Carola Fiocco - Gherardi Gabriella. Catalogo della mostra Gubbio 1998, Firenze 1998
La tecnica del lustro
fu introdotta
nel bacino del
Mediterraneo dai ceramisti
islarnici, che aggiravano
così in un certo
senso il divieto
religioso di usare
vasellame d'oro o
d'argento sulla
tavola.
Rivestendo
infatti la ceramica
di una patina dorata o rarnata, le
conferivano aspetto
di metallo prezioso.
La tecnica,
tutt'altro che
facile, pare sia comparsa
per la prima volta in
Mesopotamia nel IX-X
secolo. Si diffuse
quindi in Egitto,
in Iran e in gran
parte dell'area
islamica, compresa
la Spagna. Qui,
anche dopo la
riconquista, le
officine di Valenza
e Manises, subentrate
per importanza alla più
famosa Malaga,
continuarono una
produzione che,
nella sua preferenza per
gli ornati
geometrici e
vegetali, proseguiva
l'avversione
islamica per la
raffigurazione
umana e animale,
pur acquisendo
elementi
araldici o emblemi
cristiani. I
grandi piatti ornati a foglie
d'edera, a
prezzemolo e brionia,
a note di musica
erano importati e molto
apprezzati in Italia,
dove i ceramisti
cercarono di imitarli fin
dagli inizi del secolo XV.
Dovevano limitarsi,
però, a riprenderne forme e
motivi decorativi,
tracciandoli col blu
e col giallo, poiché in
un primo tempo
erano incapaci di
ottenere il lustro. Un
bel vaso toscano con lo
stemma di Lorenzo de'
Medici e di sua moglie
Clarice Orsini,
attualmente a Detroit
(2), esemplifica al
meglio questo
tentativo,
imitando le
ceramiche spagnole (si
veda in particolare il
vaso mediceo
valenzano del
British Museum di
Londra (3) sia nella
forma, dai
caratteristici
manici a cresta traforati,
sia nel motivo a
fiordaliso. Tuttavia al
lustro dei modelli origi- Come fatto tecnico, il lustro non è documentato da noi prima degli ultmi decenni del Ouattrocento (4). Allora venne sperimentato presso alcuni centri dell'Italia centro-settentrionale, precisamente quelli che ospitavano le principali botteghe e vantavano la più alta produzione in campo ceramico: Faenza, Pesaro, Deruta. Curiosamente sembra rimanerne esclusa la Toscana, dove pur affluivano in maggior quantità i manufatti spagnoli. La produzione a lustro di Cafaggiolo è infatti pienamente cinquecentesca, e forse dipende in qualche modo da quella derutese (5). La spiegazione può trovarsi da un Iato nella non eccelsa qualità che caratterizzava le maioliche di Montelupo, dove si concentrava all'epoca la maggior parte del prodotto toscano, dall'altro proprio nella facilità con cui le nobili famiglie potevano procurarsi il prodotto originale, commissionando oggetti con il proprio stemma direttamente a Valenza. Di conseguenza i ceramisti toscani non partecipano a questo primo momento di sperimentazione sul lustro, e non sono poi in grado di applicarlo nemmeno per commissioni importanti, come il vaso di Detroit. |
Come era prevedibile, i primi esemplari a lustro italiani risentono da vicino dei modelli ispano moreschi: il tono del lustro è ramato, gli ornati richiamano quelli valenzani. Non vi fu tuttavia alcun seguito significativo se non in Umbria, unico luogo dove la tecnica allignò. Faenza non sembra essere andata oltre una fase sperimentale (6), mentre a Pesaro sono state ritrovate ciotole a lustro di produzione senz'altro locale perfettamente cotte e decorate (7), ma in numero talmente limitato da far pensare a una singola bottega assai poco prolifica, o a uno scarso riscontro di mercato.
Diverso è il caso di Deruta, dove la
grande famiglia dei Masci,
discendenti di Mascio di
Vannuccio, sembra essersi arricchita proprio
grazie al lustro.
Nel 1496 sono menzionati nei documenti pagamenti per
vasellame a lustro, e l'eccezionale
prosperità della famiglia, divisa in tre rami,
in possesso di tre laboratori e una fornace, di una
rivendita nella piazza
principale, di terreni e beni
immobili, si giustifica proprio con la
capacità di applicare una tecnica nuova
e non alla portata di tutti (8).
Anche qui l'inizio sembra essere
stato di tipo moresco, come
indica la
decorazione di uno dei primi
esemplari, un albarello biansato con
le armi dei Baglioni la cui tipologia è ancora
decisamente tardo-gotica
(9), Subito dopo, verso la fine del
secolo XV, subentrano i caratteristici
ornati del Rinascimento derutese (denti di
lupo inframmezzati da infiorescenze, foglie
frastagliate, ghirlande, embricazioni
sovrapposte), spesso
distribuiti entro scomparti
(10). Pur affiancandosi a una
produzione policroma di livello altrettanto
alto, il lustro rimane
per Deruta un tratto
distintivo, e continua ad
essere prodotto fino alla fine del
Seicento (11), pur avendo nella
prima metà del
secolo precedente il suo
momento di maggior fulgore.
Sarebbe interessante
approfondire
i motivi per cui, mentre
altrove non vi fu un seguito,
qui la tecnica si affermò con
tanto successo e durata da
costituire quasi un monopolio. Lo
stile entrò in simbiosi col
lustro, adattandovi la
propria evoluzione e sviluppandosi in
maniera decorativa e arcaizzante. Inoltre il prodotto
derutese incontrò il
favore del mercato e lo
condizionò, diventando un punto di riferimento
obbligato per chiunque volesse
maioliche a lustro e fosse in grado di
pagarle.
A Gubbio la situazione iniziale non deve essere stata diversa, anche se in dimensione minore. Dai documenti di scavo e di archivio si ricava che, a partire dagli ultimi anni del 1400, alcuni ceramisti eugubini padroneggiavano la tecnica, avendo la probabilmente acquisita dai derutesi (12), A questa ultima conclusione ci porta l'uso iniziale di forme e motivi simili a quelli in uso a Deruta, testimoniato dalla quantità veramente cospicua di frammenti che continua ad emergere dal sotto suolo eugubino. In parte di essi le decorazioni sono soltanto profilate in blu, pronte cioè per l'applicazione del lustro mai avvenuta, ed equivalgono insomma a scarti di fornace, non avendo subto l'ultima cottura. Talvolta invece su quegli stessi motivi troviamo anche il lustro, dorato o di uno smagliante rosso rubino, che si distingue per intensità da quello derutese, il cui tono è più ramato.
Dunque all'inizio la produzione a
lustro di Gubbio non doveva disco-
starsi molto da quella derutese, a
parte forse il tono più vivo del
rosso. Perquesto, a nostro
avviso, ha ottime probabilità di
essere eugubino il grande piatto da
pompa con Sant'Ubaldo della collezione
Fanfani del Museo
Internazionale delle
Ceramiche in Faenza, generalmente
attribuito a Deruta
(scheda n. 1), su cui non
ci risulta siano mai stati
avanzati dubbi del genere,
poiché appartiene a una
tipologia la cui collocazione
non viene generalmente messa in discussione. Il motivo non è ovviamente legato
all'iconografia (Ubaldo è il patrono di Gubbio), che poteva benissimo essere stata
commissionata anche fuori della città, ma a quella particolare brillantezza del rosso e del verde, e alla stilizzazione delle punte o "denti di lupo" che circondano la tesa. Il piatto con Sant'Ubaldo può essere accostato, per questi motivi, ad altri esemplari che ne condividono le caratteristiche, ad esempio quelli con le favole esopiche tratte dall'edizione napoletana del Tuppo (13), la cui esecuzione eugubina è stata invece più volte ipotizzata. È dunque meglio tenere distinta la produzione derutese dalla tipologia derutese, che riguarda anche altri centri. Gli artefici si spostavano continuamente per lavoro, si trasferivano altrove, mettevano su bottega e producevano oggetti simili a quelli di prima. Così anche ad Orvieto è stato eseguito vasellame a lustro di tipologia derutese, da ceramisti che vi si erano trasferiti (14).
Il ritrovamento a Gubbio di una
grande quantità di
frammenti a lustro di
tipologia derutese
toglie, a nostro avviso,
significato
all'annosa polemica se il
lustro sia per Gubbio un
prodotto autoctono o sia
stato portato da Pavia da Mastro
Giorgio. Sono noti i dati della
questione. Nativo di Intra,
Giorgio era stato probabilmente
per un certo periodo residente a Pavia
(15), prima di trasferirsi
definitivamente a
Gubbio, e i vasai di
Pavia, secondo Cesare
Cesariano, sapevano
porre sui vasi
rivestimenti
preziosi dorati e
argentati ottenuti a
fumaggio (16). Inoltre, sia
nel Breve con cui Leone X rinnova
l'esenzione ventennale
dalle tasse avuta da
Giorgio all'atto della cittadinanza (17),
sia nella supplica che
questi, ormai
vecchio, rivolse nel
1552 a Guidubaldo II per
rinnovare il privilegio
(18) si accenna a
insistenti inviti da
parte delle autorità affinché un
tale artefice, esperto
nell'arte dei lustri,
si trasferisse a Gubbio.
È possibile, visto il tipo
di documento, che
l'importanza iniziale
di Giorgio vi sia stata
un po' esagerata,
tanto più che è di
recente emerso il
nome di un maestro vasaio di
Gubbio, Giacomo di
Paoluccio (19), con cui
Salimbene e Giorgio si
associano fin dagli anni ottanta,
e che appare coinvolto nella
produzione di lustri. Nel 1489
Salimbene si impegna a
rispettare con lui patti
precedentemente
stipulati, mentre nel 1495
e nel 1501 i due fratelli
sottoscrivono
contratti volti alla
produzione di
maioliche
lustrate.
Inizialmente la produzione
avviene presso
Giacomo, anche
perché Giorgio non disponeva
ancora né della
cittadinanza, che ottiene
nel 1498, né di una propria
bottega. Solo col
contratto del 1501 appare
chiaro che ormai Giorgio
si è installato per conto
proprio. Ha aggiunto al proprio nome
la qualifica di Maestro, e
fornisce alla pari con
Giacomo la sua parte di
vasellame bianco e azzurro,
allo stadio cioè della
seconda cottura. Illustro
verrà poi applicato a spese
comuni, sottolineando con ciò la
particolare difficoltà e i
rischi
dell'operazione.
I dati a nostra
disposizione raccontano
dunque non la storia di un maestro
famoso che si
trasferisce a Gubbio
dietro promesse e
lusinghe, ma quella di un
artefice senz'altro
dotato e intraprendente, forse
con precedenti esperienze
lombarde di applicazione del lustro,
che ha comunque trovato tale
tecnica già in uso sul posto
e che la perfeziona,
elaborando modelli
decorativi adeguati.
In seguito, la sua
carriera è davvero
folgorante. Dopo aver ottenuto
la cittadinanza, nel 1499
acquista casa e
bottega nel quartiere
di Sant'Andrea e appare sempre più immerso nel
lavoro. Subentra
gradualmente a Giacomo
nelle commissioni per il
convento di San Pietro e
dopo la morte di
questi, avvenuta
attorno al 1518, diventa
senz'altro il maiolicaro
più importante di Gubbio, e
l'unico la cui fama travalicava i confini
della città. I fratelli lavorano
presso di lui, Salimbene fino
alla morte, avvenuta forse
nel 1523, Giovanni fino
al'21, anno in cui si divide
economicamente dai
fratelli e si fa liquidare la
sua parte. Un documento del
1517 attesta comunque
che Giorgio usava
esclusivamente il proprio
nome anche quando agiva
per conto dei fratelli, col loro
beneplacito.
Questo spiega perché, anche dietro
le maioliche datate dal 1518 al
1522, periodo in cui essi
lavoravano insieme, troviamo soltanto la
sua firma, o per esteso o sotto forma
di sigla (20).
A partire dal 1523 compare
il cognome Andreoli, che
non trova ancora una spiegazione
soddisfacente, a meno che,
come ipotizzava il Mazzatinti, non
si trattasse di una
denominazione tratta dal
quartiere nel quale
i fratelli risiedevano (21). Da
quell'anno in poi esso viene
usato con una certa
frequenza nei documenti
d'archivio, i quali ci
consentono di seguire
passo passo la carriera di Giorgio (22),
il suo progressivo
arricchirsi, gli affari cui
regolarmente si dedicava: ai
pagamenti effettuati dagli
acquirenti, in particolare
da parte del convento di
San Pietro, il cui archivio ci
è pervenuto, si affianca la
menzione dei prestiti
fatti, dei poderi da lui dati in
affitto, delle
terre
acquistate. Nel 1525 diviene
anche consigliere comunale per
il quartiere di
Sant'Andrea, dimostrando
così di essere ormai un cittadino
eminente. Misteriosa rimane
invece la personalità di
Giacomo, che pure dovette
essere preminente, e la sua produzione
quasi totalmente non
identificata. Non è possibile
risalire ai piattelli e tazze "de
mayolicha", ovvero a lustro, da lui
forniti nel 1498 per la foresteria del
monastero olivetano di San
Benedetto, né ad alcun esemplare
della produzione comune eseguita
con Giorgio e i suoi fratelli a seguito
dei contratti del 1495 e 1501. Ci
sembra pero di poter leggere la
sua firma sul retro di un
piatto del Louvre con
una scena di caccia desunta da
un'incisione con il ratto di
Ganimede del Maestro IB
dall'Uccello (scheda n. 3).
Al centro del piatto sono
raffigurati, su sfondo di
paesaggio, due cacciatori nudi di cui uno
tiene un cane al
guinzaglio e l'altro,
visto di schiena, porta una
lepre sulla spalla.
Tutt'attorno alla tesa
corre un giro di trofei d'arme. Il
disegno è delineato in blu, e i
colori sono rialzati
da lustro dorato e rossastro.
La firma non è del tutto
chiara, ma è nel
complesso leggibile, e lo stile
del piatto, con la sua
commistione di elementi
umbri e marchigiani,
perfettamente compatibile con
quella che
doveva essere la
produzione eugubina nel secondo
decennio del secolo. Pur
avendo presumibilmente attinto
illustro da Deruta,
infatti, l'appartenenza di Gubbio al
ducato di Urbino fa sì che si manifesti
assai presto un legame
stilistico con la maiolica di
Casteldurante e, in un secondo tempo,
con quella di Urbino.
Già agli inizi del
Cinquecento i vasai di Casteldurante,
l'attuale Urbania, utilizzavano
con maestria i trofei d'arme cari al
Rinascimento e le grottesche, entro
le quali si avvolgevano
putti, animali, satiri ed altre
mostruosità (23). La preminenza
culturale della vicina corte di
Urbino, gli artisti e gli artigiani
chiamati a decorare i
palazzi e le chiese
contribuivano senz'altro a estendere
alle arti applicate quel repertorio
figurativo ispirato
all'antico che,
pian
piano, andava sostituendo
quello gotico ed entrava nell'uso
comune. È famoso il
vasaio durantino Zoan
Maria, che firma nel 1508
una coppa con gli emblemi di
Giulio II circondati da una
grottesca particolarmente
elaborata, che comprende putti,
satiri, uccelli, collane, trofei
e racemi decorati (24). Questa
coppa rappresenta il culmine
di una serie numerosissima di oggetti
con decorazioni analoghe, eseguiti da altri
artefici ma di tipologia
affine, che mostrano una
straordinaria disinvoltura nel
trattare i temi rinascimentali (25). Lo
stesso genere costituisce anche la
maggior parte della
produzione di Giorgio fin
verso gli anni venti: vi
appartengono il piattello
datato 1515 del Victoria
and Albert Museum di
Londra (26), che è la
prima opera attribuibile con
sicurezza alla sua
bottega, e il piattello qui
esposto datato 1519, con
iscrizione, grottesca e
testina angelica
(scheda n. 4). Vi
appartengono
anche, più elaborati, il piatto con lo stemma Aldobrandini del Museo
Civico Medievale di Arezzo (1518; vedi fig.1) e quello
anch'esso stemmato dell'Hermitage di San Pietroburgo (27), la cui
grottesca, dominata dalle grandi
figure di putti, richiama nel suo
schema quella di Zoan Maria.
Vi è dunque in
questo periodo un legame stretto con
Casteldurante, al punto da ripeterne a
lustro le tipologie.
La stessa cosa avviene per
l'istoriato (28),
termine che indica l'esecuzione, sulla
superficie maiolicata, di
vere e proprie storie,
desunte da disegni o da stampe,
tramite l'uso di spolveri.
Sul retro talvolta viene scritto
l'argomento, il significato cioè della
scena, .che altrimenti potrebbe
riuscire ostica, e più
raramente la fonte da cui è
tratta. L'argomento è generalmente scritto dallo
stesso che ha dipinto la
scena, o da qualcuno all'interno della bottega rinomato per la
sua scrittura. Capita infatti
che opere eseguite da mani diverse rechino poi sul
retro la stessa
calligrafia. Il pigmento usato è
quasi
sempre il blu, che dà la
massima garanzia di leggibilità, più raramente il
giallo, se la scritta è breve e si limita
alla data e alla enunciazione del luogo (29).
Qualora l'oggetto venga
sottoposto alla terza cottura e
all'applicazione del lustro, è
frequente l'aggiunta della
data e della sigla di bottega in oro o rosso, o
magari in entrambe le tonalità. La
sigla è costituita dal nome di Giorgio, o
sotto forma di iniziale o per
esteso, preceduto dalla qualifica di
maestro, talvolta seguito dalla
precisazione "in ugubio".
L'abitudine di contrassegnare i propri
pezzi e, spesso, di
datarli è comunissima presso gli
Andreoli soltanto dopo il
1515. Non è raro che la data a
lustro sia posteriore alla data in blu
inserita nella decorazione
principale, e questo
indica che il pezzo è rimasto
per qualche tempo a giacere nella
bottega, prima della
terza
cottura (30),
L'istoriato è documentato a
Casteldurante e a Gubbio in date
precoci, quando ancora la
maiolica urbinate quasi non
compare se non per una produzione poco
importante e non figurativa,
come indicano i dati di scavo
(31).
A Urbino l'istoriato
si afferma soltanto dopo il 1520,
in coincidenza forse con il
definitivo
insediamento della
corte roveresca nella capitale
del ducato. A
Casteldurante e a Gubbio, al
contrario, esso è già presente
nel corso del secondo decennio. Al di
là di un repertorio molto
spesso opinabile che gli viene
tradizionalmente attribuito,
Zoan Maria di Casteldurante è sicuramente
l'autore di una coppa in
collezione privata con la
scena fantastica di un tritone che reca
sul dorso un fanciullo (32),
stilisticamente così
vicina a quella già citata
del 1508 da non
potersene
discostare neppure come
data, e che
rappresenta uno splendido
e precoce esempio di
istoriato durantino.
Qualche tempo dopo
abbiamo notizia di un
istoriato a lustro datato
1515, menzionato
nell'elenco di opere
di Giorgio redatto
dall'abate Carli. Si tratta di un
piattello con tesa a
grottesche recante
nel cavo la storia di
Abramo e Isacco,
fra i cui colori risultano
anche il rosso e il giallo "a
oro"(33). Il piattello, la cui
collocazione attuale non ci è nota,
si trovava un tempo in casa
Piccini a Gubbio, compare in
tutti gli elenchi più
antichi di opere di Giorgio,
ed è possibile seguirne le
tracce fino alla collezione
Bernal, dispersa nel 1855. Se ad
esso aggiungiamo il piatto con la
scena di caccia attribuibile a Maestro Giacomo
di cui sopra, bisogna
concludere che la grande
stagione
cinquecentesca
dell'istoriato
marchigiano ha i suoi inizi
a Casteldurante e a Gubbio. In più,
Gubbio aggiunge il lustro che
richiede, come abbiamo
visto, una terza
cottura a fuoco più basso, e
aumenta il rischio per
l'integrità del pezzo, anche se
il risultato è più ricco e
appariscente.
Poiché illustro si applica sulla maiolica già decorata e cotta (i "lavori forniti" del Piccolpasso (34), e ne costituisce il tocco finale, è tecnicamente possibile
che la bottega di Maestro Giorgio operasse su maioliche decorate altrove, e a lui fatte pervenire per quest'ultima aggiunta. Così si è sempre creduto che vi sia stato uno scambio di oggetti, oltre che di artefici, fra Gubbio e gli altri centri del ducato, e che accanto alla produzione propria Giorgio svolgesse una attività collaterale volta all'esclusiva applicazione del lustro.
In passato, vi fu in proposito una querelle che movimentò notevolmente la storia della ceramica nella prima metà del nostro secolo (35), e portò molti a concludere, con il Ballardini, che quella di Gubbio era una bottega "accessoria", che si dedicava principalmente ad applicare il lustro sulle maioliche altrui. Queste, una volta decorate e cotte, e con le zone destinate al lustro lasciate prive di colore o campite col giallo, sarebbero poi state mandate a Gubbio e sottoposte all'ultima cottura. Non era forse scritto, dietro un piatto del 1532 nel Museo Medievale di Bologna attribuito a Nicola da Urbino (fig. 11 ), che Maestro Giorgio lo aveva "finito" con il lustro, significando che il suo intervento si era limitato all'ultima fase ? (36) E illustro di Gubbio non figurava forse su piatti posteriori al '30 firmati dall'Avelli "in Urbino"? Come spesso avviene fra gli studiosi, la polemica assunse toni feroci, mentre ognuno tendeva a radicalizzare la propria opinione (37). Eppure era stato pubblicato già dal Mazzatinti il contratto di Giorgio con Giovanni Luca da Casteldurante, che nel 1525 vincolava quest'ultimo a dipingere vasi nella sua bottega e a risiedere a Gubbio per almeno un anno, e dove veniva specificamente menzionata la decorazione istoriata (38).
In realtà, per tutto il terzo decennio del secolo non vi è motivo di supporre trasferimenti di maioliche a Gubbio per esservi lustrate, né che le maioliche a lustro eseguite in quel periodo provengano, per la loro prima fase, da altre botteghe e non da quella di Giorgio. Anzi, vi sono precise indicazioni del contrario. Per i cinque anni successivi al piatto con Abramo e Isacco non ci sono noti altri esempi di istoriati eugubini ma, a partire dal 1520, inizia una sequenza ininterrotta che, essendo quasi sempre datata, è possibile seguire attraverso le illustrazioni nel Corpus del Ballardini, dove spicca per continuità e coerenza. Essa viene aperta da un'opera emblematica, il piatto del Petit Palais di Parigi con il Giudizio di Paride, proveniente dalla collezione dei fratelli Dutuit (scheda n. 5). L'eccezionalità di quest'opera non deriva tanto dalla qualità molto alta della raffigurazione, con le sue grandi figure immote e finemente chiaroscurate e lo splendore del lustro, quanto dal fatto che, sul retro, la firma di Maestro Giorgio non è eseguita col lustro, come di solito avviene, bensì col blu di cobalto. Il piatto è dunque la dimostrazione di quanto emerge con evidenza dalla documentazione d'archivio, e cioè che nella bottega di Giorgio venivano eseguiti per intero istoriati di alto livello, e non solo lustrati. La firma è stata infatti tracciata non a terzo fuoco, ma contestualmente alle figure, e cotta in seconda cottura. Non si capirebbe l'importanza di questa constatazione senza vederla alla luce della querelle di cui sopra. Così il piatto Dutuit venne guardato con sospetto, e Ioseph Chompret, nel suo Répertoire, pur di non ammettere l'esecuzione eugubina di un istoriato così raffinato volle vedervi addirittura la firma - ricordo che Giorgio avrebbe apposto per caso su un piatto in lavorazione mentre visitava una bottega di Urbino (39).
Ma questi sono atteggiamenti del passato, e viene ormai generalmente accettato che il Giudizio di Paride Dutuit sia stato interamente eseguito nella bottega degli Andreoli e, come lui, le opere attribuibili allo stesso pittore, la cui identità anagrafica non è possibile determinare, visto che la firma di Giorgio aveva valore di sigla di bottega, mentre quella stilistica è nel complesso riconoscibile. Il suo possibile repertorio non va oltre il 1528, e
questo sembrerebbe escludere che si tratti del maestro in persona, e indicare piuttosto una collaborazione esterna limitata nel tempo (40).
Particolarmente vicini al piatto
Dutuit sono
l'Ercole
che strozza Anteo della
National Gallery of Art di
Washington (41) e i due piattelli
ormai perduti un tempo nello
Schlossmuseum di Berlino
con le Storie di Mitra
e di Peleo e
Teti, datati
anch'essi 1520 (42). Vi sono
poi un servizio con uno stemma
troncato che reca un porcospino in capo
(Martini Ricci di Siena?) (43), e un
altro contrassegnato da uno
stemma ugualmente di
incerta identificazione entro cui
spiccano una stella e un
crescente
(fig.2)(44) entrambi datati 1522.
L'esemplare più tardo ci sembra
essere il piatto del Museo di
Torgiano con Satira e
Bacca fanciullo,
datato 1528 (fig.3). Notevolmente affine è
anche il cosiddetto Pittore
del sepolcro di Sant'Ubaldo, così
chiamato da una serie di piatti con
questa raffigurazione (45), forse
autore del piatto con San
Girolamo del Museo
Civico Medievale di Pesaro
(scheda n. 6). Il Rackham includeva
nell'elenco un gruppo di opere
datate 1525, facenti capo
al famoso tondo con le Tre
Grazie del Victoria and
Albert Museum (fig.4), fra cui
l'Allegoria
dell'invidia
dello stesso museo, il Bagno
delle ninfe
della Wallace Collection
(fig.5). Aggiungeva poi
il piatto Pringsheim con Ercole e
Nesso, e quello del
British Museum con un Dio
fluviale, datato 1524
(46). L'attribuzione di
quest'ultimo gruppo è attualmente
meno condivisa, e il Wilson
riscontra maggiori affinità con lo
stile del Monogrammista FR, con ogni
probabilità l'Avelli
nella sua prima fase (47). Il fatto però
che esso derivi
direttamente da stampe
evolute come quelle del Raimondi o del
Robetta potrebbe avere
influenzato notevolmente
l'esecuzione, rendendola
meno riconoscibile.
Il Pittore del Giudizio di
Paride è di buon livello,
sensibile ai colori e
ai trapassi chiaroscurali, con un
gusto quasi monumentale per le
figure, che campeggiano sullo sfondo di un paesaggio
delicatamente lumeggiato. Il
lustro non si sovrappone alla pittura, ma
occupa larghe zone
lasciate libere
appositamente, con effetti preziosi. È
evidente che chi ha dipinto la scena
l'ha destinata fin dall'inizio a
questo arricchimento, che
ne fa parte integrale, e
questo sembra indicare uno
stretto contatto col lustratore, e depone a
favore di un'unica bottega.
È possibile dare un
nome all'artefice?
Giovanni
Luca da Casteldurante
è, come abbiamo visto,
documentato nella
bottega di Giorgio soltanto nel 1525. È
dunque immediato il
collegamento con le opere datate allo
stesso anno, cioè con il
gruppo legato alle Tre
Grazie. Se, come credeva il
Rackham, dobbiamo considerare
queste ultime della
stessa mano del piatto Dutuit,
nulla ci vieta di supporre una
precedente collaborazione il
cui contratto non ci è pervenuto.
Se invece manteniamo separati i due gruppi,
si può pensare a Paolo da
Urbino, pittore in rapporto con Giorgio
fin dal 1508 (48). Ma vi saranno stati
altri di cui non ci sono
pervenute notizie, e in mancanza di
firme o riferimenti precisi è meglio
non pronunciarsi.
Accanto agli istoriati, i trofei e le grottesche, utilizzati separatamente o in combinazione, dominano la produzione fin verso il 1524-'25. A trofei è decorato, ad esempio, un servizio famoso datato 1524 e '25 recante sul retro un segno di proprietà entro cui è tracciata la lettera S. Ne fanno parte anche piatti istoriati, fra cui quello con cavaliere del British Museum di Londra (scheda n. 8). Successivamente la presenza di questi due tipici ornati si attenua, per riprendere vigore nei primi anni trenta, su una serie di piatti con al centro busti maschili o femminili di raffinata fattura spesso accompagnati dal cartiglio col nome (v. scheda n. 25). A partire dal 1525 è invece particolarmente in auge un motivo a palmette classiche, che si ritrova
anch'esso in servizi importanti, come il Saracinelli di Orvieto (fig. 6) e il Vitelli - Della Staffa di Città di Castello (1527; fig. 7). Oltre all'araldica, al centro degli innumerevoli piatti e piattelli vengono spesso effigiati putti in vari atteggiamenti: mentre giocano a palla, tirano d'arco, cavalcano bastoncini di legno o mimano, bendati e legati, il neoplatonico Anteros sconfitto da Eros. È possibile che fossero la tori di significati simbolici e alchemici (ludus puerorum], oltre a costituire un ornato piacevole e vario.
Per gli istoriati
continua, anche dopo il
1530, la collaborazione con
i maestri di Urbino. Dal 1531
al 1536 circa è presente a
Gubbio Francesco Urbini che,
come indica il nome, veniva dalla
capitale del ducator
La sua formazione traspare
dallo stile, piuttosto
vicino a quello di
Francesco Xanto Avelli, con
cui ha in comune le fonti
grafiche,
ricorrendo egli alle
stesse stampe e addirittura alle
medesime figure.
Dall' Avelli deriva
anche l'abitudine di
mettere
l'argomento, cioè
la spiegazione, e la
data dietro i piatti
istoriati. Di questo
maestro, che pare abbia
operato anche come
decoratore di coppe a
rilievo, ha parlato
esaurientemente il
Mallet in un suo saggio
del 1979 (49), e ne ha tentato un
repertorio. Le opere
assimila bili alla sua
maniera datate fra il 1531
e il 1536 sono tutte,
tranne una, completate
dal lustro e
presumibilmente
eseguite a Gubbio (50).
Per almeno due di esse
la cosa è certa, avendo egli
scritto in blu, dopo
l'argomento, il nome della
città. Si tratta del piatto del
Boymans-van Beuningen di
Rotterdam con la
Nascita di
Esculapio,
datato 1534 (fig. 8), e di
quello della Galleria
Doria Pamphili di Roma, qui
esposto (scheda n. 18), col
Ratto di Europa,
dello stesso anno.
Per essi vale quanto
detto a proposito del
piatto Dutuit, e cioè che
la scritta in blu è la
dimostrazione
dell'esecuzione
interamente eugubina
della decorazione. Anche il piatto
con Enea alle
foci del Tevere,
datato 1533 (scheda n. 17) è
tipico della maniera di
Francesco, non
particolarmente raffinata
ma efficace, con le
figurette rigide dai
profili alla greca e dai
ciuffi di capelli spinti in
avanti. Nel 1537 troviamo
Francesco a Deruta,
dove continua la sua
attività e firma un
famoso piatto nel
Victoria and Albert
di Londra,
stranamente non
lustrato, con
Storie di Apollo
(51) aprendo forse la
strada a un grande
maestro derutese di
istoriati, Giacomo Mancini
detto il Frate.
Se è certo il soggiorno di Francesco Urbini a Gubbio, sono però ancora irrisolte le relazioni di Giorgio con altri ben più famosi maestri urbinati, alcuni dei quali sottopongono al lustro le loro opere. Nel terzo decennio del secolo la capitale del ducato, Urbino, diventa un centro di primaria importanza per l'istoriato. Le sue botteghe producevano ogni tipo di maioliche, comprese quelle di uso comune con decorazioni di scarso pregio o addirittura non decorate (52). Tuttavia è l'istoriato la specialità del luogo, e qui risiedono i pittori più famosi e abili nel dipingere scene complesse su piatti, vasi, bottiglie. Dopo la morte di Leone X (1521) Francesco Maria della Rovere aveva recuperato quasi tutto il suo territorio, e da Adriano VI aveva ottenuto, due anni dopo, l'investitura del ducato. Urbino divenne così sede della corte, e questo probabilmente favorì una produzione d'élite qual'era quella istoriata. Alcuni maestri venivano da Casteldurante, poichè Urbino costituiva ormai un polo d'attrazione e il luogo ideale per intrecciare relazioni e ottenere committenze importanti. È questo il caso del più importante padrone di bottega dell'epoca, Guido di Nicolò Schippe detto Durantino dalla città di origine della sua famiglia (53). La sua lunghissima carriera (muore dopo il 1576) si svolge tutta a Urbino, benchè mantenga a lungo l'appellativo di origine. Solo a partire dal 1553 assume infatti il cognome Fontana, che trasmette ai figli. Si hanno sue notizie nei documenti fino dal 1519, data in cui egli si lega con solenne promessa di matrimonio a Giovanna di Bernardino
Vici, e già allora è definito
"habitatorem Urbini". Dal 1527
viene chiamato maestro,
termine che forse indica la gestione
di una bottega propria, e nel '28 il
grande Nicola di Gabriele
dipinge presso di lui il piatto
col Martirio di Santa
Cecilia,
attualmente al museo
del Bargello (54) La sua
produzione doveva essere cospicua già nel
corso degli anni venti,
tuttavia le prime opere che ci è possibile
attribuire con sicurezza alla
sua bottega datano al 1535.
Si tratta di due importanti
servizi eseguiti per
committenti
francesi,
il Connestabile Anne di
Montmorency e il Cardinale Duprat (55), che
attestano come la fama di Guido
fosse internazionale.
Anche per lui, come
per Giorgio, non è
possibile dire se dipingesse
personalmente o meno. Può
darsi che si limitasse ad
assumere pittori a seconda
delle necessità, e che la
sua attività riguardasse la forma
tura o la foggiatura, i forni e
gli smalti, o la
semplice gestione. Può
darsi invece che fosse un valido
pittore, ma senza alcun
interesse a
distinguere la propria opera
personale da quella degli
altri, purchè fosse menzionata
la bottega. Come per Giorgio,
così per Guido il
que
sito è
irresolubile, anche se
non sembra di poter
riconoscere, nel lungo arco di attività
della sua bottega, una
personalità la cui
presenza appaia costante. Nel
caso dei due servizi citati, si
discute se siano stati dipinti
dalla stessa mano o se più
persone vi siano intervenute. È
probabile che almeno parte delle forme
aperte, stilisticamente
omogenea, appartenga allo
stesso pittore,
caratterizzato da un tratto poco
incisivo, nel
complesso debole ma con improvvise
durezze, che ripete
le sue figurette dolci,
dai visi ovali e dai nasi
diritti, sullo sfondo di paesaggi
lacustri e montuosi o di
architetture
classiche dalle comici
fortemente sottolineate.
Questi caratteri
sono diffusi in tutta la
maiolica urbinate
dell'epoca, ma ognuno li
interpreta a suo modo.
Lo
stesso Nicola di Gabriele li condivide, con
ben altra forza. In questo rapporto fra una pittura
debole e una più incisiva ed
esperta che tuttavia
utilizza gli stessi
stilemi, il Rackham trovava
conferma alla sua convinzione,
poi rivelatasi
infondata, che Nicola
fosse il padre di Guid0 (56).
Si trattava invece di un collega, con una propria bottega e una competenza pittorica quasi insuperata (57). Nicola eseguì servizi per nobili famiglie, e per la stessa marchesa Isabella Gonzaga, figlia del duca d'Este e suocera del duca di Urbino (58). Morì nel 1538, e la sua vedova affittò la bottega per tre anni a Vincenzo di Giorgio Andreoli, che in quel periodo aveva lasciato il padre e abitava a Urbino (59). Non sappiamo con certezza se Vincenzo installasse, nella bottega che fu di Nicola, il forno a muffola necessario per il lustro, ma ci sembra probabile. Con la concorrenza formidabile che avrebbe dovuto fronteggiare a Urbino nel campo della maiolica, ciò che poteva distinguerlo e arricchirlo era proprio la padronanza in una tecnica che nessun altro era in grado di applicare. Così, dopo la morte di Nicola, è forse presente in Urbino una succursale della bottega di Giorgio, che può fornire lo stesso servizio a più breve distanza. Negli anni precedenti il 1538 Vincenzo appare invece più legato alla bottega patema. Il suo nome compare in documenti eugubini (60), e ancora nel 1537 una coppa dell'Hermitage con il busto di Camilla Bella (61) (fig.9) reca sul retro la "N" (ritenuta il monogramma delle lettere "VIN") associata alle iniziali del padre, presso cui evidentemente lavorava.
I più noti servizi di Guido, dai due francesi già menzionati a quello dedicato al vescovo Nordio non recano tracce di lustro, ma si attengono a una ricca poli cromi a basata sui toni del blu, del verde e del giallo-arancio, di eccezionale brillantezza. Vi è tuttavia un gruppo di opere databili tra il 1524 e il 1527 che sembra condividere i caratteri stilistici di questi servizi ma che è a lustro, col contrassegno delle iniziali di Giorgio. Di questo gruppo fa
parte il piatto qui esposto (scheda n.11) con le
Storie di Fetonte,
proprietà del Comune di Gubbio, datato 1527. Esso fu in passato attribuito a
Nicola, ma poiché vi manca l'eccezionale perizia del grande artefice,
malgrado alcuni manierismi comuni nel modo di tracciare le fisionomie, denota in realtà
quel linguaggio più divulgativo che abbiamo visto nel pittore attivo,
attorno al 1535, presso Guido. Anche gli altri oggetti del gruppo (62), fra cui
ricorderemo per la strettissima analogia due piattelli anch'essi datati 1527 nel
Royal Scottish Museum di Edimburgo (63), con scene mitologiche e identica distribuzione
decorativa, sono per lo più attribuiti alla bottega di Guido, dato l'evidente legame
stilistico con i due servizi francesi.
Resta da domandarsi, visti i frequenti spostamenti che
caratterizzano la vita dei pittori di maioliche e la non eccessiva
distanza, oltre al legame politico, che intercorreva fra i due
centri, se l'intero gruppo che fa capo al piatto con Fetonte non sia stato
eseguito a Gubbio da un artista di formazione urbinate, come
avviene nel caso di Francesco Urbini.
Questi avrebbe potuto soggiornare qualche anno
presso Giorgio, quindi, prima del 1535,
ricomparire in Urbino e impiegarsi presso la bottega di Guido. L'attribuzione del
gruppo a quest'ultimo riflette un poco, forse, il vecchio
pregiudizio che può essere riassunto nella dicitura un tempo
riservata alla quasi totalità degli istoriati a lustro: "fatto in Urbino (o
Casteldurante) , lustrato a Gubbio".
Esaminando l'elenco delle opere sicure, quelle cioè che
recano il nome della bottega di Guid0 (64), ci colpisce il fatto che
nessuna sia a lustro. Questo naturalmente non
esclude nulla, ma è comunque un dato da menzionare. Per quel che riguarda le altre
opere, molto numerose, attribuite alla bottega e lustrate, il problema
verte sull'attendibilità
delle attribuzioni, Accettandole, accettiamo insieme
l'invio a Gubbio per l'applicazione del
lustro, come un tempo si riteneva, oppure la
possibilità che gli Andreoli disponessero
assai
presto di una base a Urbino, di cui non è però rimasta traccia
nella documentazione.
Il problema si presenta simile per quel che
riguarda Nicola. Esiste un
repertorio a lui tradizionalmente attribuito, che comprende le cinque opere
firmate, i servizi più famosi, e
numerosi altri esemplari individuati per le analogie stilistiche.
Su questi ultimi è legittimo qualche dubbio,
dal momento che il repertorio non è stato ancora
seriamente riesarninato, e proprio qui
si annidano gli esemplari a lustro. I grandi
servizi, dall'Este-Gonzaga al Calini al
Valenti Gambara, si attengono infatti alla brillante
policromia urbi
nate. Troviamo invece il lustro nella
splendida coppa del Museo Civico di Pesaro con
l'immagine di San Giuda Taddeo
(scheda n. 9), contrassegnata però
soltanto dalla sigla di Maestro Giorgio e dalla data 1525. Certo
l'esecuzione è talmente raffinata da rendere plausibile
l'attribuzione ma, come sempre quando si è
costretti a basarsi
soltanto su assonanze di
stile, si può anche discuterne. Più certa appare invece
l'attribuzione a Nicola di un piatto a lustro con Psiche e Cupido datato 1531
(fig. 10), un tempo nella collezione Courtauld. Oltre all'analogia
stilistica molto stretta, vi appare sul
retro la bellissima calligrafia tipica del pittore urbinate. Vi è poi un piatto in collezione privata con
l'insolito soggetto del Conte Ugolino,
anch'esso datato 1531 (65) particolarmente vicino all'esemplare del
Museo Civico Medievale di Bologna con la Presentazione della Vergine al
tempio, datato 1532 (fig. 11 ), anch'esso tradizionalmente attribuito a Nicola.
Lo stile del pittore appare ormai un po' cambiato, per un'evoluzione che lo porta ad
avvicinarsi alla maniera meno raffinata dell' Avelli, col quale avrebbe
collaborato nel servizio Gonzaga-Paleologo (66). Per inciso, la
scritta sul retro del piatto di
Bologna, "MoGo fini de majolica", viene da sempre utilizzata come
dimostrazione che l'intervento di Giorgio si limitava alla finitura del lustro. Il fatto stesso che Vincenzo affittasse la bottega di Nicola potrebbe però indicare tutta una serie di relazioni intercorse prima della morte del maestro.
Se, nel caso di Nicola e Guido, i rapporti con
Gubbio si prestano a una problematica ancora da approfondire, più
spiccata è senz'altro la propensione al lustro di un
altro grande maestro di
istoriati, Francesco Xanto Avelli, e di tutto un gruppo di
pittori che gravitano attorno a lui. L'Avelli è fra
i più noti decoratori della maiolica italiana. Nativo di Rovigo,
nel Veneto, la sua attività si svolge
però nel ducato di Urbino, per una produzione che appare
interamente dedicata
all'istoriato. Un documento del 1530 ci rivela che il
suo vero nome era Santi o Santini (67).
Probabilmente egli lo rese più aulico modificandolo in Xanto e
aggiungendovi Avelli quando la
sua carriera cominciò a decollare sotto gli auspici
del duca. Lo stesso documento lo mostra anche come libero
professionista della decorazione, che
passava da un datore di lavoro
all'altro. È dubbio se in
seguito abbia acquistato una propria
bottega, poiché non la menziona
mai, pur apponendo di frequente la propria
firma. Inoltre, nel 1541, su un piatto
illustrato con un'impresa di Carlo V
specifica di averlo
eseguito nella bottega di Francesco di
Silvano (68). Si può quindi pensare che
abbia sempre sfruttato la
sua eccezionale abilità al servizio di altri.
A partire dal 1530 risulta
residente in Urbino, dove appare
legato al duca Francesco Maria
della Rovere, in onore del
quale scrive anche un'opera in
versi, Il Rovere
Vittorioso. Le ultime
notizie che si hanno di lui non oltrepassano l'anno
1542 (69), dopodichè scompare
dal panorama della maiolica. Gli anni precedenti il
1530 sono stati oggetto di
innumerevoli discussioni (70)",
poiché Francesco non utilizza
ancora, come farà in
seguito, il proprio nome per
esteso, condannando quindi le
attribuzioni ad un margine di incertezza. C'è ormai
comunque un generale
consenso a considerare
come opera sua gli istoriati
siglati con uno svolazzo
conclusivo, che somiglia alla
lettera "ypsilon" o alla
"phi" greca. Questo
segno, che ha fruttato
all'autore il soprannome di
"Maestro
dell'ypsilon-phi", è stato
variamente interpretato, e mai in
maniera convincente.
Secondo il Mallet si tratterebbe di uno
svolazzo qualunque, una
specie di riempitivo (71),
mentre per il Rasmussen si
tratterebbe di una "C"
paraffata, e starebbe per
"etcetera (72).
Talvolta esso
ricompare anche dopo il '30,
accanto alla firma dell'Avelli
(73), e viene quindi riconosciuto come
un suo contrassegno.
Per quel che riguarda i rapporti dell' Avelli con Gubbio, essi sono indiscutibili già in questa fase precoce. Alcuni oggetti datati 1528 - il tagliere con Pico, Circe e Canente del Museo di Palazzo dei Consoli qui esposto (scheda n. 13), la coppa con Ercole e Dejanira del Museo Civico di Arezzo (fig.12), il piatto con Cupido, Leda e il cigno del Petit Palais di Parigi 74, la coppa con Ino e Atamante del Kunsthistorisches Museum di Vienna, il piatto con scene amorose della collezione Olsen di Copenaghen - recano la scritta "M" Giorgio da Ugubio", seguita dall' "Ypsilon-fi'?'. Nel 1529 la stessa scritta compare su altri istoriati dell' Avelli, fra cui la coppa del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza con Isacco, Esau e Giacobbe (scheda n. 15), nella quale il lustro è di eccezionale splendore e occupa zone ben delimitate. Non è noto l'anno esatto in cui l'artista rodigino si stabilì a Urbino. A partire dal 1530 egli sembra risiedervi stabilmente, ma anche nel periodo immediatamente precedente doveva trovarsi nel ducato, poiché elabora una maniera pittorica e una gamma cromatica in sintonia con quelle dei pittori urbinati e durantini. Ci sembra probabile che in questa fase egli si spostasse da un centro all'altro, e che attorno al 1528-29 frequentasse la bottega di Giorgio. Il fatto che ancora nel 1530 esercitasse la professione al
soldo dell'uno e dell'altro, senza una propria bottega, facilita l'ipotesi di un suo soggiorno a Gubbio, come già era avvenuto per Giovanni Luca da Casteldurante. Anche in seguito Francesco è il pittore che più degli altri ricorre con continuità all'applicazione del lustro, e questo sembra indicare un'abitudine e dei rapporti amichevoli con gli Andreoli, che permangono quando ormai ha fatto di Urbino la propria sede fissa. Nel 1531 egli firma piatti istoriati sui quali specifica che sono stati eseguiti "in Urbino", e che tuttavia recano il lustro (76). Nel 1532 si aggiunge a lustro la lettera "N" (77), che l'anno precedente aveva fatto la sua prima apparizione su una coppa a rilievo con San Sebastiano dei Civici Musei di Pavia (78). Anche per il 1533, anno in cui la presenza di Vincenzo è documentata a Gubbio, su molte opere urbinati dell' Avelli continua a esserci il suo presunto monogramma (79). In proposito, il Mallet segnalò un curioso particolare, che sugli esemplari firmati dall'Avelli in Urbino dal 1531 al '33 i racemi a lustro sembrano voler coprire intenzionalmente sia la firma che il nome della città, come se Maestro Giorgio, che in precedenza era stato l'unico a siglare le opere dell' Avelli, fosse irritato da questa manifestazione di orgoglio e indipendenza (80). In seguito il fenomeno cessa, forse per la sempre maggiore fama del pittore, e illustro non si sovrappone più alla scritta in blu.
L'Avelli si mostra artefice di qualità particolare, più colto della media dei suoi pari, capace di utilizzare in maniera originale le fonti grafiche cui attinge, combinando le e piegandole ai propri scopi. Ottiene così composizioni originali e altamente efficaci. Attorno a lui ruota tutto un gruppo di pittori che ne condividono in parte le caratteristiche, e attingono alle medesime stampe. Il Mallet li chiamò "compagni e seguaci" dell' Avelli, e anch'essi mostrano la stessa predilezione per illustro. Talvolta sembrano richiamarsi maggiormente ai modi di Nicola, come nel caso del "Milan Marsyas Painter? (81), così denominato convenzionalmente dal Mallet per un piatto da lui dipinto con la Gara fra ApoUo e Marsia, nel Castello Sforzesco di Milano. Il suo periodo di attività, oltre che su basi stilistiche, lo si può desumere dalla data 1535 tracciata a lustro su un frammento con Agenore dormiente, Europa e il toro del Victoria and Albert di Londra, completato a terzo fuoco (82). Profondamente influenzato da Nicola, da cui deriva la maggior parte delle stilizzazioni e la delicatezza del tratto, se ne distingue in quanto i suoi personaggi sono meno vari negli atteggiamenti, ed hanno volti meno espressivi. I paesaggi non hanno la stessa profondità, e persino la scrittura non è cosi accurata. A lui viene attribuito un servizio policromo eseguito probabilmente verso il 1530, contrassegnato da uno stemma con tre crescenti, disposti due in basso e uno in alto. È possibile che si tratti di una variante dello stemma Strozzi, oppure delle famiglie Cosi o Detti (83), o dell'impresa dei Manetti di Firenze (84). Accanto al gruppo con questo stemma ce n'è un secondo nel quale i crescenti sono disposti due sopra e uno sotto, e che è stato dipinto da Francesco Xanto A velli. Si discute se si tratti di un secondo servizio o piuttosto di parte del precedente affidato a un diverso pittore o addirittura a una differente bottega, come capitava talvolta per commissioni di grossa mole. Di certo la somiglianza di colore e di smalto fra i due gruppi è tale che l'esecuzione deve essere avvenuta nello stesso ambito, oltre che nello stesso periodo (85), confermando il legame fra i due pittori.
Del tutto in sintonia con l'Avelli anche sotto il profilo stilistico è invece del Pittore L, un collaboratore di Xanto che compare qualche anno più tardi. Egli sigla con questa lettera alcune opere del 1533, e la sua mano è riconoscibile in alcuni piatti datati 1534 e 35, per lo più a lustro.
Di recente il Wilson, nel pubblicare una targa del 1536 in cui la L appare sviluppata in "LU UR", ha ipotizzato che si tratti di un Luca o Lucio da Urbino (86), la cui maniera negli anni fra il '33 e il '36 non presenta una particolare evoluzione, forse proprio per l'eccessiva subordinazione al suo maestro. In seguito, non è più possibile seguirne il percorso, né rintracciare altre opere a lui ricollegabili. Quanto ai suoi inizi, occorre ricordare che almeno tre opere,
fra cui una famosa coppa a lustro datata 1529 con Giove e Semele nell' Iparrniìdészeti Mùzeum di Budapest recante la scritta "MO Giorgio da Ugubio" (fig.13), pur essendo del tutto nei modi dell' Avelli, sono stranamente siglate in blu "FLR" (87). F R starebbe per Francesco da Rovigo, mentre la L non trova spiegazioni valide, a meno che non si tratti di una curiosa collocazione del contrassegno del nostro pittore, che rispecchierebbe così il suo ruolo di stretto collaboratore del maestro.
Contrariamente a quanto accade per il piatto del 1532 con la Presentazione della Vergine al tempio attribuito a Nicola, nel caso dell' Avelli, come nel caso di L, le opere a lustro di quello stesso anno e successive recano per lo più a terzo fuoco non la sigla di Giorgio, ma la lettera N che, come abbiamo visto, è forse il monogramma di Vincenzo. Poichè però il nome di questi compare ancora in documenti redatti a Gubbio nei due anni successivi, e solo a partire dal 1538 sembra acquisire una bottega a Urbino, le ipotesi sono aperte: si tratta veramente della sua sigla? Aveva l'autorità di apporla, quando ancora si trovava nella bottega paterna, senza affiancarle quella di Giorgio, come avviene invece nella coppa con la Bella di San Pietroburgo (fig.9)? Disponeva egli forse di una base a Urbino prima di affittare quella di Nicola, pur continuando a recarsi spesso a Gubbio, o collaborava con il più anziano maestro, utilizzando la sua bottega per produrre lustri anche quando egli era ancora vivo? Per questi interrogativi non esiste risposta, a meno che non giunga da nuova documentazione di archivio.
Il Maestro del lustro N
fornisce il proprio apporto
anche a un pittore la cui sigla è S
(88). Le due iniziali, la N a
lustro e la S in blu, si intrecciano
curiosamente nel
retro di un piatto con la
raffigurazione del Rapimento di
Ganimede ad opera dell'aquila
di Giove, datato il 1538
(scheda n. 23).
Compaiono invece
separate su una coppa in
collezione privata
(scheda n.24)
eseguita all'incirca
nello stesso
periodo, con la
scena di Tiberio che riceve i
messi della Cappadocia.
Allo stesso pittore
vanno attribuite,
anch'esse a lustro, la
coppa del Petit Palais con
Diana e le figlie di
Niobe, e quella in
collezione privata con
Giuditta. Esaminando questa
che è a nostro avviso la sua
produzione certa, perché
stilisticamente
coerente e, a parte il piatto con
le figlie di Niobe, siglata, è
evidente nel Pittore S una grande
affinità con Nicola, ovvero con il Pittore
del Marsia. Le fisionomie
mostrano stilizzazioni
simili, con i visi a
mandorla, i nasi diritti,
l'espressione
dolce, le membra
forti e le giunture
strette. Lo stesso
avviene per il
paesaggio, dalle basse
montagne azzurre ai cui
piedi si stendono gli edifici di
lontane città, preceduti da
bracci lacustri. Il suolo
è ondulato, le rocce
nerastre, gli alberi
serpentiformi con una
ricca chioma "a
cavolfiore". Tutti questi
elementi sono però
rielaborati in maniera
molto personale e
riconoscibile. Tuttavia, mentre la
somiglianza con le tipologie di
Nicola salta all'occhio
nei primi tre esemplari, nella
coppa con Giuditta il pittore sembra invece
accostarsi maggiormente
all' Avelli. Non si tratta però
di un'esecuzione più
tarda, di una evoluzione che
gradualmente sottrae S a
un influsso per farlo entrare in
un'altra orbita. Il suo
momento più
avelliano infatti
egli lo tocca col Teasel service (89) che reca la stessa data, 1538, della coppa
di Tiberio. Il servizio è suglato, e questo attesta che S ne è l'autore. Se così non fosse, passerebbe
certo per opera dell' A velli. Potrebbe dunque trattarsi di un giovane stretto fra due personalità più forti, che oscilla fra l'una e l'altra prima di trovare la sua via. Come già il servizio Gonzaga-Paleologo, anche questa peculiare situazione stilistica di S testimonia a suo modo gli stretti contatti che devono essere intercorsi tra l'A velli e Nicola negli anni immediatamente precedenti la morte di questi. Parte integrante del sodalizio doveva essere il Maestro N, forse Vincenzo Andreoli. Egli non solo applica illustro sulle figure, ma riempie i retri con ramoscelli l'i curvi schizzati e un po' disordinati, che danno l'impressione di una mano veloce e imprecisa anche se sicura.
Circa l'identità del Pittore S, abbiamo qualche anno fa proposto il nome di Sforza di Marcantonio de Julianis, noto soprattutto per la sua attività pesarese, che data dal 1550 al 1576 circa. Sforza firma appunto con la lettera S, ed era nativo di Casteldurante. Quando si trasferisce a Pesaro, egli vi porta una forte componente urbinate, che fa pensare a una formazione avvenuta in questa città. Il Mallet ipotizzò per primo un suo soggiorno a Urbino, di cui trovò le tracce in una serie di opere datate a partire dal 1544 (90). A noi sembra, individuando il Pittore S, di aver trovato una fase ancora precedente di Sforza. Certo si tratterebbe di una lunga carriera, ma i suoi contemporanei Giorgio Andreoli e Guido Durantino ci offrono per l'appunto esempi di eccezionale longevità anche professionale.
Vincenzo di Giorgio Andreoli acquisisce la cittadinanza urbinate il 13 marzo 1544 (91). Circa le sue relazioni professionali, è interessante notare che il 4 febbraio dello stesso anno, regolando con atto notarile le sue pendenze con il vasaio Giovanpietro di Antonio da Bergamo, ricorre quale testimone a Guido Durantino. Dovevano dunque esservi fra i due rapporti di mutua fiducia se non di amicizia. Ancora nel 1546 troviamo tracce di Vincenzo a Urbino, testimone in un atto del 22 febbraio, nel quale viene definito "incola Urbini", Il 2 febbraio dell'anno successivo però vengono regolati i suoi rapporti col fratello nella gestione della bottega paterna, ed egli appare definitivamente rientrato a Gubbio (92). In coincidenza, illustro sembra esaurirsi lentamente a Urbino. Un esempio tardo è fornito dalla Fabulatriee de baeeho della Wallace Collection di Londra, datata 1543 (fig.15), di un artefice che per lo più non ne fa uso. È sintomatico il fatto che anche il Pittore S vi rinunci nella sua seconda fase di attività, a partire dal'44. È assente dalla produzione dei Fontana, nome che Guido Durantino assume a partire dal 1553 e trasmette ai suoi figli e nipoti, e anche in quella dei Patanazzi. La grande tradizione dell'istoriato urbinate continua per tutta la seconda metà del Cinquecento, ma senza lo scintillìo dei lustri, che sono evidentemente passati di moda.
Nel frattempo, a Gubbio
l'officina Andreoli si
specializza sempre più
in un'unica tipologia, sulla quale
ormai sembra concentrare la maggior
parte della sua produzione: la coppa
su basso piede con decorazioni a
rilievo, su cui si
dispongono radialmente
pigne, infiorescenze,
fiamme, mentre al centro
predominano stemmi,
emblemi e figure di santi
(schede nn. 30-36).
Questa produzione, i cui inizi
si collocano all'incirca
nel 1530 (93) è piuttosto seriale e
ripetitiva, ma non manca di un suo
fascino. Si presta particolarmente a
porre in risalto lo
scintillìo del lustro, ed aveva
probabilmente un grande successo
commerciale.
Nel campo degli istoriati, è ancora da segnalare un piatto con scena di rapimento dell'Herrnitage di San Pietroburgo, datato 1545 (94) che sul retro, circondata da tre gruppi di ramoscelli incurvati a lustro, reca una firma illeggibile, che non è assolutamente quella di Giorgio, ma che può leggersi come "Gileo" (fig. 14). È possibile si tratti del ceramista menzionato negli
elenchi dei membri dell'arte dei vasai per l'anno 1541 (95), il retro del piatto è però ornato nella tipica maniera degli Andreoli. A partire dal 1535 fino al 1586 è documentata anche l'attività di un maestro della famiglia Floris o De Floribus, Vittorio detto "il Prestino", capace di applicare illustro con grande efficacia. La sua opera più famosa è un piatto nella Wallace Collection di Londra con Venere e Cupido, firmato e datato 1557 (fig.16). Può darsi gli appartenga anche la coppa del museo di Palazzo dei Consoli con la Madonna e il Bambino, firmata "P." o il piattello con ornato fitomorfo in collezione privata, che reca la stessa iniziale (v. scheda n. 28). In questo caso anch'egli avrebbe eseguito un genere considerato finora tipico della bottega Andreoli.
Prestino scompare fra il 1586 e il 1588, Vincenzo aveva fatto testamento nel 1576. Questi sembrano essere gli ultimi maestri del lustro a Gubbio, dove non si spegne però l'arte della ceramica, anche se i vasai si indirizzano verso una produzione più semplice, volta al vasellame da farmacia e a quello di uso quotidiano.
l) Per la tecnica del lustro islamico, vedi Caiger Smith 1985, pp. 210-212.
2) Middeldorf 1955, tav.l.
3) Inv. G 619, in Wilson 1987, n.16 p. 31.
4) Per la tecnica
del lustro italiano,
peraltro descritta dal
Piccolpasso con
riferimento
alla bottega di Vincenzo
Andreoli (libro II, cc.
46-50), vedi Busti 1989.
5) Per illustro di Cafaggiolo, vedi Alinari 1991.
6) Per illustro a Faenza, vedi Liverani 1968 e Ravanelli Guidotti 1995.
7) Per illustro a Pesaro, vedi Bettini 1992.
8) Biganti 1987, pp. 214-215.
9) Parigi, Museo del Louvre, inv. OA 1885, in Giacomotti 1974, n.92.
IO) Fiocco - Gherardi 1988, pp. 83-86.
11) Sabelli 1680, p. 223.
12) Fiocco-Gherardi 1996.
13) Vedi ad esempio
l'esemplare
dell'Ashmolean
Museum di Oxford,
proveniente dalla
collezione Fortnum, in
Wilson 1987, n.193.
14) Satolli 1990, p. 239.
15) Di sicuro il padre Pietro viene definito "da Pavia", e nel documento di supplica del 1552 citato più avanti Giorgio chiama sua patria la città lombarda.
16) Vedi commento all'edizione comense di Vitruvio del 152l.
17) Pera li 1923.
18) Vanzolini 1979, pp. 245-246.
19) Biganti 1987, p. 212.
20) Filippini 1942.
21) In un documento del 4 ottobre 1523 è detto " .. .in domo magistri Georgii Petri figuli de Andreolis" (Mazza tinti 1898b, p.58).
22) Per un regesto, sia pure incompleto, dei documenti relativi alla ceramica eugubina, vedi Fiocco-Gherardi 1995, pp. 255-264.
23) Fiocco-Gherardi 1997, pp. 16-18.
24) New York, Metropolitan Museumof art, Lehmann Collection, inv.1975.1.1015, in Rasmussen 1989, n. 62 p. 100.
25) A scopo esemplificativo, vedi Giacomotti 1974, nn. 747-750, 759-770.
26) Inv. C 477-1921, in Rackham 1940a, n. 641.
27) Inv. F 396, in Kube 1976, p. 60.
28) Il termine
risale al XVI
secolo (vedi ad esempio
i termini del contratto fra
Maestro Giorgio e
Giovanni Luca da
Casteldurante
nel
1525), ed è usato anche
nel Piccolpasso.
Vedi libro 1II, c. 57,
paragrafo195: "Molti
sonno che per fare gli
penelli sutili, da dipingiare
gli istoriati,
sogliono
mescholarvi
alchuni peli o
vogliam dire mostachi di
sorci ... ".
29) Come avviene, ad esempio, per le opere dell"'In Casteldurante Painter".
30) Ad esempio, la coppa con il Sepolcro di Sant'Ubaldo del Victoria and Albert di Londra, inv. 476-1921, è datata "1521" nella parte anteriore, e "1522" a lustro in q uello posteriore (Rackham 1940a, n. 670).
31) Giannatiempo Lopez 1997.
32) La coppa un tempo si trovava nella collezione Courtauld, ed è attualmente in collezione privata di Bremen (Rackham 1928-29, p. 92)
33) Il piattello è il n.13 dell'elenco del Cadi (vedi Sannipoli 1989, p. 616) e reca, sul retro, una mano che stringe un'arma, probabilmente un'alabarda, Un altro piattello, infatti, reca sul retro lo stesso emblema e la stessa data, ed è decorato a grottesche (Londra, Victoria and Albert Museum, inv. C.477-1921).
34) Libro II, c. 46 verso. In passato, il termine "forniti" fu interpretato come "forniti da altri". Fu il Guasti a chiarire che significava finiti, cioè già decorati e cotti, secondo l'accezione che la parola aveva nel secolo XVI (Guasti 1902, pp.174-175).
35) Per una sintesi
sull'argomento,
vedi Fiocco-Gherardi
1989, pp. 436-455.
36)
Ballardini 1938, tav.
IV
37) È sintomatico in proposito l'atteggiamento del Ballardini, che nel COI'PUS attribuisce tutti gli esemplari a lustro con grottesche e trofei e la quasi totalità degli istoriati a Urbino o Casteldurante. Il Rackham invece, nel catalogo delle maioliche del Victoria and Albert da lui curato nel 1940, conserva l'attribuzione a Gubbio per gli istoriati del "Pittore di Sant'Ubaldo" e per quello del piatto Dutuit, da lui ritenuto lo stesso delle Tre Grazie.
38) Mazzatinti 1898c, pp. 80-81 ("vasa per eum dipinta recte et storiata ... ").
39) Chompret 1949, I, p.114.
40) Su questo pittore, vedi una sintesi in Fiocco-Gherardi 1995, pp. 35-36.
41) Inv. 1942.9.350, in Wilson 1993, p.169.
42) Ballardini 1933, nn. 89 e 90.
43) Di questo
servizio ci sono noti
tre esemplari: uno nel
Musée national de la
céramique di
Sèvres, con la Nascita di
Adone (inv. 21049, in
Giacomotti 1974, n.
827); uno in
collezione privata di
Torino con due putti
di cui uno in atto di
arrampicarsi su un
albero (Ballardini 1933,
n°110): un terzo nel
Victoria and Albert
Museum, con la Morte di
Piramo e Tisbe
(inv. 788-1855, in Rackham
1940a, n.
671).
44) Oltre all'esemplare
dell'Hermitage qui
riprodotto, un altro
piatto del servizio
con Mercurio, Herse e
Aglaure si trova
nel
Fitzwilliam
Museum di Cambridge
(inv.C. 79-1961, in Poole 1995, n. 296), e un terzo con una giovane donna in atto di ferire un giovane legato si trova
nel Metropolitan Museum of Art di New York (inv. 65.6.10). E' dubbia l'identificazione dello stemma (Turamini di Siena?).
45) Secondo il
Rackharn (1940, I,
p. 225) si
tratterebbe proprio
dello stesso pittore.
Due piatti con questa
raffigurazione,
entrambi datati 1521 sul fronte e 1522
a lustro sul retro, si
trovano
rispettivamente nel
Victoria and Albert Museum
di Londra
tibidem,
II, n. 670) e nel
Metropolitan Museum of
Art di New York,
inv.1975.1.1091,
in Rasmussen 1989,
n.116.
46) Rackham 1940, I, pp. 223-224.
47) Wilson 1993, p.171, p.180.
48) Fiocco-Gherardi
1995, pp. 257 e 260.
Vedi anche Gnoli
1923, p. 236.
49) Mallet 1979, VI, p. 279.
50) Si tratta di una coppa con
Marsia
scorticato da
Apollo, un tempo
nella raccolta
Robert Bak, vedi
ibidem, p. 290
n.l, tav. XCIII.
51) Londra - VA.M. Inv C. 2157-1910.
52) Ermeti 1997, pp.19-63.
53) Per una sintesi sulla figura e l'opera di Guido, compresa la bibliografia preesistente, vedi Mallet 1987.
54) Conti 1971, n.16.
55) Oltre al saggio già citato del Mallet, che in appendice elenca le opere sicure di Guido, tutti gli esemplari noti del servizio Montmorency sono riprodotti in Rasmussen 1989, pp. 258-260.
56) Rackham 1940b, pp.182-188.
57) Negroni 1985.
58) Mallet 1982, pp.175-178.
59) Negroni 1985.
60) Per il 21 ottobre 1533 il nome di Vincenzo compare in pagamenti per forniture al monastero olivetano di San Pietro di Gubbio, e così pure per il 26 settembre 1534 (Menichetti 1987, II, p.157).
61) San Pietroburgo, Museo dell' Ermitage, inv. F 1695.
62) Per un possibile repertorio del pittore, o comunque per un gruppo di oggetti strettamente affini al piatto col Fetonte, vedi Fiocco-Gherardi 1995, p.38 e scheda n. 21 p. 75.
63) Inv. 1877.20.101 e 1877.20.100, in Curnow 1992,1111.68 e 69.
64) Mallet 1987, pp. 296-298.
65) Ceramica Italiana del Rinascimento, 1981, n.102 p. 30.
66) Il servizio, che reca le armi di Federico II Gonzaga e di sua moglie Margherita Paleologo fu fatto in occasione o successivamente al matrimonio, avvenuto nel 1531. Appartiene alla maniera tarda di Nicola, caratterizzata, secondo la definizione del Mallet, da un tratto più sciolto e dall'abitudine di ombreggiare estensivamente le carni in color ruggine (Mallet 1982, p.198). Sembra appartenere allo stesso servizio, recando le stesse armi, anche un piatto con Alessandro e Roxane datato 1533, nelle collezioni del Victoria and Albert Museum di Londra (inv, 1748-1855), eseguito però da Francesco Xanto Avelli.
67) Si tratta di un documento che potremmo definire sindacale del 7 agosto 1530, in cui Nicola di Gabriele, Guido Durantino, Guido Merlini , Giovanni Maria di Mariano e Federico di Giannantonio, venuti a conoscenza che alcuni dipendenti dell'arte avevano pattuito compensi più favorevoli della media, si impegnano a non assumere nessuno di loro a nessun prezzo senza l'assenso degli altri maestri. Fra i dipendenti le cui pretese si intende calmierare c'è Francesco da Rovigo, ovvero l'Avelli che in quel periodo lavorava evidentemente da libero professionista, senza una propria bottega (Negroni 1985, p.18). In un documento del 1531 è poi chiamato "rnro Franc.o Sanctini de Rovigo civi Urbini" (Cioci 1993, p. 45 nota 227).
68) Si tratta di Carlo V alla presa di Goletta, con la scritta sul retro "In Urbino nella / boteg di Francesco / de Siluano/X.", vedi Marryat 1868, pp. 63-64, e Mallet 1971, p.182.
69) Scatassa 1904, p.199.
70) In particolare, vedi Rackham 1957 e Mallet 1971 e 1976.
71) Mallet 1988, pp. 67-69.
72) Rasmussen 1989, p. 130.
73) Cfr. ad esempio
due piatti del
Castello Sforzesco di
Milano, inv. M 142 e M 226,
firmati prima
dell'argomento,
che si conclude con nota
"y", mentre un terzo,
inv. M 217, termina con
"historia
y"(Petruzzellis
Scherer 1980, figg. 8 -
9,11-12,19-20).
74) Inv. Dutuit 1092, in
Join-Dieterle1984, n. 70.
75) In tutti i casi l'''ypsilon fi" è tracciato in blu, come l'argomento, tranne che nella coppa di Arezzo, dove il pigmento è un giallo di tono molto particolare che ci è sempre sembrato, anche a un esame ravvicinato, un tipico esempio di lustro che, a causa della posizione, non ha sviluppato l'iridescenza. Il quesito potrà comunque essere risolto con un'analisi del pigmento.
76) V. ad esempio il
piatto con
Anfiarao ed Erifile
del Musée d'Art et
d'Histoire di
Bruxelles, e quello
con lo stesso
soggetto, più uno con
San Girolamo
e un terzo con La
morte di Cleopatra
dell'Hermitage di
San Pietroburgo).
77) Piatto con Enea ed Anchise, ex Spitzer.
78) Inv. H 45.
79) Vedi ad esempio il piatto con Roma/o, Remo e la lupa, del British Museum di Londra, inv. MLA 1854,2-13,l.
80) Mallet 1988, pp. 68-69.
81) Mallet 1988, pp. 70-73.
82) Mallet 1988, p. 72. Fra esse, il frammento del Victoria and Albert di Londra in Rackham 1940a, n. 733, datato "1535".
83) Borenius 1930, p. 46 n. 40.
84)Rasmussen 1989,
p.126. L'autore
sottolinea come i crescenti
nell'impresa
degli
Strozzi sono
sempre
accompagnati da
fiamme.
85) Rasmussen 1989, p.70.
86) Wilson 1993, p.27
87) Firenze, Museo del Bargello, frammento di piatto con un'immagine di donna e amorino, e la scritta sul retro "Nosse te ipsum", non datato (Conti 1971, n. 41); Londra, British Museum, inv. MLA 1970,12-11, l.
88) Per questo pittore, vedi Fiocco-Gherardi, 1996.
89) Per esso, vedi Wilson 1993, p. 210.
90) Mallet 1988, pp. 82-84.
91) Negroni 1985, p. 20.
92) Mazzatinti 1898b, p. 61. l successivi documenti di archivio relativi alla sua attività lo indicano sempre residente a Gubbio. Negli anni 1555-58 si parla di lui nel manoscritto del Piccolpasso, a carta 46v del II libro, dove viene descritta la tecnica del lustro: "questo ho veduto in ugubio in casa di un m" Cencio di detto luogo".
93) Fiocco-Gherardi 1989, pp. 418-419. Sono datate "1530" una coppa con fiamme e IHS centrale del British Museum di Londra, inv. MLA 1878, 12-30,394, e una con San Sebastiano entro ovali a rilievo e infiorescenze dei Civici Musei del Castello visconteo di Pavia, datata "1531".
94) Inv. F 376. Menichetti 1980, p. 253.