Carola Fiocco - Gherardi Gabriella. In La maiolica italiana del Cinquecento. Il lustro eugubino e l’istoriato del Ducato di Urbino, atti del convegno di studi Gubbio 21,22,23 ssettembre 1998, a cura di Gian Carlo Bojani, Firenze, Centro D, 2002, p.61-68
Con questa relazione non ci proponiamo di presentare cose nuove, ma di spiegare com' è nato il percorso della mostra "Maestro Giorgio da Gubbio: una carriera sfolgorante" a Palazzo dei Consoli. Anche se non è stato possibile ottenere tutti i pezzi preventivati, essa è infatti rappresentativa dei principali problemi della ceramica eugubina, e può quindi costituire un punto di arrivo e insieme di partenza per un riesame della figura e della produzione di Maestro Giorgio nell'ambito della storia della ceramica. Nel catalogo abbiamo cercato di sviluppare le indicazioni fornite dai reperti di scavo e di archivio, anche se queste portano talvolta fuori del solco di una tradizione consolidata. Il convegno ci sembra pertanto l'occasione giusta per valutare insieme le questioni controverse, in primo luogo quelle relative all'istoriato a lustro del ducato di Urbino.
I punti focali della discussione appaiono i seguenti:
- l'origine e le tipologie precoci del lustro a Gubbio,
- i rapporti di Giorgio con Deruta e con Maestro Giacomo di Paoluccio.
- la centralità della bottega Andreoli e della figura di Giorgio quale grande imprenditore nello sviluppo dell'istoriato marchigiano, specie nella sua prima fase, e le relazioni con i pittori di istoriati durantini e soprattutto urbinati.
Per quel che riguarda il primo punto, la novità che emerge dai documenti è quella di un arretramento degli inizi del lustro alla fine del secolo XV, sia per Deruta che per Gubbio (1). Riepilogando brevemente alcune date, ricorderemo che nel 1489 i Masci erano già ben impiantati a Deruta, e che in un contratto del '96 si parla specificamente di vasellame a lustro. A Gubbio, il primo contratto fra Giacomo di Paoluccio e Salimbene fratello di Giorgio risale al 1489, e vi è contenuto un accenno a patti pregressi. Ancora non vi si parla del lustro, ma questa tecnica è chiaramente contemplata nel successivo contratto del '95, stipulato questa volta fra Giacomo e Giorgio.
Non è dunque più possibile dubitare che il lustro sia presente in entrambe le località fin dalla fine del
Quattrocento. A nostro avviso, Deruta precede Gubbio. A parte la
menzione, nella normativa del 1465 riportata dalla dottoressa Nico Ottaviani, di fascine di
legno di
ginestra che in occasione delle cotture ingombravano le strade della città, e che
servivano a fornire il fumo durante la cottura nella
muffola (2), c'è anche da considerare l'albarello
del Louvre a lustro con le armi dei Baglioni e con un ornato di tipo tardo
gotico (3), che non consente di datarlo oltre il 1470-'80. Ci sembra
quindi probabile che la tecnica sia passata da Deruta a Gubbio. A
Gubbio essa appare fin dall'inizio collegata a Giacomo di Paoluccio e a Giorgio. Nella documentazione Giacomo figura come il contraente di maggior riguardo, ma anche Giorgio doveva già essere una figura notevole, se nel contratto del 1495 viene chiamato Maestro, pur essendo ancora molto giovane (muore nel 1554) e non ancora cittadino.
Nativo di Intra, Giorgio veniva però da
Pavia. Suo padre appare nei
documenti come Pietro da Pavia. È
noto che un commento di Cesare
Cesariano a un'edizione di Vitruvio del 1521
reca un accenno all'uso di rivestimenti
dorati e argentati da parte dei vasai di Como e
Pavia, ottenuti con fumaggio. Non ci
risulta null'altro sulla
presenza del lustro a
Pavia, né di scavo né di
archivio, e forse la menzione
del Cesariano è troppo poco per
dire che da quei vasai
Giorgio trasse la sua
perizia, anche se in documenti
successivi (4) egli mira ad
accreditarsi come un
maestro già famoso nell'arte dei
lustri prima della sua venuta a
Gubbio, e perciò molto richiesto. In
ogni caso diremo che, se fosse
stato latore di precedenti
esperienze, la sua
collaborazione sarebbe
risultata doppiamente preziosa a Giacomo,
anche se questi avesse già appreso
la tecnica per altre vie.
Infatti l'applicazione
del lustro ancora nel
contratto del 1501 viene
eseguita comunitariamente, a
dimostrazione che
richiedeva un impegno e comportava un
rischio superiori alla norma.
Com'era questo primo prodotto?
Come abbiamo già detto altrove, un accenno nel contratto di cui sopra e i frammenti di scavo che costantemente emergono dal sotto suolo eugubino ci
fanno pensare a una produzione di tipo derutese. Nei frammenti, che spesso sono rimasti allo stadio della profilatura col solo blu di cobalto, ricorrono i motivi ben noti dei denti di lupo,
delle foglie frastagliate, delle infiorescenze ovali "a girasole". La differenza è minima nella stilizzazione, meglio visibile nel tono del lustro, che è di un rosso brillante
(figg. la, b). Ecco perché abbiamo inserito nella produzione eugubina due oggetti di tipologia derutese come il piatto da pompa con il Santo Vescovo Ubaldo, del Museo Internazionale
delle Ceramiche di Faenza (fig. 2), e il vaso biansato della collezione Altomani (fig. 3).
Essi stanno a
rappresentare, nel
percorso del lustro
eugubino, tutta una produzione
precoce che potremmo definire
"sommersa", confusa com' è col prodotto
derutese.
In questa prima fase dunque
spicca la figura di Giacomo, che si
delinea nella documentazione di
archivio grazie alle ricerche di
Pier Luigi Menichetti, Tiziana
Biganti e Ettore Sannipoli, ma
che rimane ceramicamente
misteriosa: più precisa sotto
l'aspetto documentario, assai meno
per quel che riguarda
gli oggetti usciti dalla sua
bottega. La nostra proposta è
di attribuirgli il piatto
del Louvre con
iacciatori, esposto in
mostra, che dietro reca il suo
nome (tav. I, fig. 4). Illustro è
rosato, impreciso, la
tesa a trofei. Il riferimento
iconografico è a una stampa di I B dell'uccello, e la mano che l'ha eseguito
appare un po' rude. Se Giacomo per il 1519 era già morto, il piatto dovrebbe risalire agli anni 1510-1515 (le xilografie di IB non possono essere datate con precisione, e le si colloca generalmente fra il 1500 e il 1515-' 16). Occorre qui ricordare che a questo piatto si lega stilisticamente, oltre che una targa a lustro con la crocefissione del museo di Ecouen, il famoso piatto da pompa "derutese" del Louvre con l'Antonia sopposta per non aver fede, datato 1510 e soltanto policromo (5), che potrebbe anch'esso ricadere sotto il sospetto di appartenenza eugubina. Ma non ci soffermeremo oltre sulle possibili opere di Giacomo, che peraltro è impossibile stabilire se siano state dipinte da lui in persona o da qualcun altro presso di lui.
Quel che ci preme sottolineare è che il piatto dei cacciatori introduce in data assai precoce l'istoriato a lustro nello stato di Urbino. A conferma, compare nell'elenco del Carli, datato 1515 e riferito alla bottega di Giorgio, un altro piatto con tesa a trofei e grottesche su un fondo turchino e, al centro, Abramo e Isacco sullo sfondo di "un bel paesetto", il tutto ravvivato dal lustro rosso e oro. Non conosciamo l'ubicazione attuale del piatto, né alcuna riproduzione, né quindi se la scena derivasse da un'incisione, anche se ci sembra probabile. Ci colpisce la sottolineatura che il Carli fa del bel paesaggio che costituiva lo sfondo dell'episodio biblico. Evidentemente anche in questo piatto, come avviene in quello di Giacomo, la storia aveva una sua inquadratura spaziale, e un'intenzione più narrativa che decorativa. Avviene dunque qui il distacco dalla tradizione derutese, che di rado racconta storie e, quando lo fa, tende a semplificarle in senso lineare e quasi bidimensionale anche se si ispira a stampe di Raffaello, con effetti che ricordano la pittura del Pinturicchio, preziosa e decorativa nella sua ricerca di finiture dorate, e perciò stesso poco considerata dai fiorentini. A Gubbio invece è importante lo spazio, e la storia viene accettata nella sua complessità strutturale, quale la stampa forniva. È l'avanguardia della grande tradizione marchigiana dell'istoriato, che si svilupperà dopo il venti a Urbino. Nelle botteghe di Giacomo e Giorgio viene inaugurata una formula che avrà in seguito enorme fortuna. In queste date, nelle Marche solo Casteldurante può proporre esempi di istoriati del genere, con Zoan Maria e la coppa attualmente a Brema che mostra un tritone e un fanciullo su sfondo di paesaggio, molto vicma stilisticamente alla coppa Lehman del 1508, e quindi anche cronologicamente (6).
L'istoriato marchigiano sembra nascere a Casteldurante e a Gubbio, e contemporaneamente in policromia e a lustro. A Gubbio avviene fin dall'inizio un fatto di grande importanza, la
coesistenza e la conciliazione fra la struttura spaziale complessa fornita dalle stampe e illustro.
Questa ci sembra il maggior motivo di vanto di Giacomo e Giorgio, al di là della bellezza del lustro e della priorità nella sua invenzione. Mentre Casteldurante esprime l'istoriato
policromo, Gubbio esprime quello a lustro, e non è un merito da poco. Urbino viene dopo, quando, per lo stabilizzarsi delle vicende politiche diviene sede di una
corte al cui interno una produzione d'élite come l'istoriato poteva trovare committenti e referenti.
Inizialmente affiancata a quella di Giacomo, la figura di Giorgio acquista sempre più spessore e visibilità. Dopo la morte del maestro, verso il venti, domina da sola
il panorama eugubino. Alla sua bottega va certamente attribuito il piatto Dutuit recante il Giudizio di Paride (tav. II), che siamo particolarmente
liete sia stato prestato dal museo del Petit Palais, per la sua grande importanza, e
il San Girolamo del Museo di Pesaro (fig. 5), datati rispettivamente 1520 e 1522. Con questi e altri istoriati degli anni venti la mostra affronta un
secondo nodo, quello dei rapporti di Giorgio con i pittori di storie urbinati e
durantini, ovvero la famosa dicitura "fatto in Casteldurante (o Urbino, o addirittura Faenza) e lustrato a Gubbio", così comune nelle catalogazioni ceramiche anche abbastanza recenti.
Ma, dopo i primi esemplari cui abbiamo accennato, non vi è alcun motivo di supporre un'interruzione nella produzione eugubina di istoriati. Anzi, che tale produzione sia proseguita all'interno della bottega di Giorgio lo dimostrano la firma del maestro in blu dietro il piatto Dutuit, e le scritte "in ugubio" ugualmente in blu dietro due esemplari attribuibili a Francesco Urbini, il piatto del Boymans-van Beuningen di Rotterdam con la Nascita di Esculapio (fig. 6) e il piatto Doria Pamphilj col Ratto di Europa (fig. 7). Lo dimostra anche la documentazione per la quale Giorgio assumeva manodopera allo scopo di dipingere e istoriare il vasellame. Ci è rimasta notizia relativa a pittori di Urbino e Casteldurante, ma altri dovevano certamente essercene di formazione locale. A proposito del famoso contratto col quale nel 1525 Giorgio lega a sé il pittore Giovanni Luca da Casteldurante, è significativo il fatto che Giorgio lo impegni a risiedere a Gubbio presso di lui per tutto il periodo pattuito, e a non allontanarsi. Volendo produrre istoriati, Giorgio si procura il pittore. L'artefice si sposta, non il vasellame. E la stessa cosa sembra avvenire, pochi anni dopo, per Francesco Urbini, e per il pittore che ha dipinto la coppa del Musée national de la céramique di Sèvres con il Giudizio di Paride (7), autore anche di quella con Apollo e Marsia del Museo di Pesaro (8), non lustrata, e spesso attribuita a Nicola da Urbino. La coppa di Sèvres ha infatti forma eugubina, e l'ornato esterno a palmette è tipico di Giorgio, come pure la brillantezza dei lustri. Ecco perché, specie per quel che riguarda gli anni venti, ci hanno sempre lasciate perplesse le ipotesi di spedizioni di vasellame verso Gubbio. Niente vieta che avvenissero, ma non ve ne sono prove dirette.
A nostro avviso, lo stesso Avelli negli anni 1528 e '29 deve aver lavorato qualche tempo presso Giorgio. Pensiamo alla bellezza e alla intensità del lustro, dalle zone nettamente campi te, negli esemplari del cosiddetto "maestro dell'ypsilon-fi", di cui alcuni qui esposti, e nella coppa con Isacco ed Esaù del Museo delle Ceramiche di Faenza (tav. III, fig. 9). In questa fase ha spicco eccezionale la dicitura a lustro "Mastro Giorgio in Ugubio", mentre il pittore non appone la propria fIrma, e si identifica forse con quel curioso svolazzo, peraltro oggetto di interpretazioni diverse. Sappiamo da un ben noto documento di carattere "sindacale" che ancora nell'agosto del 1530 l'Avelli lavorava alle dipendenze di altri, e non riceveva un trattamento privilegiato rispetto ai colleghi (9); si intendeva infatti calmierare le sue pretese economiche al pari di quelle degli altri decoratori sulla piazza. Niente di straordinario quindi che, spostandosi di bottega in bottega, Francesco prendesse anche la via di Gubbio, che non è poi così distante da Urbino.
Solo successivamente la sua posizione cambia. Egli aumenta la propria importanza, forse si mette in proprio, comunque inizia a firmare, Dopo il '30 fin verso il '33, come ha sottolineato il Mallet (10), avviene un fatto curioso: quando egli, alla fine dell'argomento, scrive il proprio nome per esteso e specifica che l'opera è stata fatta "In Urbino", illustro sembra voler coprire con intenzione proprio questa parte dell'iscrizione, con una determinazione che difficilmente può essere casuale. Il pittore afferma la propria autografia, colui che appone il lustro sembra disapprovare.
La domanda è ora dove illustro sia stato
apposto. Dopo aver dipinto le sue
storie "In Urbino"
l'Avelli ha dunque spedito i
suoi piatti fino a Gubbio, oppure
questo non era necessario,
perché in Urbino
stessa c'era ormai la
possibilità di farlo? A
partire dal 1538 è qui
documentata la presenza di
Vincenzo di Giorgio Andreoli con una propria
bottega, quella che aveva affittato dalla vedova di Nicola di
Gabriele, e non vediamo difficoltà a
supporre che egli applicasse illustro.
Conosceva la
tecnica, e la costruzione di
un forno muffola, ci dicono gli
esperti, non è così complicata per
chi ne ha la competenza. Visto che la
richiesta c'era, e che i
maestri urbinati amavano
valorizzare col lustro i loro
pezzi, Giorgio avrebbe potuto cogliere
l'opportunità e creare a Urbino una
succursale, mandando il figlio a
dirigerla. Ma prima del 1538? A questo punto non
faremo ipotesi precise, ma ci limiteremo a indicare
delle strade percorribili per uscire
dai binari consueti, per
cercare nuove soluzioni.
Vincenzo nel '38 affitta la bottega
di Nicola perché si era liberata al
momento opportuno oppure perché
era quella che gli faceva da
base negli anni subito
precedenti? Questo fatto rende
per qualche tempo
stabile la sua attività a
Urbino, di cui nel '44 prende
la cittadinanza,
finché tre anni più tardi l'età
avanzata del padre non
rende necessario il suo rientro a Gubbio.
Ma, se è lui il Maestro N, la cui
firma a lustro compare così
spesso, almeno a partire dal 1532,
sugli istoriati urbinati dell'Avelli e del
gruppo di pittori che
ruotano attorno a lui, mentre ne
parrebbe assente (con una
eccezione) quella di Giorgio,
già prima del '38 Vincenzo
doveva operare a
Urbino, anche se in maniera
saltuaria. Nel catalogo abbiamo
voluto evidenziare
queste incertezze, questi
intrecci e scambi fra Gubbio e
Urbino, per ora quasi
irresolubili. Un esempio per tutti,
la splendida coppa col San Giuda Taddeo del Museo di Pesaro
(fig. 8), datata 1525 e tradizionalmente attribuita a Nicola, per la quale non escluderemmo una esecuzione eugubina, in accordo con la scritta sul retro.
Un altro problema analogo a quello dell' Avelli
è dato dal Pittore S, forse
Sforza di Marcantonio de Julianis.
Nel
piatto con il Ratto di
Ganimede del Museo
Correr (figg. 10a, b), la N
a lustro si intreccia sovrapponendosi
alla S in blu che costituisce la firma del
pittore, quasi a simboleggiare la
simbiosi fra chi ha dipinto e chi ha applicato il lustro,
forse il segno di un' amicizia. E se una
certa tipologia di Belle, come è nostra opinione, è
stata dipinta dal pittore S,
diventa significativo il fatto che
la già citata Camilla
Bella dell'Errnitage,
che purtroppo non è stato
possibile avere in
mostra, datata
1537, rechi la N accanto
alle iniziali di Giorgio, indicando
forse che il luogo della prima
collaborazione fra S e N potrebbe
essere stata proprio
la bottega di Gubbio.
Col ritorno di Vincenzo a Gubbio e l'ultima fase della bottega Andreoli sembra diradare il gusto degli istoriati a lustro, e la produzione si concentra sulle coppe "abborchiate", di cui è qui esposta una cospicua rappresentanza. Resta il Prestino che, con il grande piatto della Wallace Collection di Londra, sembra dare l'addio a questo genere glorioso. Un'ultima domanda viene sollecitata da questa esposizione. Se la lettera che compare sul retro di alcune abborchiate può essere letta come P, è possibile che il Prestino si cimentasse in questo genere di coppe, finora sempre ritenute appannaggio della bottega di Giorgio?
Concludiamo ribadendo che non possiamo né vogliamo dare risposte. Se questa mostra farà da stimolo a una ricerca condotta senza le pastoie dei pregiudizi tradizionali, avrà già ottenuto il proprio scopo.
1) In particolare,
v. Menichetti [b],
1980, p. 259; Nicolini,
1982, p.
23; Biganti,
1987, p. 295; idem,
1992, p. 67; Sannipoli, 1993,
p. 29.
2) Nico Ottaviani, 1982, pp. 265-266.
3) Parigi, Louvre, inv. OA 1885, in Giacomotti, 1974, n. 92.
4) Vedi la famosa supplica di Giorgio al duca Guidubaldo II nel 1552, in Vanzolini, 1879, pp. 245-246.
5) Inv. OA 9205, in Giacomotti, 1974, n. 477.
6) Mallet - Dreier, 1998, n. 9, p. 122.
7) Inv. 2470(5), in Giacomotti, 1974, n. 826.
8) Mancini Della Chiara, 1979, n. 24.
9) Negroni, 1985, p. 18.
10) Mallet, 1988, pp. 68-69.