 1892, IV, 8;
e C.D. FORTNUM, MaJolica,
pp. 140-143. I
risultati degli scavi più
recenti, pubblicati
parzialmente da S.
MAGNINI, Elementi
decorativi delle antiche
maioliche di
Deruta, «Faenza»
(1934) IV, V, pp.
130-131) sono in parte
minima esposti al museo di
Deruta, e per la maggior
parte giacciono
inesplorati in un
rispostiglio del
museo. È urgente e
fondamentale la loro
catalogazione e
pubblicazione. E sulla base di
essi che il prof.
DEL VITA prese
posizione nella
'accesa polemica con gli
studiosi pesaresi, a
proposito delle
attribuzioni di
talune tipologie a
lustro (v. A.
DEL
VITA, Deruta o
Pesaro, in «Corriere
dei ceramisti», 6,
1941, pp.
159-163). Paladino dei
lustri pesaresi si
fece invece C.F.
BONINI, sullo stesso
«Corriere dei
ceramisti» (Sulle maioliche
pesaresi a riflessi
metallici, Agosto 1938, 157;
Pesaro e
Deruta, Settembre
1941, 229).
6) Soltanto nel 1673 si trova la notizia che un Lorenzo Pignani da Gualdo, operante in Roma, ottenne da Clemente X il privilegio di
applicare l'oro sulle maioliche con una nuova tecnica fino allora mai usata.
La notizia è riportata dal BERTOLOTII,
Artisti urbinati ...
in Roma prima
del
secolo XVIII,
Righi 1881, in Urbino, p. 38; e dal DE
MAURI,
L'amatore
di maioliche e
porcellane, Hoepli, Milano,
1952, p. 106. In linea di
massima, molti studiosi mostrano la
tendenza a credere a una
produzione rinascimentale gualdese a
riflessi rossi sul tipo di
quella eugubina. Vedi in proposito V.
FUNGHINI, Cenni
storici e
osservazioni sulle antiche
maiolicbe italiane, Roma, Forzani,
1889, 23; A. DARCEL,
Notices des fayence peinies itaitennes
etc., Paris, De
Morgues 1864, 276;
A. DEL VITA, Maestro Giorgio da
Gubbio, «Corriere dei ceramisti»,
giugno 1938, p. 183.
7) A proposito del lustro rosso di Deruta, sull' esistenza del quale non mostra di avere alcun dubbio il MOLINIER (v. ad esempio le attribuzioni nel catalogo della collezione Spitzer) v. le opinioni del DE MAURI in Le maioliche di Deruta, Milano 1924, pp. 15 e 19; di A. MAGNINI, Per un frammento di maiolica di Deruta, «Faenza» XXII, 1934, III, 71. Per l'atteggiamento del RACKHAM sul problema, v. J. SCOTI TAGGART,“Bernard RACKHAM, CB, FSA. A Memoir”, dattiloscritto presente nella biblioteca del Museo Internazionale della Ceramica di Faenza. Uno dei motivi decorativi più frequentemente associati al lustro tosso è quello a «denti di lupo», che sembra essere più diffuso nei primi anni del secolo; è presente, ad es. nel piatto del Museo di Pesaro con lo stemma dei Montefeltro (v. Maioliche del Museo di Pesaro, a cura di M. MANCINI DELLA CHIARA, Pesaro 1979, n. 170). Tuttavia è utilizzato, assieme al blu e al lustro oro, in un piatto della collezione De Ciccio , nel museo di Capodimonte a Napoli, con al centro lo stemma Orsini e tutt'attorno grottesche in rilievo; questa tipologia porta talora date abbastanza avanti nel secolo, come il bacino di acquereccia del Louvre (J.GIACOMOTII, Les
Majoliques del musees
nationaux, Paris 1974, n. 663)
datato 1546. Un
lustro rosso di tono piuttosto vivace
arrichisce anche il piatto da
pompa del museo di Pesaro con S. Girolamo e
tesa a quartieri (catalogo n.
119); tale tipo di decoro non sembra
essere fra i più precoci nel
repertorio derutese e, per quanto
comunemente riferito al primo terzo del secolo
XVI, si trova anche nel già citato piatto
del Victoria and Albert col «lavare il capo
all'asino», datato 1556.
8) La forma di gran lunga più comune nei piatti da pompa è la n. 2 del RACKHAM; sono rappresentate comunque la n. 6 e, più raramente, la n. 10. Il diametro varia dai 37-39 centimetri ai 45, con massima frequenza intorno ai 40-42 cm.
Variano le altezze, non
sempre in rapporto
costante rispetto
alla stessa forma, fra i
78-80 e i 90-93 mm. La
parte anteriore è
rivestita di uno smalto
piuttosto bianco, mentre
il retro é quasi sempre
soltanto verniciato, con
una vernice giallastra o, meno
spesso, verdastra o bruno chiaro.
Raramente il retro è
smaltato; altrettanto di rado
porta una decorazione,
sia pure limitata: circoli
concentrici,
paraffe blu, la lettera D
sotto vernice.
Oltre al blu e lustro, la
decorazione è
talvolta ravvivata
da tocchi di arancio o
verde. Fra i soggetti più
comuni, oltre ai busti
femminili e maschili, di fronte
o di profilo, si trovano
immagini della Madonna col Bambino e di
santi (fra i più comuni
Girolamo,
Francesco, Caterina,
Barbara, Rocco, Sebastiano e
Giorgio), episodi della
vita della Vergine
di Cristo
(Annunciazione,
Resurrezione,
incredulità di Tommaso
etc.), allegorie (la
Forza, la Prudenza, la
Fortuna), episodi
mitologici (le
fatiche di Ercole),
stemmi ed emblemi, sia estesi
all'intero cavetto, sia
sorretti da una sfinge o
da un'aquila ad ali
spiegate.
Il più diffuso è probabilmente
quello Orsini;
seguono le famiglie
perugine dei Baglioni e dei Ranieri, i
papi medicei, il Leone di S.
Marco etc.
Ricorrono gli animali, spesso
protagonisti di scene di
caccia derivate,
secondo il
RACKHAM da
incisioni della bottega
fiorentina del FINI GUERRA (A new chapter in
the history of Italian
majolica, «Burlington Magazine», Aprile,
1915, 28). Per alcuni soggetti si è avanzata
l'ipotesi di un abbinamento, ad esempio
un cavaliere turchesco e un
cavaliere cristiano.
Ricorre in numerose
versioni, accompagnata da
iscrizioni diverse,
l'immagine di una donna che
insegna a leggere a un bimbo, forse
la Madonna (da una
stampa del
RAIMONDI riproducente un
disegno di Raffaello). Soggetti
licenziosi-umoristici
sono, ad esempio, il
piatto del Louvre con una donna
che vende un cesto
pieno di frutti
somiglianti a falli
(OAI256, catalogo GIACOMOTTI n.
528) e quello, sempre al
Louvre, con una donna
assalita da un satiro
(OAI2, catalogo
GIACOMOTTI n. 560).
Le scene
da favole di Esopo
derivano quasi tutte dalle
incisioni del Tuppo,
Napoli 1485, tranne il
piatto del museo di Pesaro
con la favola della
cicogna e del lupo (catalogo n.
137) chiaramente derivata
dall'omonimo episodio a
bassorilievo nella
Fontana Maggiore di
Perugia. I piatti
con questo soggetto presentano
spesso il lustro rosso, e nel caso di
quello di Pesaro la tesa
è decorata da una raggiera
di «denti di lupo»; vengono
generalmente datati entro i primi
dieci-quindici anni del 1500.
Le iscrizioni, di norma in caratteri latini e spesso con errori ortografici, sono inserite in 'cartigli attorcigliati che serpeggiano attorno alle figure. Spesso si ripetono in rapporto a raffigurazioni diverse, o viceversa. Eccone alcuni esempi: persinche vivo senpre io tamero / la vita el fine el di loda la sera ischura / per servire se serve sempre / chi biene guida sua barca e sempre in porto / sola miseria charet invidia / um bel morire tuta la vita onora / per domire non s aquista /
Particolarmente comune è
il nome della donna
seguito
dall'aggettivo
«Bella» o «Bella
Pulita».
9) Esempio di brocca da farmacia
lustrata è quella
famosa del British
Museum. di Londra, datata
1502, con la scritta
«O'Xlzacara».
Altri pezzi, attribuiti
alla stessa farmacia (una
brocchetta identica nella
forma e alcuni albarelli
caratterizzati dalla
stessa sigla e
dall'emblema della testa
di moro) non sono
lustrati.
10) C. PEDRAZZINI, La farmacia
storico-artistica italiana,
Milano,
Vittoria, 1934,
p. 93.
11) Straordinaria quella dell'ex collezione Fassini con la crocefissione fra S. Giovanni e S. Rocco (riprodotta in Una collezione di antiche maioliche itaiane, «Arte figurativa antica e moderna», Milano, Genn.-Febbr. 1953, fig. 7) molto vicina a prototipi di Valenza.
12) SABELLI, La guida sicura
del viaggio in
Italia, Genova,
Widerhold,
1680.
13) Museo di Sèvres,
mv. 8399, Catalogo
GIACOMOTTI n. 650;
Kunsrgewerbemuseurn
di Berlino, inv. M.
1598, catalogo HAUSSMANN
(T. HAUSSMANN. Matolica. Berlin, Verlag, 1972) n. 157.
14) Per la genealogia
del "Frate», v. G.
LlVERANI, Note
sui Mancini di
Deruta, "Faenza»,
VII (1929), I, 14. Le
opere firmate dal Frate
Sono le seguenti:
Vassoio da acquereccia con
Alessandro e Roxane,
collezione, Dutuit, Perir
Palais, Parigi /
Vassoio da
acquereccia con
Atlante e Bradarnante,
Victoria and Albert Museum di
Londra / Frammento di
vassoio da acquereccia
con scena di cavalieri
dall'OrlandoFurioso,
Museo Internazionale delle
Ceramiche di Faenza /
Coppa con Rodomonte
che rapisce
Isabella, Louvre
(in deposito al museo di
Calais) / Coppa
con Latona e i contadini cambiati in rane, Louvre / Coppa con soggetto fiabesco al Musée des Arrs Decorarifs di Strasburgo / Piatto col mito di Erisittone,
Hermirage, Leningrado / Piatto con episodio dalle Metamorfosi ovidiane, collezione Pourtales / DE MAURI riferisce inoltre di un piatto appartenente al signor Raffaele de Minicis
di Fermo, col «parlamento del corvo e dellacornice».
Numerose altre opere gli sono inoltre attribuite sulla base di riferimenti stilistici . Oltre al pavimento della sàgrestia di S. Pietro a Perugia, è da considerarsi della sua bottega il
pavimento della cappella Baglioni in S. Maria di Spello. datato 1566.
15) v. gli studi di U.
NICOLINI,
particolarmente La
ceramica di Deruta:
organizzazione,
economia,
maestri. I
documenti, in
Antiche maioliche
di
Deruta, Firenze,
Nuova Guaraldi,
1980, pp. 2l-43.
16) Per i due ragli eri attribuibili al Maestro del pavimento di S. Francesco. v. RACKHAM, Catalogo, n. 435 e GIACOMOTTI, Catalogo, n. 538 (rispettivamente Victoria and Albert Museum 2181-1910, e Musée du Louvre OA 1545). Per il Diruta Painter, v. RACKHAM, catalogo, Il, n. 430, nn. 491-494. 11 RACKHAM gli attribuisce (ibidem) anche una ciotola del British Museum con l'Adorazione dei pastori, e un piatto con un cervo inseguito.
17) Riproduzione del Leonida
Lacedemone
dell'affresco peruginesco è
il guerriero del piatto da pompa
del Victoria and Albert
Museum con la scritta «chi
ben guida sua barca è sempre in
porto» (v. DE MAURI, Le
maioliche di Deruta,
tavole VIII e IX);
richiama la figura di S.
Michele nel quadro del
Perugino con la Vergine in gloria
con quattro santi nella
pinacoteca di Bologna la figura
al centro del piatto da
pompa della collezione
F. Adda (v. B. RACKHAM, Islamic pottery and Italian majolica.
Illustrated
catalogue of
a private collection, Londra
1959, n. 352), la cui posa è quasi identica a
quella dell'uomo nudo sul piatto
del Victoria and Albert Museum
(2179-1910, cat,
RACKHAM n. 494). Per il
maestro delle virtù v., ad es.
il piatto della Wallace
Collection con l'allegoria della
Fortezza (A.V.B. NORMAN, Wallace Collection.
Catalogue of Ceramics
I, London, 1976,
n. C. 33). Quello con lo stesso
soggetto del Louvre (cat.
GIACOMOTTI n. 596), quello con
S. Barbara al museo di Cluny (ibid. n.
395), quello con S. Lucia al
museo di Limoges (ibid. n. 521),
quello con la Prudenza nello
stesso museo (ibid. n. 597). Per il piatto del museo Ariana, v. riproduzione in
W. DEONNA, Catalogue du musee Ariana, Ginevra, Kundig, 1938, Tav. IX fig. 1
18) Per le notizie d'archivio sulla famiglia Andreoli, i benefici, i contratti, ci siamo riferite agli studi del MAZZA TINTI (v. bibliografia). Egli sottolinea come molti fossero i lombardi che giungevano in Umbria tramite la via delle Romagne e delle Marche, e come dal 1405 al 1497 i libri delle riforme di Gubbio siano pieni di concessioni a emigrati della Alta Italia, soprattutto muratori fornaciai 'e ragliapietre «de partibus Lombardiae», i quali, oltre la cittadinanza, ottenevano l'esenzione dalle gabelle per dieci anni, come incentivo alla fioritura della loro arte. Il GIOVAGNOLI (v. Gubbio nella stona e nell'arte, Città di Castello, 1932, 247-248) ipotizza che Maestro Giorgio fosse giunto a Gubbio in tenera età, poiché nel documento del 1498 è detto che egli aveva vissuto nella città «quamplurirnos annos»; forse era giunto al seguito del padre, a servizio nell'esercito del duca di Milano, passato poi al soldo del duca di Montefeltro.
19) v. ad es. il piatto del Museo civico di Bologna con la Presentazione della Vergine al Tempio», che alla sigla di Nicolò da Urbino unisce la dicitura «Maestro Giorgio finì de maiolica» e la data 1532. v. la coppa del Louvre con al centro la fenice circondata da grottesche (OA 7585, catalogo GIACOMOTII n. 752): nella parte anteriore, in due piccole targhe, si legge la data 1518; nel retro, a lustro, la data 1519 preceduta dalla lettera M. Da qui l'ipotesi che sia stato lustrato un anno dopo la decorazione / v. anche il piatto del Victoria and Albert con al centro un profilo femminile e la scritta «Daniella diva» (8909-1863, catalogo RACKHAM n. 664): sulla parte anteriore, entro uno scudo, è la data 1530, mentre sul retro, a lustro, è la data 1531 (il piatto è tuttavia attribuito completamente a Gubbio). Contraria, ma ormai insostenibile, l'opinione di C.F. BONINI che, nel suo articolo Maestro Giorgio da Gubbio e i lustri metallici, in «Faenza», XIX (1931) IV-V, 85, sostiene che il maestro lustrò
soltanto maioliche di propria produzione, e che se il PICCOLPASSO parla di applicazione su lavori «forniti», intende semplicemente «finiti», già cotti.
Gli attribuisce quindi interamente anche il piatto con la «Presentazione» di Bologna.
20) Piatto a grottesche,
Victoria and Albert Museum,
(inv. 477-1921,
Catalogo Rackham n. 641).
21) Soprattutto il
PASSERI (Istoria delle pitture in
maiolica fatte in
Pesaro e nei
luoghi
circonvicini,
Venezia 1752) e il RANGHIASCI (v.
bibliografia) lo ritennero scultore alla
maniera robbiesca
(gli attribuirono, ad esempio, la
pala d'altare di
terracotta a rilievo del
museo Stadel di Francoforte,
originariamente per
la chiesa di S. Domenico di
Gubbio, cui forse appartennero le dodici
mattonelle a rilievo con i
misteri del rosario, oggi nella
Collegiata di Gualdo
Tadino; l'altare di
S. Antonio per la stessa chiesa;
la Vergine Annunziata della chiesa
degli Osservanti presso
Bevagna).
Fu pure
ritenuto autore di
varie maioliche di cui la più
famosa è il piatto del museo di
Sèvres con la scritta "Don
Giorgio» (2477, catalogo
GIACOMOTTI n. 15), che non
allude al nostro, bensì,
secondo l'opinione del BALLARDINI,
al nome del proprietario. Per un elenco
delle attribuzioni a maestro
Giorgio nella sua fase non documentata, v.
l'articolo del MAZZA TINTI sul
Vasari del 1931, e il
già citato articolo del BONINI.
22) Occorre però sottolineare, come già detto alla nota 18, che era prassi comune concedere esenzioni ai forestieri che si stabilivano in Gubbio.
23) A proposito del lustro in Lombardia, v. G. LIVERANI In tema di lustro metallico etc.; egli riporta quanto Cesare CESARIANO scrive a proposito dei vasai di Como e Pavia, in un commento al libro VII dell'edizione comense di Vitruvio, nell'anno 1521: «Et però, ... li nostri figuli ... fano di tante varie et excellente sorte, che a molti dilectano per la egregità de le vitreate picture, più che non fa videre lo colore aureo vel argenteo». Tenta poi di descriverne la tecnologia di esecuzione mediante suffimigazioni. Il GIOVAGNOLI ipotizza invece che maestro Giorgio si sia formato interamente a Gubbio, in quanto giunto giovanissimo in città al seguito del padre militare. Questo giustificherebbe, a suo avviso, la nomina a castellano della città, ottenuta non perché maestro vasaio, ma perché di famiglia notabile (v. GIOVAGNOLI, op. cit., 247-248).
24) L'autografo fu esposto alla Mostra di Antica Arte Umbra del 1907 (N. 413 del catalogo, espositore il cavalier Magherini Graziani di Città di Castello) ed è nei seguenti termini: «Adì 19 de Novembre 1516, Celeraio darite al portatore de questa che sarà Pavolo da Deruta una mina de grano e mttite a mio conto, Maro Giorgio vasaio ss. »
25) La firma del
maestro Prestino si trova
nella coppa della
Wallace
Collection (catalogo
del NORMAN n. C 70) con Venere e
Cupido; il retto
reca la scritta
seguente, tracciata
in lustro dorato: «1557 A dì
28 d magio in gubio p mano d
mastro
prestino».
La P si trova anche
in una coppa del
museo di Limoges
con foglie a rilievo
radiali e un S.
Giovannino al centro
(inv. 5455, catalogo
GIACOMOTTI n. 713).
Una targa a rilievo del
Louvre con Madonna e
figlio, derivata
probabilmente da
Donatello (OA 1827,
catalogo GIACOMOTTI n, 743)
porta scritto sul retro
C PERESTO 1536.
Una targa del museo di
Limoges (5454, catalogo
GIACOMOTTI 744) conla tipica Madonna derutese di cui parla DE MAURI (v.
Maioliche di
Deruta, 43) reca sul
retto «S. MO h. Il
FORTNUM inoltre
(catalogo pg.
284)
seguendo l'opinione del
ROBINSON (v. Catalogo della coll.
Soulages, London,
ChapmanfHall, 1856,
pg. 41, nn. 67 e 68)
attribuisce al maestro
Prestino due coppette
del Victoria and Albert a
rilievo con S. Girolamo e
S. Sebastiano,
benché
tipicamente derutesi
(8948-1863, catalogo
RACKHAM n. 774; 8949-1863,
caralogo RACKHAM n.
775). Il POLIDORI gli
attribuisce la coppa
del museo di Pesaro con
profilo di giovane e
decorazione a
candelieri (catalogo
del museo n. 160; v.
La maiolica di Gubbio,
«La Ceramica»,
maggio 1960, 23), Il
MAZZATINTI trovò nei
libri delle riforme di
Gubbio la notizia che
«Vittorio alias il Prestino»
fu console del quartiere di S. Pietro nel 1554; inoltre nel «libro de le
imposte per la guardia di Pesaro e Senigallia per il sospetto de l'armata turchesca» lesse
che nel 1567 a
«Prestino vasaro»
fu stabilita la tassa per
soldi undici.
Ipotizza che
si trattasse di un allievo
di maestro Cencio.
(Per maestro
Giorgio, Forlì,
Bordondini, 1898). Iporizza
inoltre che gli appartenga il
monogramma R (P +
R).
26) v. Catalogo GIACOMOTII pg. 208. L'autrice ipotizza la presenza di artigiani faentini nell'atelier di Gubbio. Alcune maioliche di questo tipo, oltre la firma di Giorgio, portano la S attribuita a Salimbene.
27) v. Catalogo n. 136.
28) v. G. BALLARDINI, Corpus I, fig. 232; II, fig. 25 e 72.
29) L'identificazione della N
come monogramma di
Vincenzo venne
avanzata
dal ROBINSON. Come nota la GIACOMOTTI
(catalogo p. 218, n. 708)
la N compare tuttavia in pezzi
notevolmente diversi gli
uni dagli altri da un punto di
vista stilistico, ed anche
piuttosto precoci (ad es. v.
catalogo GIACOMOTTI n.
686). Particolarmente
interessante il tagliere del
museo di Sèvres (3627, catalogo
GIACOMOTTI n. 693) sul cui retro è
la sigla «M° N»,
che sembra alludere
a un preciso maestro.
30) v. Collection Auguste Dutuit: majoliques Italienne, vases siculo-arabes, fajences Henry II, verrerie, Paris, Chateaudun, 1899, tav. XXXVII.
31) v. John V.G. MALLET, Francesco
Urbini in Gubbio and
Deruta, in
«Faenza», LXV, n. 6,
1979, 280
(riproduzione tav. XCV).
33) v. BOZENA
ZBOINDKA·DASZYNSKA,
Majoliki Wloskie, Krakow,
1952, tavola XXII,
n. 19.
32) v. Catalogo del RACKHAM, I, 223.
33) v.
BOZENA ZBOINDKA·DASZYNSKA, Majoliki
Wloskie, Krakow,
1952, tavola
XXII, n. 19.
BIBLlOGRAFIA SPECIFICA PER LA
PRODUZIONE
RINASCIMENTALE
A LUSTRO:
DERUTA
Gaetano BALLARDINI,
Majoliche di Deruta,
«Faenza», XII (1934),
III, 53.
Giovanni BOLOGNESI, Un
piatto a lustro di
Deruta, «Faenza»,
XLVIII
(1962), V,
107.
Carlo Federico BONINI, Pesaro e Deruta, «Corriere dei ceramisti», Perugia, settembre, 1941, 229.
Carlo Federico BONINI,
Sulle majoliche
pesaresi a riflessi
metallici,
«Corriere dei
cerarnisti», Perugia,
agosto 1938, 257.
Francesco BRIGANTI, Le coppe amatorie del XVI secolo nelle maioliche di Deruta, Perugia, 1903.
Alessandro DEL VITA,
Le maioliche a
riflesso del Museo di
Pesaro,
«Dedalo», anno XIII,
1933, 84·116.
Alessandro DEL VITA, Le
ceramiche a riflessi della collezione
Mazza e la
questione
delle attribuzioni a Pesaro o
a Deruta, «Le Arti»,
anno III (1941), II, 106
.
Alessandro DEL VITA, Deruta o Pesaro?, «Corriere dei ceramisti», giugno, 1941, 159·163. .
Luigi DE MAURI (E. Sarasino), Le Maioliche di Deruta, Milano, Bottega di poesia, 1924.
Danuta JEDNOROG, En brollopsvas fran Deruta, «Kulturen», 1974, 17.
Giuseppe LlVERANI, Nota
sui Mancini di
Deruta, «Faenza», VII,
1929, I, 14.
Alpinolo MAGNINI, Le
maioliche di
Deruta nel
Rinascimento sotto
l'influenza
dell'Arte umbra,
«Faenza», XX, 1932,
122.
Alpinolo MAGNINI,
Elementi decorativi
delle antiche
maioliche di
Deruta,
«Faenza»,
1934, IV·V, 130.
Alpinolo MAGNINI, Per un
frammento di
ceramica di Deruta, «Faenza»,
XXII, 1934, III, 71
]ohn V.G. MALLET, Francesco
Urbini in Gubbio and
Deruta, «Faenza»,
LXV, 1979, 279·285.
Giancarlo POLIDORI, La majolica di Deruta, «La Ceramica», XIV, n. 10, Ottobre 1959, 38·42. Bernard RACKHAM, Deruta majolica: some new observations,« Faenza», XLVI (1960) VI, 133.
Bernard RACKHAM, A new chapter in
the history of Italian Majolica,
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1915, 28.
Bernard RACKHAM, An early Deruta
majolica mainter, «Burlington
Magazine», dicembre 1938, 272.
Oscar SCALVANTI, Le coppe amatorie
del XVI secolo
nelle maioliche di
Deruta, «Rassegna
d'Arte», voI. IV,
1904,43.
Domenico SERRA, Le maioliche di Deruta, «Antichità Viva», 6, 1967.
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Giorgio Andreoli a
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oriunda di Pavia,
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Giorgio da Gubbio e
i lustri a riflessi
metallici, «Faenza», XIX (1931) IV-V, 85.
Carlo Federico BONINI, Maestro Giorgio da
Gubbio,
«Faenza», XIX
(1931),
IV-V, 126 (commentato dal Ballardini).
Galeazzo CORA, Opus
Sperandei,
«Faenza», XXXVI
(1950), V, 108.
Alessandro DEL VITA, Di alcune inedite
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Ceramica», anno XIII, 2, 1958,
27.
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museo di Pesaro,
«Dedalo»,
XIII, 1933, 84-116. . .
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Frederick JAEN NICKE,
Altes und
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1882.
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Otto VONFALKE, Der Majolikamaler
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«Pantheon», XIV, 1934.