Il libro del dr. Filipponi è, a nostro avviso, fra le più accurate e convincenti opere mai scritte sulla maiolica abruzzese. Ha tolto dall’ombra un personaggio, Aurelio Grue, poco conosciuto e poco studiato. Data la scarsità di opere firmate e di documentazione di archivio,e la conseguente necessità di procedere per via di affinità stilistiche, è straordinario come il corpus che ne consegue sia coerente e motivato nei suoi caratteri e nel suo sviluppo.
E’ anche un merito non da poco l’aver contribuito a decantare l’enorme quantità di attribuzioni concentrate nella figura di Carlo Antonio Grue. Con questo lavoro su Aurelio, dunque, Fernando Filipponi dà una soluzione pressoché definitiva a un problema rimasto in sospeso, definendo la personalità di un’artefice di primo piano nell’ambito della maiolica abruzzese. Fornisce poi lo stimolo a ulteriori ricerche, innanzitutto sugli altri figli di Carlo Antonio .
Molto si sa su Francesco Antonio Saverio, il famoso dr. Grue; poco invece sui fratellastri, a parte naturalmente Aurelio. Isidoro era un ecclesiastico, ma la sua vocazione non esclude che operasse da maiolicaro. Non risulta che sia possibile sapere qualcosa di preciso sulla sua attività, e forse il dr. Filipponi potrà confermarlo oppure no.
Fig. 1, 1a
E’ più documentata la vita di Liborio (1702-1780), sicuramente una personalità di grande interesse e spessore artistico. Collaboratore dei fratelli ad Atri per cinque anni, dal 1726 al 1731, in questa fase probabilmente la sua opera è in parte assorbita nel lavoro comune. Dopo il ritorno a Castelli, dove resterà per dieci anni dal 1731 al 1741, e il definitivo trasferimento a Teramo dal 1741 fino alla morte acquisisce una fisionomia ben riconoscibile. Anch’egli appare legato al padre e alla cultura figurativa barocca, ad esempio nei grandi vasi e nelle coppe con scene bibliche e mitologiche, fra cui spiccano i magnifici esemplari conservati nella collezione Matricardi di Ascoli Piceno. Successivamente Liborio inclina verso uno stile più morbido, in una serie di vasi con divinità marine piuttosto vezzose circondate da amorini.
Liborio non è mai stato studiato a fondo. Trattandosi di un autore importante, di grande capacità, sarebbe auspicabile elaborare per lui un corpus e un percorso stilistico coerente, come già fatto per Aurelio. Forse in futuro il dr. Filipponi deciderà di applicare al fratello la stessa rigorosa analisi documentaria e stilistica che ha dedicato ad Aurelio.
Fig. 2
Fra i pittori di maioliche, sono tanti quelli problematici; si potrebbe quasi dire che sono più i punti interrogativi che le certezze. Ad esempio, per Nicola Cappelletti è dubbio l’intero repertorio di opere a lui attribuite. Non risulta che abbia mai firmato nessuno dei bei paesaggi con grandi alberi nodosi, ruderi classici e sole raggiante che vanno sotto il suo nome. Pare che il motivo dell’attribuzione, peraltro non condivisa da tutti, sia che elementi paesaggistici simili si trovano in opere attribuite al fratello Candeloro, col quale è probabile una collaborazione.
Fig. 3
Ma attenzione, l’unica opera pittorica firmata di Candeloro non ha paesaggio, e quindi gli elementi paesaggistici di cui sopra compaiono su opere che non è poi così certo che gli appartengano.
Fig.4, 4a
Un altro personaggio problematico è a nostro avviso Silvio De Martinis. Il suo repertorio si basa su analogie con due targhe votive che gli apparterrebbero per la testimonianza di una anziana nipote del pittore resa a Concezio Rosa. La signora riferì che il pittore aveva collocato le due targhe nell’altare di sant’Eusanio nella chiesa parrocchiale di Castelli come ex voto, per essere scampato a un naufragio. Se dunque la paternità delle due targhe sembra sicura, la costruzione di un corpus di opere attribuibili al De Martinis resta tutt’altro che semplice, anche per l’inquietante, strettissima vicinanza fra il suo stile e quello di Saverio, figlio del dr. Grue. Al contrario del De Martinis, Saverio sigla di frequente i suoi lavori, e questo consente attribuzioni sicure e lo rende ben riconoscibile. Anche per il De Martinis dunque una attenta analisi del tipo Filipponi sarebbe decisamente auspicabile.
Fig.5, 5a,5b
Ma, al di là di un riesame accurato dei protagonisti, davvero necessario, ci piacerebbe una storia della maiolica di Castelli, e abruzzese in genere, che anziché poggiare sulle varie personalità, le subordinasse a un generale discorso di evoluzione artistica. In questo modo emergerebbero fasi e tendenze comuni che coinvolgono pressoché contemporaneamente tutti i principali artefici.
Tanto per fare un esempio, visto il pochissimo tempo a disposizione, è interessante osservare come,verso la metà del secolo, vi sia una generale inclinazione verso il rococò, e successivamente verso il Luigi XVI. Questo è particolarmente evidente nei pittori nati all’incirca fra il 1720-’30, poco più che ventenni attorno alla metà del secolo. E’ così per Berardino Gentili il giovane, per suo fratello Giacomo detto anche lui il giovane, per Saverio Grue, figlio del dr. Grue. Curiosamente, questa attrazione verso il nuovo stile sembra coesistere senza fratture con modi più tradizionali, che evidentemente riscuotevano ancora il favore del mercato.
Prendiamo ad esempio Berardino: è autore di innumerevoli targhe piuttosto tradizionali, evidentemente molto gradite ai committenti dell’epoca, accanto alle quali si collocano però il piattino con la zingarella della collezione Matricardi, nel quale la figuretta poggia su un supporto rocaille, e le deliziose tazzine della collezione Giacomini, in deposito presso il museo di Castelli, con gli amorini che svolazzano fra riccioli e roccette.
A cosa è dovuto questo nuovo gusto? Evidentemente a contatti con la porcellana, e con l’ambiente artistico napoletano. Tant’è vero che per alcuni si ipotizzano viaggi a Napoli, alcuni documentati, come per Berardino Gentili, e altri no, ma resi comunque probabili dalla personale evoluzione artistica.
Fig. 6, 6a
Oppure, come abbiamo sostenuto in un convegno tenuto nel 2015 ad Ostuni, vi è una figura che fa da tramite. E questa potrebbe essere Saverio Grue, che per tutta la vita fa la spola fra Napoli, Castelli e Atri. Saverio era ben addentro l’ambiente napoletano: attivo come pittore, dall’ottobre 1754 al maggio 1755 nella Real Fabbrica di maioliche di Caserta, dove decorava vasellame “all’uso di Abruzzo”, tenta di uscire dal clichè tradizionale facendo domanda, invano, per entrare a Capodimonte. Gli andò meglio con la Real Fabbrica di Porcellane, la cosiddetta Ferdinandea, dove nel 1772 figurava come pittore, e dove rimase almeno fino al 1781. Alla maniera tradizionale abruzzese, cui restò fedele a lungo, affiancò dunque una sensibilità nuova, vicina a quella della porcellana. Questo è ben visibile nella targa Matricardi, datata 1749, dove il gioco di putti è reso su uno sfondo bianchissimo, davvero porcellanòso. Non è difficile immaginare con quanta attenzione e curiosità si avvicinassero a lui gli altri giovani pittori quasi coetanei, durante i suoi frequenti rientri a Castelli.
Fig. 7, 7a, 7b, 7c, 7d
In seguito, con Gesualdo Fuina, questo rapporto con Napoli e con la porcellana si fa più stretto, facendo pensare a un viaggio e a un soggiorno, anche se non ci sono testimonianze in merito. Non solo egli riprende dalla porcellana ferdinandea il gusto per il decoro floreale e per i soggetti di popolani, contadini e saltimbanchi. Soprattutto, acquisisce il rosa della porpora di Cassio, colore nato per la porcellana, che richiede per sua stessa natura più cotture a piccolo fuoco .
Nei numerosi albarelli invece, ornati di busti femminili, maschili e talvolta grotteschi, rivela un gusto vicino a Francesco Bartolozzi, stampatore reale di Giorgio III d’Inghilterra, e ad Angelica Kauffmann, popolarissimi entrambi nell’ambiente anglofilo napoletano.
Fig.8, 8a
Uno degli aspetti che ci ha maggiormente colpito nel libro del dr. Filipponi è l’analisi che egli dedica al rapporto di Aurelio Grue con le stampe. Non si tratta semplicemente di affiancare, come è prassi comune, alle opere la loro fonte grafica. Il Filipponi individua una sequenza ben precisa, che va di pari passo con l’evoluzione stilistica di Aurelio e forse la influenza. Come abbiamo sentito nella relazione precedente, nella prima fase, fino agli anni ’40, egli utilizza stampe di gusto secentesco, sulla scia del padre Carlo Antonio: scene pastorali di matrice fiamminga, il cui maggior rappresentante era Nicolaes Berchem assieme ai fratelli Visscher; soggetti di animali da Pieter van Laer, soggetti classici e nobili dai Carracci, Ciro Ferri, Pietro da Cortona e altri. Nella seconda fase Aurelio inclina alle stampe del veneziano Marco Ricci, disponibili tramite la famosa stamperia Remondini di Bassano: trasforma quindi il paesaggio pastorale secentesco, introdotto dal padre nella maiolica di Castelli, modernizzandolo con una maggior attenzione agli elementi naturali e atmosferici. Introduce inoltre scene cortesi e grottesche.
Questo rapporto con il Veneto, che per Aurelio ha connotati bassanesi e passa attraverso i prodotti della stamperia Remondini e la conoscenza diretta dei manufatti degli Antonibon, da cui derivano le forme sagomate, andrebbe approfondito anche per altri maiolicari.
Berardino Gentili il giovane si serve ugualmente di stampe venete, nella famosa serie che illustra la parabola del Figliol prodigo. Non si tratta però della stamperia Remondini di Bassano, ma di quella veneziana di Antonio Zatta, editore, cartografo e tipografo (1757-1797).
Fig. 9,9a
Da invenzioni del pittore veneziano Jacopo Amigoni, tramite l’incisore Giuseppe Wagner, derivano anche le magnifiche targhe con le rappresentazioni allegoriche dell’acqua e della terra (la prima nel museo delle ceramiche di Castelli, la seconda nella collezione Paparella Treccia-Devlet di Pescara), e quella rotonda con il Fuoco. Queste targhe, tradizionalmente attribuite a Saverio Grue, attribuzione che noi condividiamo, sono attualmente collocate di preferenza nella bottega di Silvio de Martinis, sul cui catalogo, come abbiamo visto, pesa però qualche punto interrogativo.
Come sottolineato dal Filipponi, la grande fiera di Senigallia ha funzionato da luogo di incontro fra la produzione veneta e quella di Castelli, assieme a quella rete capillare di ambulanti che raggiungevano i luoghi più remoti.
Le stampe venete contribuiscono sicuramente a svecchiare il repertorio dei maiolicari abruzzesi, e a tenerli al riparo dalla generale graduale decadenza della maiolica italiana che si verifica nel ‘700. Anzi, è questo il secolo d’oro della maiolica di Castelli.
Mentre gli altri centri italiani, da Faenza a Pesaro a Deruta, per rimanere a galla imitano la produzione straniera, proponendo ornati che riprendono quelli tedeschi o francesi, Castelli riesce a mantenere una propria originalità anche nel solco della tradizione. Questo piaceva ai committenti stranieri, che vi vedevano il proseguimento di quell’istoriato che aveva reso celebre la maiolica italiana in tutta Europa, e che era stato sostanzialmente abbandonato altrove. Mentre le maioliche degli altri centri rimangono per lo più confinate a una committenza italiana, quelle castellane venivano esportate anche all’estero.
Poi, nel secolo successivo, in un contesto nel quale gli stati italiani vengono sempre più tagliati fuori dalla grande politica europea, la crisi investirà, assieme alla quasi totalità della produzione italiana, anche l’Abruzzo. Ora la maiolica deve fronteggiare la concorrenza non tanto della porcellana, che rimane pur sempre un prodotto costoso, ma della terraglia. Questo materiale di origine inglese più leggero e di più facile realizzazione, in definitiva più economico, resistente e moderno, mette definitivamente fuori commercio la maiolica d’uso, confinandola al settore artistico e al revival neo-rinascimentale.