Carola Fiocco - Gherardi Gabriella, in Faenza, bollettino del Museo internazionale delle ceramiche in Faenza, LXXXII, 1996, 1-3, p. 5-11
Capita di frequente che il rinvenimento e la corretta trascrizione di documenti di archivio mettano in subbuglio gli storici della ceramica, distogliendoli bruscamente da categorie consolidate e comunemente accettate. Così è avvenuto con il breve articolo diFranco Negroni, interamente basato su documenti, che ha di fatto rivoluzionato lo schema dell'istoriato urbinate, fornendo un'identità precisa al mitico Nicola, nonché le prove della attività urbinate di Vincenzo Andreoli, figlio di Maestro Giorgio da Gubbio. Il suo contributo spicca per concisione e congruità, e la sua importanza non sarà mai abbastanza sottolineata. Allo stesso modo, anche le ricerche archivistiche di Tiziana Biganti, Ugolino Nicolini, Pier Luigi Menichetti e Ettore Sannipoli hanno gettato nuova luce sui lustri di Gubbio, fornendo dell'attività di Maestro Giorgio una visione del tutto nuova: non più la "bottega accessoria" di cui parlava il Ballardini, principalmente impegnata ad applicare il lustro su pezzi eseguiti altrove, ma un'impresa in continua espansione, capace di garantire ricchezza e fama ai suoi gestori, che assumeva decoratori da Urbino e Casteldurante per sfornare in proprio maioliche istoriate, e che aveva probabilmente in Urbino stessa una succursale gestita dal giovane Vincenzo.
Ma l'aspetto più affascinante e misconosciuto che i nuovi documenti stanno evidenziando è quello dei lustri precoci, quelli cioè che precedono il cosiddetto "servizio dell'alabarda" (515), di cui rimane un piattello a grottesche al Victoria and Albert di Londra (1). Quest'ultimo costituisce il più antico esemplare datato collegabile tipologicamente alle opere firmate di Maestro Giorgio, e quindi a lui attribuito con sufficiente tranquillità. Si è dunque ritenuto che l'inizio dei lustri a Gubbio non risalisse a prima del XVI secolo, e che fosse da imputarsi esclusivamente alla figura di Giorgio.
Noi stesse, di fronte a un pagamento del 1498 fatto a Maestro Giacomo dal convento olivetano di San Benedetto , nel quale venivano menzionati tazze e piattelli "de mayolicha", ci eravamo domandate se non si trattasse di oggetti prodotti altrove, spagnoli o derutesi, venduti tramite un vasaio locale, come obbligava a fare una disposizione governativa del 1456 per tutelare i ceramisti eugubini (2).
Ora invece i documenti ci dicono senza ombra di dubbio che vi furono lustri a Gubbio fin dalla fine del secolo XV, in coincidenza cronologica quindi con quelli derutesi, e ripropongono con decisione la vecchia questione se essi giunsero in città con Giorgio oppure se questi si limitò a perfezionare una tecnica già trovata sul posto. La stessa documentazione punta infatti in due direzioni opposte.
(l) Inv. C477-1921
(2) U. NICOLINI, "Le maioliche di Deruta, Gualdo Tadino e Gubbio: stato della documentazione dei secoli XIV-XVI", in Maiolicbe umbre decorate a lustro, Nuova Guaraldi, Firenze 1982, p. 22.
Da un lato cisono alcune frasi contenute nel "Breve" di Leone X del 1519, da cuisembra potersi desumere che i privilegi fiscali che con esso dopo circa vent'anni vengono rinnovati furono concessi per la prima volta al fine di poter attirare da Pavia ed avere in città un tale maestro esperto nell'arte dei lustri (3).
Questo viene confermato da Giorgio
stesso in una supplica volta al
medesimo scopo e indirizzata nel 1552 a
Guidubaldo II nella quale, giunto ormai
all'estrema vecchiaia, egli ricorda come la sua
partenza da Pavia sia stata
causata dai richiami e dalle
promesse di
Guidubaldo I e del suo governatore
Gentile Ubaldini, per esercitare
a Gubbio la nobile arte dei lustri, e che quindi qualcosa gli si doveva
per questo (4).
Dall'altro lato vi è la confutazione del
Mazzatinti, che asserisce non essere affatto insolita
l'esenzione per vent'anni dai tributi, ma
anzi pratica comune per attirare artigiani da fuori,
come specifica lo stesso decreto di
cittadinanza (5). Ma soprattutto anche a Deruta i
lustri erano gìà noti alla fine del quattrocento,
come mostra la presenza, nelle
collezioni del Louvre, di un albarello
biansato che, assieme allo stemma dei Baglioni signori di Perugia e
all'emblema del cuore trafitto, sfoggia un
bellissimo lustro rossastro (6). Inoltre
alla fine del quattrocento risulta che i Masci
si erano già arricchiti a Deruta proprio grazie a
questa tecnica (7), mentre i primi
documenti che testimoniano per Giorgio una attività
legata ad essa lo vedono associato
all'eugubino vasaio Giacomo di
Paoluccio, che in un contratto del 1495 sembra
occupare una posizione
preminente
rispetto al nuovo arrivato, e non
viceversa, come sarebbe legittimo aspettarsi
qualora il lustro fosse stato un apporto di quest'ultimo. I
documenti relativi a Giacomo sono stati pubblicati da Tiziana
Biganti nel 1987 (8), e da lei ripresi nel convegno di
Fabriano del 1989 (9). Ulteriori notizie sono poi
state fornite da Ettore Sannipoli nel 1993 (l0).
Inaspettatamente si delinea così la figura di un maestro
maiolicaro di primaria importanza, con bottega propria, che
accoglie apprendisti da fuori per istruirli "ad
artem vasorum", ed è uno dei fornitori abituali del
monastero di San Benedetto, fra i più importanti
della città. A conferma
dell'esistenza di una produzione qualificata, da tempo il
sottosuolo eugubino va restituendo una grande quantità di cocci
di maiolica decorata con raffinatissimi motivi
tardo-gotici, soprattutto sui temi
della fiamma, del cartoccio
e dell'occhio di penna di pavone, così come fornisce
reperti tali da testimoniare una abbondantissima e
qualificata produzione due-trecentesca di
ciotole, boccali e bacini. I vasai eugubini erano dunque esperti,
e la loro produzione non inferiore a quella di
centri ben più famosi, dai quali non sembrano dipendere
particolarmente, al di là della
eventuale consueta trasmìgrazìone di manodopera.
(3) P. PERALI, "Un breve
di Leone X a
M.o Giorgio da
Gubbio e una nota critica
intorno alle
'maiolicbe'",
in
-Faenza-, XI (1923),
n. 1-2, pp.34-39: " ... cum
a xx.ti annis citra Dilecti filij Dominus
et comunitas Civitatis
Eugubine te figulum seu in arte
maiorice excellentem magistrum
conoscierent ita quod in arte
illa parem non
haberes, ut talem magistrum in illa
civitate haberent te cum tota
tua familia ab omni onere
Gabellarum
custodiarum et omnibus alijs
gravaminibus .....
etc."
(4) C. VANZOLINI, Istorta delle fabbriche metaurensi, Nobili, Pesaro 1879, pp.245-246.
(5) G. MAZZATINTI, Mastro
Giorgio,
estratto dalla rivista
-Il Vasari-, Arezzo,
a.IV (931),
fasc.2-3, p.7
(prima edizione 1898): "prout aliis
de novo venientibus
habitandum concedi consuevit"
(6) Parigi, Museo del
Louvre, inv. OA 1885, J. GIACOMOTTI, Les majoliques des Musées nationaux,
Ministère des Affaires Culturelles, Editions des Musées
Nationaux, Paris 1974, n.92, p.29.
(7) T. BIGANTI,
Documenti. La
produzione di ceramica a
lustro a Gubbio e a Deruta
tra la fine del
secolo XV
e l'inizio del
secolo XVT. Primi
risultati di una
ricerca documentaria,
in -Faenza-,
Bollettino del Museo
Internazionale delle
Ceramiche di Faenza,
anno LXXIII (1987),
nn.4-6, pp.214-218.
(8) Op.cit., 1987, pp.211-214
(9) ID, Lo stato
attuale delle ricerche
arcbioisticbe
sull'attività dei
vasai in Umbria dal XIII al
XVII
secolo, in:
Ceramica fra Marche e
Umbria dal Medioevo al
Rinascimento, a cura di
Gian Carlo Bojani (atti
del
convegno "Ceramica fra
Marche e Umbria dal Medioevo al
Rinascimento", Fabriano, 9
aprile 1989), Publialfa,
Faenza 1992, pp.67-68.
(10) E. SANNIPOLI, Due notiziole su Giacomo di Paoluccio, in -l'Eugubino-, Gubbio, anno XLIV (993), nn.1-2, p.29
Nel 1495 Giacomo di Paoluccio stringe un contratto
con 'Giorgio e Salimbene,
finalizzato in tutto o in parte alla produzione di
maiolica, e l'accordo prevede che la
lavorazione avvenga interamente nella sua
bottega. E' probabile che i fratelli
Andreoli, i quali ottengono la
cittadinanza eugubina soltanto nel 1498, non
disponessero ancora di una propria bottega. Nel 1501 è
registrato un nuovo contratto, ma questa volta
ciascuno lavora le ceramiche
"usque ad majoricam" nella propria bottega.
Maestro Giacomo muore prima del 1519, quando ormai saliva
la stella di Giorgio e dei suoi
fratelli. Ecco
dunque profilarsi la possibilità che
Giacomo , non Giorgio, sia
stato il primo detentore del
lustro, e che si possa parlare di lui addirittura
come di colui che glie l'ha insegnato
(11). Come si vede, gli indizi
non sono univoci. A sostegno
delle affermazioni di
Giorgio, vi è solo una
menzione di Cesare Cesariano a
proposito dei vasai di Pavia (12),
non sostenuta per ora da altri
documenti e reperti di scavo,
mentre niente vieta di pensare
che le frasi del documento pontificio e
della supplica modifichino un po' i
fatti, sottolineando il ruolo di un
maestro ormai famoso e socialmente
rilevante. Si potrebbe però anche
avanzare l'ipotesi che
Giorgio rechi a Gubbio non il
lustro in sé, ma quella
particolare tonalità di rubino così
diversa da quella
derutese, dove si presenta più
spenta e rosata, e dove
viene ben presto
abbandonata. Potrebbe inoltre essere legato
a lui l'uso
dì associare
diverse tonalità di lustro
contemporaneamente, rosso, dorato,
argento e un eccezionale color
camoscio.
Fin dalle prime prove che vengono
attribuite alle fornaci eugubine
notiamo infatti la comparsa
della tonalità rossa, brillante e
inconfondibile, che si
associa spesso a un verde
altrettanto intenso. Si
tratta di una serie di vasi
abborchiati e coppe di cui
esiste una cospicua
rappresentanza nelle collezioni
del Victoria and Albert di Londra
(Tav.Ia), e la cui datazione precoce
è confermata dalla presenza di
una coppa su basso piede, con decorazione a
rilievo, che reca al centro
lo stemma di Papa Giulio II,
morto nel 1513. E'
interessante notare come
questo tipo di coppa presenti una forma
assai simile a quelle che
divengono produzione comune
nella bottega di Giorgio
a partire all'incirca dagli anni
trenta, e come un esemplare,
anch'esso con lo stemma a rilievo di Giulio II, sia
stato poi conservato a lungo allo stato di
biscotto e ornato con lo stemma di
Paolo III Farnese
(1534-1549\ che si
sovrappone al precedente
(Tav.Ib). Almeno alcuni di questi
oggetti precoci si devono quindi alla bottega di
Giorgio, e di essi fa parte con
ogni probabilità la splendida
e inconsueta coppa con un
cav-aliere conservata nelle collezioni
del Civico Museo di Pesaro
(Tav.Ic).
Come abbiamo visto, anche Giacomo
di Paoluccio è stato protagonista dei lustri in
questa fase, ma egli appartiene
alla innumerevole schiera di ceramisti il
cui nome ci è noto tramite i
documenti e a cui non si è
mai collegata in maniera
plausibile opera
alcuna. Si impone quindi la
domanda se sia o no possibile
risalire alla sua
produzione, se non a quella di
uso comune, per lo meno a
quella di maggior rilievo. Noi
riteniamo di poter indicare
almeno un esemplare, in quanto reca sul
retro la firma di Giacomo. Si
tratta di un grande piatto (13)
-30 centimetri di diametro-
con la raffigurazione di
due cacciatori nudi, di cui uno tiene al guinzaglio un cane, e l'altro, visto da tergo, ha una lepre gettata sulle spalle e stringe
in mano un corno (Tav.IIa, b).
(11) T. BIGANTI, op.cit., 1987, p.212.
(12) CESARE CEsARlANO,
commento al libro VII, f.
CXII, ed. comense di
Vitruvio, 1521 : " ..
.lucidissimi
pincti et vitreati
vasi, sopra li quali li colori
universali facti di vari
metalli et praecipue li
più belli non si pono
fare senza le scorie di
auro et agento, si como
etiam si pon vider le foglie
seu laminelle tenuissime,
quale sopra
le sufumigatione con varie
polvere et combustione
recevano li colori de
ogni sorte di pietre
praeciose che in se
hano limpida et diaphana coloratione ... "
(13) Parigi, Louvre, inv. OA 1257, in J. GIACOMOTTI, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Ministère des affaires culturelles, Editions des musées nationaux, Paris 1974, n.524, p.158
La scena è tratta da una xilografia del maestro "IB dall'Uccello", rappresentante Zeus e Ganimede (14), di cui riprende alcune figure (Tav.IIc). Tutt'attorno, sulla tesa, vi è un giro di elaborati trofei, fra i quali spiccano strumenti musicali, libri, armi etc. Il retro è smaltato di bianco, e ornato con tralci ricurvi e mazzetti di fiori che ricordano un po' quelli di Giorgio, senza però ricalcarli esattamente. Al centro, sotto la base, è leggibile benché un po' sbavato il nome "Giacomo": la "G" è stilizzata nel modo comune anche a Giorgio; ad essa segue una zona non chiara, poi si distinguono bene le quattro lettere finali del nome. Questa firma ha creato in passato non pochi problemi. Poiché il lustro che orna il piatto è sia dorato che rosso, il Darcel volle considerarla una versione deformata della sigla di Giorgio o Cencio (15), cosa tuttavia difficilmente sostenibile, e esclusa quindi da Jeanne Giacomotti, la quale attribuisce il piatto, pur con qualche dubbio, a Deruta, per alcune caratteristiche della forma e per l'intonazione arcaizzante, che connota generalmente la produzione a lustro di questo centro. Si tratterebbe verosimilmente di un tentativo di rosso metallico databile agli inizi del secolo XVI. La Giacomotti non fa alcun tentativo di leggere la firma, che comunque non avrebbe avuto per lei alcun significato, non essendo ancora nota la documentazione relativa a Maestro Giacomo e soprattutto la sua connessione con i lustri.
Poiché non esiste un repertorio ceramico attribuibile con certezza a Giacomo e che possa costituire un punto di riferimento, la firma
rappresenta l'unico elemento che consente di collegare il piatto con i cacciatori specificamente alla sua bottega.
Stilisticamente plausibile ci apparirebbe però, anche senza di essa, la sua esecuzione eugubina, per il tono del lustro,
per il tipo di decorazione sul retro e soprattutto per quella convergenza di elementi umbri e marchigiani che caratterizza costantemente la produzione di Gubbio, sempre oscillante fra
questi due ambiti. La forma ha infatti caratteri che ricordano i piatti da pompa derutesi, mentre i trofei della tesa rimandano piuttosto a tìpologìe decorative
rinascimentali metaurensi.
Se l'inserimento del piatto con i cacciatori fra i lustri di Gubbio può non destare eccessiva sorpresa a causa delle incertezze attributive di cui è oggetto, e che da sempre lo hanno alternativamente collocato a Deruta o a Gubbio, assai più ostico è seguire fino in fondo il percorso che esso comporta. Si colloca infatti nella sua orbita, oltre a una targa con la Crocefissione, in cui illustro rosso rialza i toni del blu, del verde e del giallo verdastro (16), uno dei più famosi piatti da pompa "derutesi", quello con "Antonia sopposta," anch'esso al Louvre (17), datato 1510, che reca al centro la poveretta appesa per i piedi a un albero spoglio "per non avere fede" (Tav.III). La relazione venne evidenziata dalla stessa Giacomotti, per il ricorrere, costante in tutti e tre gli esemplari, di un paesaggio contrassegnato da caratteristiche nuvole grigiastre e da una ben precisastilizzazione dell'erba, i cui particolari sono riportati con una precisione estranea alla prassi derutese, che comporta una maggiore semplificazione ed essenzialità dell'immagine. Colpiscono inoltre nel piatto di "Antonia ", la cui policromia non include illustro, e la cui
(14) The Illustrated Bartsch, Abaris Book, New York 1980, vo1.25, p.76. Le xilografie del maestro vengono approssimativamente datate dal 1500 al 1510-16, v. op.cit., vo1.13, p.155.
(15) A. DARCEL, Notice des faiences peintes italiennes, bispano-moresque et
francaises et des terres cuites
émaillées, Typographie Charles de Mourgues Frères, Paris 1864, G 475, pp.280-281.
(16) Ecouen, Musée de la Renaissance, inv. Cluny 2929,]' GIACOMOTIl, op. cit., 1974, n. 523.
(17) Parigi, Museo del Louvre, inv. OA 9205, ]. GIACOMOTIl, op. cit., 1974, n. 477.
tesa è a trofei, intervallati da mascheroni da grottesca e da due medaglioni con profili maschili in abiti classici, le dimensioni veramente monumentali e insolite anche fra gli oggetti da pompa (18).
Per quel che ci risulta, l'attribuzione dell'''Antonia'' a Deruta non è mai stata messa in dubbio. La forma è quella dei piatti da pompa derutesi, il retro è rivestito di una vernice verdastra, con la parola MAY incisa profondamente. E tuttavia dobbiamo abituarci ad ammettere una possibile provenienza eugubina anche per molti oggetti dalle caratteristiche fin qui ritenute inconfutabilmente derutesi. Se troppo poco è stato individuato della produzione precoce di Gubbio, questo dipende dal fatto che parte di essa. viene comunemente confusa con Deruta, come indicano i reperti di scavo. Dal sottosuolo eugubino sono usciti innumerevoli frammenti di maiolica ornata soltanto in blu con i "denti di lupo" intercalati dal fiore di girasole tipici della produzione derutese, e che debbono essere considerati lo stadio precedente l'applicazione del lustro. I "denti di lupo" sono assai simili a quelli derutesi, talvolta più fitti e con i boccioli tracciati in stilizzazione un po' diversa. In minore quantità, sono stati ritrovati anche frammenti con le stesse caratteristiche già completati dal lustro, nei quali, parti della decorazione, ad esempio i boccioli rotondi, sono di un rosso rubino smagliante (Tav.IV a, b). E' difficile parlare di importazioni da Deruta, vista anche la frequenza con cui queste tipologie sono mescolate a scarti di fornace e treppiedi. Molto più probabile è la adesione, da parte dei vasai eugubini, a tipologie derutesi forse giunte in città col trasferimento di alcuni artefici, e che vengono in qualche modo personalizzate con il frequente accostamento del verde e con il tono del rosso a lustro.
Il rinvenimento dei frammenti rende più facile accettare l'attribuzione a Gubbio di esemplari come l"'Antonia". Apre anche la strada
all'attribuzione eugubina di alcuni piatti da pompa fin qui collegati a Deruta, ma che si staccano da quelli derutesi per un verde squillante e per un rosso anch'esso molto
vivido, quasi violaceo. Fra i più noti ve ne sono due con favole esopiche tratte dalle illustrazioni dell'edizione napoletana del Tuppo,
rispettivamente all'Ashmolean di Oxford e al Victoria and Albert di Londra, nonché uno con l'immagine di
Sant'Ubaldo, patrono di Gubbio, nel Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza (Tav.V a); un terzo, al Louvre,
rappresenta la "venditrice di falli", che tiene raccolti come frutti in un cestino (19). Vi sono poi due piatti
da pompa con lo stemma dei Montefeltro unito alla tiara e alle chiavi papali, cosa che consentirebbe di datarli fra il 1474 e il
1508 (20). Dei due, quello conservato al British Museum (Tav.V b) si
collega, per gli ovali stampati in depressione, con un motivo ricorrente nel vasellame citato sopra e che consideriamo eugubino e
degli inizi del secolo (Tav.Ia).
L'iconografìa e l'araldica, che di per sé non sono significative, lo divengono se unite
agli altri punti di contatto: S. Ubaldo è patrono di Gubbio, città che apparteneva al ducato dei Montefeltro di
Urbino. Aggiungeremmo all' elenco, che è passibile di continuo aumento, un
piatto del Louvre con quattro
(18) L'altezza è 9,5 centimetri, il diametro addirittura 56.
(19) Oxford, Ashmolean Museum, in T. WILSON, Ceramic Ari of Italian Renaissance, British Museum
Publications, London 1987, n.192, pp.123-124; Londra, Victoria and Albert Museum, inv. C 2171-1910, B.
RACKHAM, Catalogue of Italian Maiolica; Victoria & Albert Museum, London 1940, n.439; Parigi, Louvre, inv. OA
1256, J. GIACOMOTIl, op.cit., 1974, n.528.
(20) T. WILSON, op. cit., p.206, in cui le date
proposte sono collegate al fatto che l'accostamento dello
stemma Montefeltro con gli emblemi papali fu consentito a partire dal 1474 a Federico da Montefeltro
quando
divenne porta-stendardo della Chiesa, e perdurò fino al 1508, anno della morte di Guidubaldo I, che portò
all'estinzione di quel ramo della famiglia. I due piatti si trovano rispettivamente al British Museum, inv.
MLA 1855, 12-1, 51 (ib. n. 204), e al Louvre, inv. OA 1723 Q. GIACOMOTIl, op.cit., 1974, n.526)
gonfalonieri (21). Anche qui compare il verde, e i "denti di lupo" che circondano la tesa si presentano con caratteristiche analoghe a quelle dei frammenti, fitti e con i boccioli il cui stelo è affiancato da due stami arricciati.
Concludendo, ci sembra di poter affermare, sulla base di
documenti e frammenti di scavo, che illustro a Gubbio fu
prodotto a partire dalla fine del '400 in tipologie affini
a quelle derutesi, compresi i
piatti da pompa. Con l'avvento del
nuovo secolo, specie dopo il
1510, prevale l'influenza delle Marche,
con l'acquisizione
dell'istoriato e l'uso intensivo
delle stampe.
L'affermazione della
bottega di Giacomo di Paoluccio, cui
Giorgio risulta associato, va
vista nell'ambito del graduale
passaggio dal gusto derutese a
quello dell'istoriato metaurense.
In seguito Giorgio metterà al servizio
dell'istoriato la sua
straordinaria capacità tecnica, per cui sarà in grado
di eseguire a lustro non soltanto lo squillante rosso rubino, .ma
nello stesso tempo lumeggiature argentate e dorate,
nonché bordi di una attenuata
doratura simile al colar camoscio, portando i
lustri al
massimo grado di perfezione, mai più raggiunto dalle
successive produzioni eugubine.
Early Gubbio Lustres
Recently published archive documents prove
that lustre production existed in Gubbio at least by the end of the 15th century. The figure of Giacomo di Paoluccio also emerges in connexion with
this technique and with Maestro Giorgio's beginnings, and it is not out of the question that the former
was the first to
possess lustre. A plate in the Louvre bearing the signature "Giacomo" may be attributed to him. Much early Gubbio production is probably confused with that of
Deruta, the archaeological
fragments being substantially similar to those found in
the latter
town. They are sometìmes-dìstìnguìshed
by a more intense ruby tone and
a frequent matching
with bright green. This, together with the presence of elements of influence from the Marches with a different layout of decoration figures and landscapes, may be a reason for attributing to Gubbio certain
pieces which, with
their depictions of St. Ubaldo or the Montefeltro coat of
arms for example, are
also iconographically linked to the town.
(21) inv. OA 1703 (J. GIACOMOTTI, op.cit., 1974, n.527).
Frube Lilsterglasuren in Gubbio
Vor kurzem veroffentlichte Archivurkunden belegen, daìs es in Gubbio mindestens seit Ende des 15. Jahrhunderts eine Produktion in Lusterglasur gegeben hat. Auìserdem geht aus diesen Dokumenten, im Zusammenhang mit dieser Technik und den Anfangen des Maestro Giorgio, die Figur des Giacomo di Paoluccio hervor, der sich vielleicht sogar als Erster die Lustertechnik zu eigen gemacht hatte. Ihm kann ein im Louvre ausgestellter Teller mit der Unterschrift "Giacomo" zugerechnet werden. Ein beachtlicher Teil der fruhen Produktion aus Gubbio wird wahrscheinlich mit der aus Deruta verwechselt: Ùberdies weisen selbst die bei Ausgrabungen entdeckten Bruchstucke wesentliche Ahnlìchkeìten mit den Funden von Deruta auf. Bisweilen unterscheiden sie sich von diesen durch ein kraftigeres Rubinrot und die haufiger auftretende Kombination mit leuchtendem Grun, Diese Tatsache kann, neben Elementen, die auf Einfliìsse aus den Marken schlieìsen lassen und durch die unterschiedliche Ausarbeitung von Ornamenten, Figuren und Landschaften gekennzeichnet sind, ein Kriterium dafur sein, einzelne Exemplare Gubbio zuzuordnen, insbesondere wenn diese auch ikonographische Verbindungen zur Stadt aufweisen, wie zum Beispiel die Darstellung des Sant'Ubaldo oder des Wappens der Monfefeltro.
Lustres précoces de Gubbio.
La récente publication de documents d'archives témoigne de l'existence à Gubbio d'une production à lustre au moins depuis la fin du XVe siècle. Cette étude fait en outre ressortir, liée à cette technique et aux débuts de Maitre Giorgio, la figure de Giacomo di Paoluccio qui pourrait ètre le premier réalisateur du lustre. A ce dernier on peut attribuer un plat du Louvre signé "Giacomo". Une grande partie de la première production de Gubbio est probablement confondue avec celle de Deruta: les fragments de fouilles mèmes, présentent des analogies substantielles avec ceux qu'on a trouvés à Deruta. Parfois les différences concernent un ton rubis plus intense se rapprochant souvent du vert brillant. C'est peut-ètre là une indication, jointe à la présence d'éléments d'influence des Marches mais avec une élaboration différente de décors, de figures et de paysages, d'une possible attribution à Gubbio de pièces qui, mèrne iconographiquement se lient à la ville, par exemple pour la représentation de Saint Ubald ou des armoiries
des Montefeltro.