Carola Fiocco - Gabriella Gherardi
Quando nel 1989 uscì , ad opera di Jorg Rasmussen, il catalogo delle maioliche che Robert Lehman aveva lasciato al Metropolitan Museum di New York, gli estimatori rimasero profondamente colpiti dalla ricchezza e qualità degli oggetti in esso contenuti. Altrettanta, se non maggiore, ammirazione destano ora le rimanenti maioliche rinascimentali del museo, catalogate e portate all’attenzione del pubblico da Timothy Wilson, fra i maggiori esperti del settore. Il Met possiede infatti una delle collezioni di maiolica più importanti a livello mondiale, formatasi gradualmente a partire dal 1870. Attraverso lasciti e acquisizioni si è arricchita di esemplari straordinari, grazie anche ad alcune congiunture favorevoli. Nel primo quarto del secolo scorso furono disperse sul mercato alcune delle maggiori collezioni europee, e ne approfittarono antiquari e collezionisti americani; numerosi esemplari pervennero anche al museo. Dopo la crisi del ’29, quando i prezzi crollarono, il museo riuscì a beneficiare della circostanza, comprando e arricchendosi di pezzi eccezionali. Ma è soprattutto grazie al collezionismo privato e a un oculato mecenatismo, culminato nel 1975 con il lascito di Robert Lehman, che il museo può vantare una collezione di maioliche eccezionale per qualità e completezza.
Studiare una simile collezione è un privilegio, ma anche un onere e una responsabilità enormi. Timothy Wilson ha retto bene la prova, fornendo un catalogo di qualità, frutto di un lavoro intenso e preciso e di una grande esperienza sul campo. E’ reduce infatti dall’aver catalogato, fra l’altro, le maioliche della National Gallery dello stato di Victoria, a Melbourne, e quelle del British Museum di Londra, in collaborazione con Dora Thornton, e si è trattato anche in questo caso di un’opera monumentale.
Prima della schedatura vera e propria, il Wilson prende in esame la maiolica e la sua committenza, l’apprezzamento che riscuoteva, pur essendo un’arte applicata, e le origini della tecnica. In un breve saggio successivo viene invece indagata la provenienza delle maioliche e le modalità del loro accesso al Museo. E’ questo uno degli aspetti che sembrano interessarlo maggiormente, al punto che gli riserva uno spazio insolitamente ampio anche nelle schede.
L’ambiente socio-culturale che fa da sfondo alle maioliche viene trattato in maniera approfondita in un ampio saggio da Luke Syson, conservatore del settore di scultura europea e arti decorative intitolato a Iris e B. Gerald Cantor. Egli si propone di collocare la maiolica nella società dell’epoca, con i suoi valori e le sue esigenze. Questo saggio è sicuramente fra le attrattive principali del catalogo. Di rado è possibile trovare una tale ricchezza di contenuti associata a un linguaggio semplice e perfettamente leggibile. Tutto quello che può servire a inquadrare la maiolica nel suo contesto è qui analizzato, facendo riferimento a fonti coeve. Il Dr. Syson esamina la committenza, il valore che veniva dato alla maiolica, gli oggetti d’uso e quelli da pompa. Discute sulle credenze, sulla loro composizione, sull’uso, sulla destinazione in prevalenza da villa. Pone le innumerevoli forme da tavola elencate negli inventari e nel trattato del Piccolpasso in relazione con i cibi e i modi di servirli, quali appaiono nei trattati cinquecenteschi di cucina. Esamina i soggetti, i colori, la loro distribuzione sulla superficie di piatti che erano in prevalenza destinati ad essere visti orizzontali, poggiati sul tavolo. Consente, insomma, di vedere la maiolica con gli occhi di chi la faceva, la commissionava o la donava. La maiolica esce così dai confini di una materia estremamente specialistica, per collocarsi in un ambito allargato e di più ampio respiro.
Abbiamo sottolineato la chiarezza con cui si esprime il Syson perché, a nostro avviso, uno dei problemi che sicuramente affliggono chi scrive di ceramica è quello del linguaggio, troppo spesso retorico e inutilmente complesso. La ricerca di una espressione semplice, lineare e comprensibile è urgente per tutti, specie per chi si propone di rivolgersi non solo agli studiosi della materia ma a un più vasto pubblico, e di farlo partecipe della bellezza e rilevanza storica di una collezione. Anche il Wilson, a questo scopo, utilizza il linguaggio giusto: diretto, per niente retorico. Mira a una comprensione immediata, senza tuttavia sacrificare la proprietà dei termini e la precisione scientifica. Nè tenta (per fortuna) l’improba impresa di usare i termini coevi per i vari tipi di vasellame, cosa di per sé impossibile, poiché in molti casi la terminologia usata in inventari, contratti fra committenti e vasai e simili fonti di archivio è di difficile comprensione. Come destreggiarsi fra tondini, tondini piani, scudelle, scudelini, piateletti da insalata, piadini a l’ungarescha e jometi? D’altro canto non esiste in nessuna lingua una terminologia moderna accettata da tutti, malgrado il desiderio e gli auspici del Rackham e del Ballardini. Molto meglio evitare gli antichi nomi italiani, a parte l’universalmente accettato “albarello”, e servirsi dei comuni termini inglesi.
Di fronte a una collezione così vasta ed eterogenea, in cui sono rappresentati praticamente tutti i principali centri italiani, si pone immediatamente il problema di come organizzare il materiale. Il Wilson ha scelto il criterio cronologico, individuando alcuni periodi e, al loro interno, raggruppando gli oggetti a seconda della regione di provenienza, da nord a sud. E’ sicuramente una scelta funzionale e di facile consultazione. Tradizionalmente, la divisione principale è su base geografica. Qui invece la zona di appartenenza è subordinata a cinque grandi periodi: prima fioritura, circa 1480-1520; istoriato e lustro, circa 1520-1570; nuove forme e ambizioni, circa 1550-\1600; sviluppi e diaspora, circa 1600-1700. Questo permette di evidenziare in orizzontale gli elementi che accomunano la produzione dei vari centri, e che derivano da un identico momento culturale. Richiede però una datazione piuttosto precisa dei vari oggetti, così come il criterio geografico richiede una certa sicurezza nelle attribuzioni. Entrambe le cose non sono facilmente ottenibili quando si parla di maiolica, la cui storia è molto meno sedimentata di quella delle arti maggiori e sostanzialmente ancora in divenire.
Il periodo interessato va dal 1300 al 1675 circa. Si tratta dunque di Rinascimento in un senso piuttosto allargato. Vi sono incluse la famosa porcellana medicea, di cui il Met possiede quattro magnifici esemplari, e la produzione francese di ispirazione italiana, o eseguita da vasai italiani emigrati.
La struttura della scheda è stata progettata in modo da offrire subito, e graficamente separate dal resto, le informazioni di base: attribuzione, periodo, misure, materiale, provenienza e bibliografia. Una descrizione dettagliata della forma e della conservazione è collocata in fondo, in corsivo, quasi un’appendice alla scheda vera e propria. Si è quindi voluto tenere distinte quelle parti che, pur indispensabili, risultano piuttosto specialistiche e interessano soprattutto gli studiosi. A questo proposito, è un vero peccato l’aver relegato le note in fondo al volume, rendendone meno immediata e più faticosa la consultazione. Ci rendiamo conto che questo è in accordo con l’intenzione dichiarata di rivolgersi soprattutto al grosso pubblico, che presumibilmente alle note è poco interessato. Tuttavia, uno spazio in fondo a ogni singola scheda avrebbe facilitato la consultazione.
Il corpo della scheda contiene la discussione sul pezzo, di cui vengono analizzati a fondo tutti i possibili aspetti e studi relativi, in modo da rendere chiaro il percorso storico delle attribuzioni e il significato iconografico e funzionale. Né sono trascurati, ma anzi evidenziati, i dubbi che ancora persistono, poiché la storia della ceramica è una materia in divenire, con molte zone d’ombra, che ci auguriamo verranno risolte da nuovi reperti di scavo o inediti documenti di archivio. Questo giustifica e rende inevitabili le incertezze attributive che caratterizzano numerose schede, motivate comunque in modo più che esauriente.
Il primo periodo preso in considerazione, dal 1250 al 1480, comprende il tardo Medioevo e il primo Rinascimento. Per usare i termini ballardiniani, si va dall’Arcaico alla produzione Italo- moresca, passando attraverso la famiglia Verde e quella a Zaffera in rilievo. Le zone maggiormente interessate sono la Toscana, l’Umbria (Orvieto) e il Lazio settentrionale. In questa fase la sequenza delle immagini evidenzia il graduale superamento della semplicità dei primi esemplari, caratterizzati dalla bicromia verde-bruna e da una decorazione schematica, l’espansione del verde e l’introduzione, verso la fine del 1300, del blu di cobalto, dato talvolta a spessore.
Un grande bacile toscano (scheda 5) con un falconiere a cavallo immerso in una vegetazione di gigli mostra l’adesione della maiolica al gusto estetico del Gotico internazionale, e una sensibilità nell’uso del verde e del bruno del tutto diversa da quella dell’arcaico. Qui la fitta decorazione e le smaglianti campiture di verde rendono l’oggetto degno di essere appeso, come indicano i fori di sospensione sulla tesa, e di contribuire all’arredamento della casa. E’ guardando oggetti di questo tipo che il Ballardini foggiò il termine “Famiglia verde”, poco rappresentata a Faenza ma presente al suo meglio in Toscana.
Successivamente, saranno le importazioni dalla Spagna a influenzare forme e ornati, ancora caratterizzati da un vero e proprio “orrore del vuoto” e dalla volontà di riempire, questa volta con un blu intenso, ogni spazio residuo attorno alle figure principali (scheda n. 9)
Il secondo periodo (circa 1480-1520), definito di “prima fioritura”, mostra forme e colori sempre più ricchi, mentre vengono alla ribalta i centri marchigiani (Urbino e Casteldurante), quelli umbri (Deruta e Gubbio) e naturalmente Faenza. Si arriva così alla smagliante tavolozza della fine del Quattrocento, in cui dominano i gialli e gli aranci, e all’esecuzione di pezzi eccezionali, anche plastici.
Ecco dunque il famoso Compianto sul Cristo morto del 1487 (scheda n. 11), vera e propria scultura, opera ineguagliata e di grande impatto. È straordinario che per un pezzo così importante non sia sicura la provenienza, ma questo è il destino della maiolica, che raramente veniva firmata, mentre gli artefici si trasferivano spesso da un centro all’altro esportando i propri modi.
Lo stesso succede per un altro esemplare di eccezione, la targa con Vergine e Bambino (scheda n. 12), databile verso la fine del Quattrocento. Qui l’insolita presenza dei committenti, raffigurati piccoli in basso a sinistra, fa pensare che l’immagine non avesse destinazione domestica, ma dovesse essere collocata in una chiesa. In questo periodo i pittori maiolicari si ispirano spesso a modelli alti. In questo caso si tratta di una composizione ideata da Benedetto da Maiano e replicata in seguito con materiali economici, come la terracotta, lo stucco e la cartapesta. La derivazione toscana dell’iconografia non vincola in alcun modo l’attribuzione della targa, vista l’enorme diffusione della composizione. E’ anzi poco probabile un’origine toscana, anche se non è possibile escluderla del tutto, e il dubbio è piuttosto fra Faenza e le Marche, Pesaro in particolare, che proprio allora produceva esemplari di grandissimo pregio. A produzione pesarese vanno attribuiti, ad esempio, i due albarelli (scheda n. 25) con un cane araldico e un uccello stilizzati, circondati da caratteristiche foglie gotiche ricurve dalla terminazione a goccia. Come annota il Wilson, vi è uno stretto raffronto con i frammenti di scavo disponibili di sicura provenienza dal sottosuolo della città.
Il grande piatto con la Vergine e il Liocorno(scheda n. 26) è sicuramente un esemplare di punta del museo, e fra i più famosi dell’ultimo ventennio del Quattrocento. Corredato dagli stemmi del re d’Ungheria Mattia Corvino e della sua terza moglie Beatrice d’Aragona, faceva parte di un servizio di cui sopravvivono quattro esemplari. Per esso ci sono stati in passato pesanti dubbi attributivi, spaziando da Faenza a Deruta all’Ungheria. Si tratta dopotutto di pezzi fra i più studiati nella storia della maiolica. E’ veramente istruttivo il modo in cui il Wilson approda gradualmente all’attribuzione a Pesaro, prendendo in considerazione non solo i precisi riscontri con il materiale di scavo, disponibile in abbondanza a partire dagli anni ’80, ma anche tutta una serie di indizi storici che, nel loro insieme, risultano estremamente convincenti. Nel 1486 l’ambasciatore ferrarese a Buda, capitale del regno di Ungheria e sede del palazzo reale, scriveva alla duchessa di Ferrara Eleonora di Aragona che sua sorella Beatrice avrebbe gradito un dono in maiolica più che se fosse stato d’argento. Reggeva allora la signoria di Pesaro Camilla d’Aragona, cugina di Beatrice ed Eleonora, dedita a promuovere la maiolica locale, a proteggerla dalla concorrenza e a farle reggere la competizione soprattutto con Faenza. Se si aggiunge che nel 1488 un ceramista di Pesaro, Francesco di Angelo da Sant’Angelo, si trovava in Ungheria, forse per fondare a Buda una manifattura di cui sono stati trovati i resti, ecco che diventa plausibile anche sotto il profilo storico l’origine pesarese del servizio Corvino. E’ probabile che si sia trattato di un dono fatto a Beatrice regina di Ungheria da sua cugina Camilla, circa negli anni 1486-88. Il Wilson ritiene dunque che il servizio non sia stato fatto nel 1476, data del matrimonio fra Mattia Corvino e Beatrice d’Aragona, come comunemente si credeva, ma qualche anno più tardi; comunque prima del 1490, anno della morte di Mattia. L’abbondanza di riferimenti storici e la logica espositiva fanno di questa una scheda magnifica, che abbiamo letto e assimilato con grande piacere. L’unico punto che non ci sembra di poter condividere è quando il Wilson argomenta che questo vero e proprio istoriato, la vergine col liocorno, dotato di una sua definita spazialità, sarebbe troppo precoce se collocato nel 1476, e a tale scopo lo confronta con una mattonella di identico soggetto proveniente dal pavimento di Parma. Questo pavimento, anch’esso probabilmente pesarese, è riconducibile per via araldica agli anni 1471-1482, e dovrebbe precedere di qualche anno il servizio Corvino. Secondo il Wilson la scena sulla mattonella, pittoricamente inferiore a quella sul piatto, non può ancora ambire pienamente al titolo di Istoriato, riservato a esemplari successivi. A noi sembra invece che la mattonella, pur penalizzata da difetti di cottura, sia altrettanto raffinata, se non di più, del piatto Corvino, e che attesti, assieme ad altre dello stesso pavimento (fra cui una con Piramo e Tisbe e una col Giudizio di Paride), la presenza di veri e propri istoriati in epoca precoce.
Ma passiamo oltre. In questo periodo di “prima fioritura” compaiono, più o meno contemporaneamente, i primi lustri a Deruta e a Gubbio. In questa fase i vasai eugubini usano decorazioni molto simili, per non dire uguali, a quelle derutesi. Nei frammenti di scavo da Gubbio troviamo le stesse decorazioni che a Deruta: denti di lupo, fiori a bulbo, foglie frastagliate ricurve. Vi spicca però talvolta un tono di lustro rosso insolitamente brillante rispetto a quello derutese, che è più spento. Fra i due centri dovevano esserci frequenti scambi di oggetti e mano d’opera, ed è quindi difficile distinguere morfologicamente le due produzioni. A questo scopo di recente sono stati proposti criteri tecnici estremamente affidabili, che si basano fra l’altro sulla presenza o meno di un minerale chiamato Gehlenite, tipico delle argille di Gubbio ma non di quelle di Deruta[1]. Tuttavia questi criteri non vengono quasi mai utilizzati dagli studiosi, forse perché richiedono analisi complesse. Di conseguenza l’oscillazione fra Gubbio e Deruta persiste, e riguarda una buona parte dei lustri precoci, quelli che vanno dalla fine del Quattrocento fino al 1515-‘18. A partire da questa data la produzione eugubina di Mastro Giorgio Andreoli acquisisce caratteri specifici e diventa inconfondibile. L’albarello biansato alla scheda 28 costituisce un buon esempio della questione: la forma e gli ornati sono comunemente considerati derutesi, ma la stilizzazione di questi ultimi non troverebbe riscontri esatti nei frammenti di scavo da Deruta. L’attribuzione è dunque, con qualche incertezza, a Gubbio.
Per analoghi motivi rimane incerta fra i due centri umbri la collocazione di un grande piatto da pompa (scheda n. 29) con due centauri in lotta fra loro. Il piatto è arricchito da uno smagliante lustro dorato e rosso, mentre il terreno su cui poggiano le figure è campito in verde. E’ questo un particolare che fa pensare più a Gubbio che a Deruta, dove si afferma piuttosto una severa bicromia oro-blu. Il piatto fa inoltre parte di un gruppo nella cui iconografia ricorrono frequenti richiami a Gubbio, come la presenza di Sant’Ubaldo protettore della città e quella delle armi dei Montefeltro, del cui ducato Gubbio faceva parte. A nostro avviso, la produzione precoce di Gubbio è decisamente sottovalutata, e questo piatto ne fa parte. La prudenza del Wilson è tuttavia legittima, e ci auguriamo assieme a lui che futuri ritrovamenti risolvano una volta per tutte la questione.
Ben più grave, nella ceramica, è il problema dei falsi, e viene qui in evidenza nella scheda 38, a proposito di due albarelli napoletani della fine del Quattrocento. Jorg Rasmussen, infatti, seguendo un suggerimento di Otto von Falke, li riteneva rifacimenti basati sulle mattonelle di alcuni pavimenti napoletani, in particolare di quello della cappella Brancacci in Sant’Angelo a Nilo. Più di recente il Donatone li ha invece raggruppati e riconosciuti come vasellame da spezieria legato alla corte aragonese, opera di un maestro attivo in una fornace del Castel Nuovo. Il Wilson ricostruisce accuratamente tutta la vicenda dei due albarelli e ne accetta sostanzialmente l’autenticità, tenendo conto del fatto che un esemplare del gruppo fu acquistato dal British Museum nel 1856, troppo presto per la produzione di quei magnifici falsi legati allo storicismo che ancora infestano, incogniti, alcuni musei. Con estrema prudenza, tuttavia, lascia aperta la strada a manifatture nei dintorni di Napoli che studi recenti hanno messo in evidenza, come Vietri sul mare, o addirittura alla Sicilia, da cui sembra provenire la gran parte di questo vasellame. Anche i ripetuti tentativi di individuare personaggi storici nei profili sul vasellame vengono affrontati dal Wilson con la grande cautela che lo caratterizza . Sicuramente esistono nella maiolica rinascimentale ritratti di personaggi contemporanei, ma in genere vi è accostato qualcosa che aiuti a individuarli: se non un nome, un emblema o uno stemma. Purtroppo qui, come nell’albarello successivo (scheda n. 39), questi elementi di identificazione mancano completamente, e quindi è meglio non azzardarsi troppo.
Tornando al problema dei falsi, la tecnologia moderna sembrerebbe poter essere d’aiuto. La termoluminescenza, ad esempio, mediante la quale è possibile datare con buona approssimazione un pezzo, è spesso usata a questo scopo, al punto che alcune collezioni importanti battute presso le principali case d’asta vengono prioritariamente testate in questo modo, rassicurando così gli eventuali acquirenti. Tuttavia quanto avvenuto per lo splendido piatto con la Maddalena, opera di vasai montelupini o senesi degli inizi del Cinquecento (scheda n. 47) è un invito a non fidarsi troppo. Nel 1977 e successivamente nel 1987 il piatto fu sottoposto alla termoluminescenza, risultando moderno, o comunque non anteriore alla metà del Settecento. Di conseguenza venne declassato a Neo-rinascimentale. Questo giudizio però, in apparenza definitivo, non ha trovato il sostegno di alcuni studiosi, che a un esame visivo lo hanno giudicato autentico. Inoltre, il materiale di scavo da Montelupo sembra fornire un avallo sia all’autenticità del piatto che alla sua origine montelupina. Dunque la termoluminescenza non è attendibile, nemmeno dopo che i risultati delle prime analisi sono stati confermati una seconda volta? E’ impegnativo assumersi la responsabilità di accettarlo, e di avallare il piatto come autentico. Con estrema cautela, e con tutti i distinguo del caso, il Wilson sembra porsi su questa linea, pienamente consapevole dei rischi che comporta. Lo sostiene il precedente di un altro piatto del museo per il quale la termoluminescenza aveva proposto una data fra il 1891 e il 1917, mentre risulta elencato nell’inventario della collezione di sir Andrew Fountaine del 1835, di cui porta ancora l’etichetta. Ma in realtà la termoluminescenza non può fornire una data così precisa, e il margine di oscillazione deve necessariamente essere più ampio. Probabilmente, le analisi sono attendibili a seconda di chi le fa e le legge, ma questo non ne inficia la validità in generale. Il piatto con la Maddalena è problematico anche sotto un altro aspetto. Fa infatti parte di un gruppo un tempo attribuito a Siena, oggi a Faenza, in base a frammenti di scavo. Non rimane al Wilson che sottolineare la grande mobilità degli artefici dell’epoca, che esportavano altrove i modi appresi nella città natale, confondendo così le attribuzioni .
Il terzo periodo (1520-70), di cui anche l’esemplare precedente fa parte, vede la grande fioritura dell’Istoriato e dei Lustri. E’ un momento particolarmente felice per la maiolica di Faenza, che produce opere di altissimo livello, come il piatto con putti alati che giocano entro una fascia a grottesche, datato 1520 (scheda n. 43). I putti intenti a giocare sono comuni nell’iconografia rinascimentale, particolarmente nella maiolica della prima metà del Cinquecento, e il Wilson ne illustra la presenza, fra l’altro, nelle cantorie scolpite da Luca della Robbia e Donatello per il Duomo di Firenze. A noi fa anche pensare al “ludus puerorum”, vista l’abbondanza di riferimenti alchemici presente nell’iconografia ceramica. Il piatto è marcato sotto la base con il famoso cerchio tagliato in croce, attualmente declassato da “ruota di fuoco” a pallone per il gioco del calcio, e di conseguenza non più ritenuto marchio esclusivo della Casa Pirota. La sua faentinità è salva, ma non l’appartenenza a una specifica officina dell’epoca, nemmeno a quella dei Dalle Palle, che nel nome possono evocare il simbolo. L’ornato attorno alla tesa del piatto rappresenta una delle prime apparizioni di una grottesca che in seguito, standardizzata, ricorre molto spesso nella maiolica faentina, sia su quella policroma che su quella dal fondo azzurrato, detta anche “berrettina”. A questa ultima tipologia appartiene il grande piatto con lo stemma Strozzi- Ridolfi (scheda n. 44), parte di un servizio di cui rimangono altri esemplari. E’ interessante notare come negli anni venti del Cinquecento numerose famiglie fiorentine commissionassero a Faenza i loro servizi che, molto simili per forme e ornati, potrebbero provenire da una stessa bottega. Il Wilson propone di identificarla con quella di Piero e Paolo Bergantini, al cui interno lavorò un pittore anonimo, chiamato “Pittore della coppa Bergantini” dalla sua opera più famosa conservata nel museo di Faenza. Autore del servizio Guicciardini-Salviati, è un personaggio eccezionale per la violenta espressività dello stile, insolita nel panorama italiano, legata a un pittore eccentrico e anticlassico come Amico Aspertini.
Su un piano del tutto diverso, più classicamente placido, si trova invece Baldassarre Manara, che al contrario del Pittore Bergantini usa firmare o siglare spesso le sue opere. Non è tuttavia firmata la coppa con Cristo nell’orto del Getsemani datata 1538 (scheda n.46), che gli viene attribuita con qualche esitazione dal Wilson sulla base di affinità stilistiche. La superficie concava della coppa, cui è stato tagliato il piede, reca dunque un istoriato nello stile del Manara, che riproduce rovesciata una stampa recante la stessa data 1538; ma forse il pittore aveva avuto accesso a qualche versione precedente. Quello che meraviglia e rende unica la coppa è però il retro. Vi compare un’elaborata grottesca nella quale putti alati con cartigli musicali e libri si dispongono attorno a un medaglione centrale in cui è rappresentato, in vesti classiche, il profilo di un “Don Parisio” da Treviso, presumibilmente studioso e musicista. “Don” infatti non allude necessariamente a un ecclesiastico, ma a un personaggio di rango, forse nobiliare. Lo stile non sembra quello del Manara e, come propone il Wilson, forse due pittori contribuirono all’ornato della coppa.
A partire dal 1520 anche la produzione marchigiana subisce un’accelerazione, focalizzandosi sugli istoriati, i cui maggiori maestri operano a Urbino, Casteldurante (Urbania) e Pesaro. Ma prima di passare all’istoriato è indispensabile menzionare uno degli esemplari più attraenti dell’intera collezione, la coppa col profilo di “Ruggieri” (scheda n. 50). Essa fa parte di un gruppo di coppe databili attorno al 1525, su cui sono raffigurati di fronte e di profilo uomini e donne illustri della storia e del mito, accompagnati da un cartiglio col rispettivo nome. Ne rimangono almeno undici, e la perfezione e nitidezza di segno che li caratterizza li ha in passato fatti credere opera di Nicola da Urbino o di Giovanni Maria da Casteldurante. Si trattava però di forzature; meglio non azzardarsi sull’identità di questo pittore estremamente dotato, ma che sembra destinato a rimanere anonimo. In linea di massima, tradizionalmente questo gruppo e altri con “Belle donne” e uomini illustri vengono attribuiti a Casteldurante, ma il Wilson preferisce riferirsi alla capitale del Ducato, Urbino.
A Urbino viene dunque attribuita, con la solita cautela, anche la coppa con la Bella Cassandra della scheda successiva (n.51), che però ha una caratteristica in più: è stata arricchita col lustro rosso di Gubbio, e gli ornati sul retro, costituiti da gruppi di racemi fogliati, sono infatti quelli tipici della produzione di eugubina. Al centro, sotto il piede, spicca la lettera N, ritenuta monogramma di Vincenzo Andreoli, figlio del famoso Mastro Giorgio. Formatosi nella bottega del padre, con cui la collaborazione non si è mai interrotta, nel 1538 egli acquisisce dalla vedova di Nicola da Urbino la bottega che era stata del marito, e tutta l’attrezzatura ivi contenuta. E’ evidente che gli Andreoli miravano a espandersi, in particolare a Urbino, capitale del Ducato e sede dei più grandi maestri di istoriato. Per questo motivo il Wilson ammette la possibilità che la coppa, datata proprio 1538, possa essere stata lustrata, e non solo dipinta, a Urbino. E’ questo uno dei punti caldi nella storia della maiolica a lustro, perché si tratta di andare contro una tradizione consolidata che vuole istoriati e Belle donne eseguiti in Urbino o Casteldurante e successivamente inviati a Gubbio per l’applicazione del lustro. Spedizioni di ceramiche erano certo all’ordine del giorno, ma era più facile e redditizio se entrambe le operazioni, pittura e applicazione del lustro, venivano eseguite nello stesso posto. Mastro Giorgio assumeva così e ospitava regolarmente presso di sé pittori di istoriati provenienti da altri centri; Vincenzo trapiantava a Urbino, centro dell’istoriato, l’arte del lustro.
I lustri, quelli di Gubbio in particolare, hanno da sempre esercitato un grande fascino sui collezionisti, e poiché la raccolta del Met deve molto al collezionismo privato, può vantare una quantità di magnifici oggetti arricchiti di scintillanti metallizzazioni rosse e dorate. A partire dagli anni venti nella bottega di Mastro Giorgio a Gubbio emerge un pittore il cui nome rimane ignoto, e che viene convenzionalmente chiamato “Pittore del Giudizio di Paride”, dal soggetto di un piatto da lui eseguito conservato nel museo del Petit Palais di Parigi. A lui vengono attribuite tre opere contrassegnate dalla sigla di bottega di Giorgio: una coppa con profilo di santo (scheda n. 72), una con la morte di Didone datata 1522 (scheda n. 73), una con l’allegoria del tormento d’amore, dello stesso anno (scheda n. 73). Poiché lavora all’interno della bottega, è a stretto contatto con coloro che applicano il lustro e ne conosce le esigenze, il pittore lascia bianchi gli spazi destinati a essere lustrati. In questo modo il lustro non si limita a lumeggiare qua e là, come avviene in molti istoriati urbinati, ma si stende in ampie campiture con un bellissimo effetto. Il Rackham aveva assegnato la coppa col tormento d’amore a un altro autore, che aveva chiamato “Pittore di Sant’Ubaldo”. Ne riconosceva infatti la mano in due coppe, una nel Victoria and Albert Museum di Londra e l’altra nella collezione Lehman del Met, su cui è raffigurato il Sepolcro di Sant’Ubaldo. Ora il Wilson elimina di fatto questa figura, assimilandola al Pittore del Giudizio di Paride. L’estrema vicinanza di stile non consente più, infatti, di mantenere separati i due pittori.
Due piatti dal cavetto profondo con scene dall’Eneide di Virgilio (scheda n. 78) introducono un altro controverso pittore, altrettanto anonimo del precedente, attivo nella bottega di Mastro Giorgio nel 1525. E’ chiamato “Pittore delle tre grazie” da un tondo nel Victoria and Albert Museum di Londra e, malgrado non si siano risparmiati in ipotesi e supposizioni, gli specialisti non trovano un accordo sulla sua possibile identità. Il Wilson esclude a ragione che possa identicarsi col Pittore del Giudizio di Paride; la diversità di stile è piuttosto evidente. Egli sottolinea la possibilità che si tratti di Giovanni Luca Baldi da Casteldurante, che proprio nel 1525 aveva stretto con Mastro Giorgio un contratto impegnandosi a risiedere presso di lui e a dipingere istoriati. Questo spiegherebbe la forte impronta durantina e urbinate delle sue storie. Il Mallet invece propone che si tratti dell’Avelli in una sua fase giovanile. La cronica mancanza di documentazione spinge il Wilson a una conclusione rassegnata: forse future scoperte d’archivio risolveranno, si spera, la questione.
Rispetto a quelli di Gubbio, i lustri di Deruta appaiono più severi, limitati a una rigida bicromia blu e oro. C’è un insolito tocco di rosso (non a lustro) nel piatto con lo stemma dei Tosinghi di Firenze (scheda n.81). Questo e la presenza di fitti circoli concentrici sul retro, presenti a Deruta negli esemplari policromi ma non in quelli a lustro, fanno dubitare il Wilson dell’origine del pezzo, e gli fanno cercare collegamenti con la Toscana, in sintonia con l’araldica. A noi sembra che i profili e i cani entro i medaglioni siano tipici della produzione derutese degli anni venti. Se il piatto è autentico, dobbiamo accettare che a volte gli artefici escano dalla norma, e ci regalino qualche sorpresa: un tocco di rosso, malgrado le difficoltà di ottenerlo in ceramica, e una vegetazione un po’ diversa da quella dei piatti coevi.
La produzione derutese è probabilmente quella più interessata all’arredamento della casa. Gran parte è infatti costituita da grandi piatti “da pompa”, destinati ad essere appesi (schede nn. 83-86, 88-89). Gli esemplari del Met, tutti a lustro tranne l’ultimo, esibiscono intenti morali e di devozione religiosa: proverbi che ammoniscono, un angelo annunciante, San Francesco, il Leone di san Marco. Uno però reca due innamorati che ostentatamente si baciano (scheda n. 88), e ci ricorda come, accanto ai piatti che il padrone di casa si compiace di mostrare ai suoi ospiti, e che testimoniano la sua integrità morale e religiosa, ne esistano altri con scene del tutto diverse, audaci e sessualmente esplicite, forse destinati a zone più riservate della casa. Con il piatto recante lo stemma Vitelli (scheda n. 88) il Wilson introduce il pittore di maioliche Nicola Francioli detto “Co”, in cui fa convergere il famoso “Diruta painter” del Rackham e il Pittore del pavimento di San Francesco. Non più dunque due autori distinti, ma un unico grande personaggio.
Come abbia fatto Castelli d’Abruzzo, piccolo paese di montagna ai piedi del monte Camicia, nel massiccio del Gran Sasso, a diventare uno dei più importanti centri ceramici del Regno di Napoli, è una domanda che sorge spontanea dopo averne valutato l’impervia posizione. A dorso di mulo, con adeguati imballaggi, le ceramiche ivi prodotte venivano trasportate fino ai più importanti mercati della costa adriatica, e verso Napoli. A Castelli fu prodotta una quantità enorme di vasellame da farmacia, fra cui la tipologia denominata “Orsini-Colonna” (scheda n. 90) e un Compendiario che è fra i più raffinati in Italia. il vaso con Apollo e il re Davide (scheda n. 91) proviene dalla collezione Schiff, nel cui catalogo del 1927 era assegnato alla Toscana. Ora il Wilson, correttamente a nostro avviso, lo assegna, sia pure con qualche esitazione, a Castelli. Apprezziamo i suo coraggio, dal momento che su questa attribuzione le opinioni degli studiosi non sono affatto concordi. E tuttavia, proprio qui l’immagine del re Davide ricorda con una evidenza irresistibile le immagini dei vecchioni barbuti degli Orsini-Colonna. Il vaso appartiene a una tipologia decorativa che a suo tempo definimmo “alla porcellana colorata”, e che reca date verso la metà del secolo.
Le accurate schede del Wilson affrontano dunque nodi cruciali e troppo spesso di impossibile soluzione, almeno per il momento, e questo giustifica la sovrabbondanza dei “forse” e dei “probabilmente” premessi alle sue attribuzioni. Per fortuna ci sono anche punti fermi. Appartiene senza dubbio a Nicola da Urbino, eccelso pittore di storie, il piatto con Paride che uccide Achille (scheda n. 53), e che reca lo stemma della famiglia bresciana dei Calini. E’ impeccabile nella scheda la sintesi di tutto quanto si sa con certezza su Nicola, tramite documenti d’archivio e opere firmate. Quanto a quelle non firmate, ma attribuite principalmente su base stilistica, è interessante il fatto che venga accettato senza riserve il Servizio Correr, mentre non viene menzionato il Gonzaga-Paleologo, generalmente ritenuto, almeno in parte, di sua mano. Nel catalogo delle maioliche del British Museum, pur mostrandosi dubbioso, il Wilson lo aveva comunque inserito fra le opere tarde di Nicola. Salutiamo invece ora la sua scomparsa dal repertorio, effettivamente motivata da un segno più grossolano e pittorico rispetto a quello lineare e accurato di Nicola.
Nel passaggio da Nicola all’Avelli, ecco riemergere i dubbi. Siamo ora al pittore FR, di solito ritenuta sigla di Francesco Xanto Avelli nella sua fase precoce, prima che firmasse per esteso le sue opere. La coppa con Diana e Atteone (scheda n. 55) gli viene attribuita, ma il Wilson non si mostra sicuro né sulla identificazione del pittore con l’Avelli né sull’ origine urbinate del piatto. Onora comunque l’opinione di John Mallet, il maggiore specialista dell’Avelli, che riconosce in FR i modi di Xanto e ne deduce la presenza, anche se non altrimenti documentata, in Urbino prima del 1530. L’Avelli è stato un grande pittore di maioliche, molto prolifico e fortunatamente incline a firmarsi; perlomeno a partire dal 1530, anno nel quale è sicuro abitasse a Urbino, dove è documentato fino al 1542. Pare che non abbia mai posseduto una propria bottega, lavorando sempre presso altri. Prima del 1530 contrassegna la propria opera con una lettera che sembra la greca “fi” (scheda n. 56), ed è autore di veri e propri servizi, fra cui uno recante lo stemma dei Pucci di Firenze (scheda n. 57). Fra i pittori di istoriati è anche il più incline a utilizzare il lustro (scheda n. 58) e, come per la coppa n. 51, c’è da chiedersi se abbia mandato a Gubbio questo splendido e laboriosissimo piatto con Semiramide per farlo lustrare, con tutti i rischi che questo comportava, oppure se gli Andreoli disponessero di una più comoda e vicina succursale a Urbino.
Nel 1988 John Mallet intitolò un suo saggio “Xanto: i suoi compagni e seguaci”. Sono molti infatti i pittori che sembrano muoversi nella sua orbita, fra cui uno che il Rackham denominò “Pittore dei miti in abiti moderni” (scheda n. 60), mentre un altro fu dal Mallet chiamato “Pittore del Marsia di Milano” (scheda n.61). Entrambi risentono dell’Avelli, ma anche di Nicola; non si può dire se fossero loro allievi, ma di sicuro ne conoscevano e apprezzavano la maniera.
Fra le botteghe più importanti di Urbino emerge quella di Guido Durantino, che assunse il nome di Fontana. Questo nome passò ai suoi discendenti, particolarmente al figlio Orazio, che rimase presso il padre fino al 1565 per poi mettersi in proprio. Con i Fontana ci sembra che la sequenza cronologica adottata dal Wilson mostri qualche difficoltà. E’ difficile infatti capire perché i due piatti con Annibale e le truppe romane e la costruzione della torre di Babele (schede n. 67e n. 68), assegnati alla bottega di Guido, vengano drasticamente separati da altre opere eseguite qui o nella bottega di Orazio (scheda 103-108), con cui sono in continuità, anche se forse di pochi anni più tarde. Il passaggio alla quarta sezione cronologica,1550-1600, impone qui all’autore una cesura nell’evoluzione degli istoriati legati ai Fontana, che risulta piuttosto fastidiosa. Ciò detto, le schede relative a queste opere sono straordinariamente ben documentate. Si capisce che l’argomento ha a lungo appassionato l’autore, che lo ha approfondito fino a conoscerlo nei minimi dettagli. Egli affronta la questione delle grottesche a fondo bianco, un tempo dette “raffaellesche”, e della loro prima comparsa, probabilmente col grande servizio per Filippo II chiamato anche “Servizio spagnolo”, quasi certamente eseguito nella bottega dei Fontana. Si trattava di un importante dono diplomatico da parte del Duca di Urbino Guidubaldo II, per il quale furono utilizzati disegni degli Zuccari, allora fra gli artisti più in voga. Nel 1562 viene descritto in termini entusiastici in una lettera da Paolo Mario della Rovere, ambasciatore del duca, che si preoccupa dei rischi che le 10 casse contenenti le maioliche avrebbero corso durante il lungo viaggio verso la Spagna. I disegni degli Zuccari furono in seguito riutilizzati, e con ogni probabilità il grande rinfrescatoio del Mit con una scenografia di battaglia con elefanti (scheda n. 103) fa parte di queste repliche che ricalcavano, nelle forme e negli ornati, quelle del servizio originale.
Un anno prima, nel 1561, era giunto in Alicante un altro servizio istoriato anch’esso dono di Guidubaldo per il Grande di Spagna Ruy Gomez de Silva. Se questo servizio fosse da identificarsi, come è stato proposto, con quello recante scene dell’Amadigi di Gaula, romanzo cavalleresco spagnolo, allora avrebbe lui la priorità delle grottesche. Ne fanno parte i due grandi bacini (scheda 104 a,b) che recano ciascuno cinque scene del romanzo. Manca qualunque documentazione sicura sul servizio, che doveva essere molto grande e di cui rimangono pochi esemplari. Questo lascia spazio a più ipotesi sulla committenza e destinazione, che doveva essere spagnola, visto che le storie sono commentate, sul retro, con versi in questa lingua. Potrebbe persino essere stato fatto a Torino, dove Orazio Fontana aveva lavorato fra il 1563 e il 64, assieme al suo parente Antonio Patanazzi.
La figura di Antonio emerge con lo splendido vaso riccamente ornato (scheda n. 105) che un tempo faceva parte del corredo farmaceutico di Roccavaldina, nei pressi di Messina. Due vasi simili, appartenenti allo stesso corredo, uno ancora sul posto, l’altro nel museo delle ceramiche di Faenza, recano infatti il nome dell’autore e la data 1580. Nell’accuratissima scheda relativa il Wilson enumera tutto quanto è oggi possibile sapere sul corredo e sulle sue vicissitudini, sulla possibile committenza, su Antonio Patanazzi. Quest’ultimo rimane tuttavia un personaggio piuttosto misterioso, poiché le prime opere che gli vengono attribuite con sicurezza, perché firmate, sono proprio quelle di Roccavaldina. Sono però molto tarde, perché recano la data 1580, e precedono di poco la morte di Antonio, avvenuta nel 1587. Tanto è vero che una gran parte del corredo risulta, a un esame stilistico, di mano di suo figlio Francesco. Il problema è che Antonio già nel 1540 gestiva una propria bottega, e nella documentazione di archivio risulta sempre strettamente associato ai suoi parenti Fontana. Addirittura, alla morte di Orazio, una parte delle maioliche destinate in eredità a sua figlia erano depositate presso Antonio. Dunque, al di là dei vasi firmati di Roccavaldina, sarebbe il caso di cercare le tracce della produzione di una quarantina d’anni della vita di Antonio. E probabilmente le si troverebbe all’interno di quella genericamente attribuita ai Fontana, il cui nome è diventato ormai un comodo contenitore entro cui stipare una molteplicità di oggetti spesso molto diversi fra loro.
Prima di affrontare l’ultima parte del suo catalogo, quella relativa agli sviluppi e alla diaspora della maiolica rinascimentale italiana, il Wilson introduce una parentesi relativa alla porcellana medicea. Prodotta a Firenze a partire dal 1575 sotto il patronato di Francesco I de’ Medici granduca di Toscana, essa rappresenta il primo tentativo riuscito di ottenere la porcellana in Europa. Ne sopravvivono solo una sessantina di pezzi; si tratta quindi della porcellana più rara e preziosa in assoluto. In un saggio esauriente ne viene raccontata la storia e sintetizzato tutto quanto è noto sull’argomento. Vengono poi presentati i quattro esemplari del Met (schede 111 a-d), che non solo sono di altissima qualità, ma mostrano una interessante varietà di scelte e accostamenti decorativi. Si va dunque dai tralci fioriti di derivazione orientale alle grottesche all’istoriato, in una rigorosa gamma bianca e blu. I maiolicari non furono estranei a questo eccezionale risultato. Ebbero infatti un ruolo importante Flaminio Fontana, nipote di Guido Durantino, e i suoi collaboratori, fra cui due faentini. Dopo la morte del Granduca, avvenuta nel 1587, la produzione continuò in maniera discontinua, fino a cessare del tutto.
Ma ritorniamo ora alla maiolica, e agli sviluppi che quella italiana ebbe all’estero, dove era molto apprezzata e acquistata. Girolamo di Tommaso è in gran parte una scoperta di Timothy Wilson. Perlomeno, è stato lui a coglierne l’importanza e a collegarlo, in un saggio del 2003, al piatto marcato “1582 leon” del British Museum di Londra. Formatosi in Urbino, Girolamo nel 1576 lavora ad Albisola, e nel 1582 si trasferisce a Lione. Il piatto del Met con Giuseppe che si svela ai fratelli (scheda n.69) gli viene attribuito perché, confrontandolo con quello del British Museum, sembra proprio della stessa mano. Girolamo è uno dei tanti artefici italiani che nel Cinquecento si trasferiscono in Francia. Dai documenti risulta che grandi quantità di maioliche italiane venivano imballate e spedite in Francia per committenze importanti. Ma, dove c’è mercato per le maioliche importate, ce n’è anche per gli artefici disposti a trasferirsi, mettere su bottega e fornire sul posto lo stesso tipo di prodotto, risparmiando gli oneri e i rischi del viaggio. Ecco dunque che fin dal 1512 sono documentati a Lione artigiani toscani, poi liguri e faentini. In seguito Nevers, che dal 1588 era feudo di un ramo dei Gonzaga, divenne una delle mete preferite dei vasai italiani, fra cui spiccano i Conrade. Provenienti da Albisola, vi trapiantarono però un istoriato in tutto simile a quello urbinate. Viene infatti a loro attribuito, sia pure con un margine di dubbio, il grande bacino con la Raccolta della manna (scheda n. 117), che chiunque a prima vista riconoscerebbe come produzione di Urbino. La somiglianza con i due bacini del servizio Amadigi di Gaula (scheda 104) è infatti impressionante. Questo è però più pesante e spesso, le cornici sul retro sono dipinte e non a rilievo, e nel complesso risulta di un cinque per cento più piccolo degli altri. Sembrerebbe dunque che lo stampo sia stato ricavato da un bacile a sua volta formato si uno stampo uguale a quello usato per il servizio Amadigi; le minori dimensioni dipenderebbero dal restringersi dell’argilla dopo le operazioni di formatura e cottura. Niente è mai quello che sembra, quando si parla di maiolica.
Con la produzione nivernese di tipo italiano si chiude questo magnifico catalogo, che mette a disposizione degli studiosi, anche di quelli poco inclini a viaggiare, esemplari finora poco conosciuti. E’ un’opera della massima importanza, perché vi sono compresi praticamente tutti i nodi interpretativi e i problemi storici essenziali della storia della maiolica rinascimentale. Ci sembra che Timothy Wilson abbia affrontato questa difficilissima prova in modo egregio, con competenza, attenzione e grande prudenza, sviluppando proprio l’aspetto problematico degli oggetti e la loro importanza storica. E’ sicuramente un punto fermo nella letteratura ceramica, che aiuterà moltissimo le future ricerche fornendo una base e un affidabile punto di partenza su molteplici argomenti.
[1] G. Padeletti- P. Fermo, An Archaeometrical Study for the Identification of the Production Site of Umbrian Renaissance Ceramics, in G. Padeletti, Mastro Giorgio da Gubbio, Perugia 2013 p. 197).