Carola Fiocco - Gabriella Gherardi, in Il lavoro ceramico, 1998, pp. 183-193.
Il cambiamento nel repertorio decorativo, che accompagna il passaggio dal Gotico al Rinascimento, è forse l'aspetto più immediatamente percepito dalle botteghe artigiane, assieme a un gusto accentuato per la simmetria, la linea e l'angolo retto. I grandi temi umanistici sfiorano appena le arti applicate, ma esse partecipano pienamente al rinnovamento stilistico e al linguaggio in cui si esprime, dettato soprattutto dall' ammirazione per l'antichità classica, e che prende l'avvio a metà circa del xv secolo, con sensibili differenze da regione a regione.
Così vediamo tramontare le flore ali decorazioni gotiche, arricchite dagli influssi orientali e moreschi, i temi del melograno, della foglia accartocciata, della felce, della penna di pavone, e la loro tendenza a disporsi sinuosamente, in maniera intrusiva, che richiama i pesanti tessuti ricamati, i damaschi, i tappeti. Al loro posto compaiono i ben noti motivi delle architetture, degli altari, dei sarcofagi romani: ovoli, archetti, ghirlande, foglie di acanto, e soprattutto trofei, grottesche, candelabre vegetali o animate. E se le proposte iniziali provengono come sempre dalla grande arte, divulgate mediante disegni e stampe, è poi facile per l'artigiano ispirarsi ai ruderi locali, di cui ogni angolo d'Italia abbondava. Le rovine erano ovunque, e contribuivano ad un repertorio che si ampliava sempre più, allontanandosi dalla sua fonte, riproducendosi e assumendo caratteri, più che classici, rinascimentali. I trofei, che dervano dall 'uso antico di appendere alle pareti dei templi le spoglie dei nemici uccisi quale emblema di vittoria, consistono in panoplie ben disposte, intercalate talvolta a strumenti musicali. La candelabra è invece una composizione quanto mai varia, che imita in origine candelabri marmorei o bronzei, e la cui caratteristica più spiccata è data dalla disposizione verticale, più che dagli elementi che la compongono, e che variano continuamente. Nell'architettura, dove è eseguita per lo più in bassorilievo, serve a valorizzare parti che per posizione o dimensioni necessitano di quest'artifizio. La stessa funzione occupa anche nella pittura, dove spesso mette in risalto pilastri e architravi dipinti. La grottesca, forse la più interessante delle decorazioni rinascimentali, trae il proprio nome dal fatto di essere "pittura delle grotte", ossia dei grandi ambienti sotterranei nell'Esquilino che un tempo avevano fatto parte della Domus Aurea, il palazzo di Nerone. Verso il 1480 tali ambienti vennero riscoperti, e gli ornati zoomorfi e fitomorfi, bizzarri e mostruosi, furono copiati da quanti si calavano muniti di torcie in quegli antri dove sembrava regnare il meraviglioso. Dai loro taccuini di disegni e dalle annotazioni il motivo trovava diffusione nei dipinti di artisti che mostravano così la propria erudizione, e una cultura aggiornata (1). Certo il gusto del mostruoso, che caratterizza la grottesca, non è specifico del repertorio figurativo romano e di quello rinascimentale che da esso deriva, essendo quasi una costante nella decorazione diogni tempo. Basti pensare ai mostri della scultura e delle miniature tardoromaniche contro cui si scagliava san Bernardo, mostrando come anche ai suoi tempi, come ai tempi di Vitruvio e di Vasari, la bizzarria avesse appassionati cultori e altrettanto appassionati e violenti detrattori. In pratica non vi è soluzione di continuità nell'uso del mostruoso a fini decorativi, che tuttavia nel Rinascimento assume aspetti consoni all'antico, e che dalla Domus Aurea riceve non soltanto il nome ma anche una fisionomia più definita e un grande rilancio, mentre prima si era limitato a poche tracce nei pittori più inclini al gusto per la riproduzione archeologica esatta, come ad esempio il Mantegna (2).
E impossibile trattare separatamente trofei, candelabre, grottesche. Essi infatti interferiscono fra loro, si mescolano e si compenetrano. I trofei si alternano spesso ai motivi grotteschi, le candelabre a loro volta si animano e la loro vegetazione accoglie mostri e animali fantastici, con inserti di putti e medaglioni. Quest'ultima elaborazione, che potremmo chiamare candelabra a grottesche o grottesca dall' andamento a candelabra, è particolarmente pertinente al nostro argomento, in quanto ne fu inventore un grande maestro umbro, Bernardino di Betto detto il Pinturicchio (3). Egli è fra i primi ad adottare per il proprio repertorio decorativo i motivi classici, che studiò con passione dopo essersi trasferito a Roma, e sui muri della Domus Aurea resta ancora oggi iscritto il suo nome. La precedente formazione quale miniaturista nella bottega del Perugino ne asseconda l'inclinazione verso gli ornati minuti e complessi, arricchiti da tocchi preziosi. Le sue grottesche assumono sempre la forma della candelabra, o sono comunque racchiuse entro scomparti che ne delimitano la tendenza a diffondersi (4)'. E notevole la precocità con la quale assimila il motivo, già presente nella cappella Bufalini in Santa Maria in Aracoeli (1483-1485). Qui i pilastri recano elaborate candelabre formate da trofei sovrapposti in armonioso equilibrio, fra i quali spiccano teste medusee, mentre altre recano mascheroni, teste alate, putti, pavoni, quadrupedi e
vasi infuocati. E questa la prima versione di un tipo di candelabra animata che ritorna poi assiduamente, con infinite varianti ma anche con una sostanziale fedeltà alla stesura originaria, negli altri affreschi romani del Pinturicchio, dal Belvedere di Innocenzo VIII al salone del palazzo di Domenico Della Rovere, agli appartamenti Borgia. Inoltre non cessa di costituire l'ornamento privilegiato anche nelle opere umbre, in particolare nella cappella Baglioni in Santa Maria Maggiore di Spello.
Il fascino
dell'elaborazione
ornamentale del Pinturicchio
si riverbera inizialmente sul
più anziano maestro, il
Perugino, che sembra risentirne
direttamente nel San
Sebastiano del
Louvre (1494 circa) (5). Tuttavia
negli ornati della sala
del Cambio a
Perugia la
decorazione grottesca che vi si
dispiega con eccezionale
evidenza, ricoprendo le
volte, mostra una ricerca
indipendente,
caratterizzata da uno
sfoggio di cultura
antiquaria che si traduce
nella frequente citazione di
bassorilievi e sarcofaghi
antichi, e nella riproduzione
accurata di monete e vasi greci. I pittori umbri
non sembrano dunque
coinvolti dalle critiche
che la grottesca suscita fin
dall'inizio, e che
saranno chiaramente
espresse dal Vasari: "Le
grottesche sono una
spezie di pittura
licenziose e ridicole molto".
Viene condannato
il sostanziale
anticlassicismo, determinato
dalla negazione dello spazio,
dalla fusione delle specie, dalla
mancanza di gravità e
dalla proliferazione insolente di
ibridi, malgrado
un'irresistibile
inclinazione alla
simmetria (6), Di sicuro,
comunque, nessuna obiezione
per quanto autorevole
bastò ad arginare
l'enorme diffusione del
motivo, specie nelle arti
decorative.
E già stata
molte volte
evidenziata
1. Grottesca a candelabra negli affreschi del Pinturicchio nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Spello.
l'influenza del Pinturicchio e del Perugino sulla ceramica derutese:
certe tipologie frequenti nei piatti da pompa, profili e busti femminili, angeli
annuncianti, guerrieri, la stessa frequenza dei
cartigli sinuosi con proverbi, nomi,
frasi celebrative denunciano il sicuro collegamento fra la maiolica e
la grande pittura umbra, cui i maiolicari avevano accesso direttamente o
tramite cartoni e disegni, sia che venissero venduti dopo
essere stati utilizzati per pale o affreschi, o addirittura forniti
appositamente per le necessità dei ceramisti, pratica documentata,
ad esempio, per alcuni pittori urbinati. Così
nei piatti da pompa sono talvolta riconoscibili figure ben
determinate provenienti dagli affreschi del Cambio, e comunque le
tipologie dei personaggi sono esemplate su una maniera pittorica che, se anche storicamente esaurisce la
sua funzione con gli inizi del XVI secolo, a livello locale perdura assai più a lungo,
e fornisce un punto di riferimento per la ceramica fin verso la metà del secolo.
Da questo grande momento della pittura umbra sembra giungere alla ceramica anche la tipo logia della "grottesca", che significativamente si svolge a Deruta quasi sempre nella forma della candelabra, e che non è affatto un genere di vasta diffusione, perlo meno fino al XVII secolo. Nel periodo rinascimentale essa si trova su un numero limitato di opere di particolare pregio, attribuibili ai principali maestri, mentre non ha diffusione nei tipi più correnti, se non sporadicamente.
Fin dalla fine del XV secolo, quando la tipologia Petal-back introduce per la prima volta i motivi rinascimentali e l'ordinata disposizione a fasce concentriche, incontriamo nella ceramica derutese l'elemento grottesco, che però si
2. Albarello con satiro in atto di bastonare una ninfa e cavallo che scalcia un leone, Deruta, 1507.
Washington, Corcoran Gallery of Art
limita a qualche testa leonina o a
qualche raro mascherone
posto al centro di
piattelli e vassoi da
acquereccia, o a sirene con
terminazione fogliata, come nel
corredo Testa di moro,
datato 1501-1502.
Lo stesso può dirsi per i
trofei, mentre al contrario abbondano
racemi di foglie di acanto, ghirlande,
cordonature, archetti, ovoli e collane. Agli inizi del
secolo successivo, verso il 1507, si
può parlare di spirito grottesco, ma
non di grottesche vere e proprie,
nell'opera del
maestro autore del
Corredo
caricaturale,
che nei suoi albarelli e
versatori si compiace di
raffigurare satiri che inseguono
ninfe, scene di fustigazioni,
clisteri, spaventapasseri,
mascheroni, in chiave decisamente
eccessiva, volta a far
ridere e stupire. Persino nel pavimento di
San Francesco (1524), gioiello della
maiolica e vera e propria summa
enciclopedica secondo le raccomandazioni di Leon
Battista Alberti, la grottesca viene
evocata soltanto dal mostro con busto di
donna e coda serpentinata che regge una figuretta sul dorso, richiamo a
capri, grifoni, tritoni o altre improbabili creature con
putti, ninfe o geni alati sul dorso, tratti dalle
gemme incise e ricorrenti nelle grottesche in genere,
specie in quelle elaborate dal Pinturicchio e dal Perugino. Il
pavimento non svolge un motivo
decorativo a tappeto,
bensì a cellule autonome, e la mattonella col
mostro dalla coda di serpente rappresenta un episodio in un
contesto quanto mai intellettualmente impegnato. Il
maestro che ne è l'autore utilizza poi lo stesso
motivo al centro di alcuni piatti da pompa, mentre sviluppa una
grottesca vera e propria attorno alle
tese di alcuni piattelli che gli
vanno attribuiti, in cui
capri, cani e teste di
fanciulla attorcono i loro corpi serpentinati intrecciandoli (7). Se anche il motivo si incurva, formando quasi
una cornice attorno alla scena centrale, l'insistita simmetria che fa sì che ognuno dei suoi elementi si ripeta due volte con disposizione speculare denuncia l'inclinazione
irresistibile dei maiolicari derutesi verso la disposizione "a candelabra", che abbiamo più sopra riallacciato al Pinturicchio. Tuttavia, anche se il collegamento con il pittore umbro ci
sembra inevitabile (specie nel caso del pavimento di Spello, di cui parleremo più oltre) questo ingresso piuttosto tardo della grottesca nel repertorio ceramico derutese può far supporre la
mediazione delle stampe, che proprio in quel periodo tocca la massima diffusione, in particolare quelle di Zoan Andrea, seguace e collaboratore del Mantegna, di Nicoletto Rosex da Modena, o di
quelle legate alla bottega di Raffaello e a incisori come il Maestro del Dado, che a loro volta rielaborano il tipo di grottesca in cui eccelle il Pinturicchio.
Una splendida candelabra animata costituisce l'ornato di uno dei piatti
più famosi della produzione derutese, oggi conservato
al Victoria and Albert Museum di
Londra, al cui anonimo autore
viene attribuito il nome di
Painter of the Diruta Plate (v. fig. 4,
p. 266). Ad esso se ne può
collegare un altro, nelle
collezioni
dell'Herrnitage di San
Pietroburgo, affine tipologicamente anche se non
dello stesso autore, e datato 1525.
Questa ci sembra la data più
probabile anche per il primo
piatto, benché
un'abrasione non
permetta di leggere la terza
lettera del1'anno che il
pittore ha scritto sul retro, e
che risulta così "15 ..
5".
Il Painter of the Diruta Plate si mostra assai vicino al Maestro del Pavimento di San Francesco, tanto da generare confusioni attributive, e questo depone a favore della loro contemporanea attività.
Nel piatto la grottesca si dispone a candelabra, ed è formata dal sovrapporsi di una serie di vasi che poggiano su un mascherone, mentre ai lati si dispongono simmetricamente due delfini, due centauri cornuti, due draghi rovesciati con ali di pipistrello. Nel complesso si tratta di un'elaborazione estremamente classicheggiante e piuttosto gelida, caratteristica questa condivisa da tutta la più elevata produzione derutese della prima metà del secolo, fino alla svolta impressa da Giacomo Mancini detto "il Frate". Proprio le grottesche, sagomate a rilievo, disposte a fasce lungo la parete di una serie di elegantissimi vassoi a lustro con al centro profili e immagini che riconducono al Maestro del Pavimento di San Francesco, costituiscono un legame fra questi e Giacomo, cui ci sembra di poter invece attribuire un esemplare della serie datato 1546, con identica decorazione di contorno ma ben diverso spirito interpretativo, sia nel busto di donna dipinto nell 'umbone che nelle fogliette intrecciate sul retro (8) (fig. 3).
Giacomo cominciò ad operare negli anni quaranta con una serie famosa di istoriati, e la sua morte avvenne verso il 1581. La bottega proseguì poi l'attività sotto la direzione dei figli. Con lui viene particolarmente valorizzato il tema della grottesca, protagonista di tre suoi pavimenti: quello ancora al suo posto, ma purtroppo malridotto, nella sagrestia di San Pietro a Perugia (1563, fig. 4); quello in Santa Maria Maggiore di Spello (1566, fig. 5); quello attualmente nel Museo di Arti e Mestieri di Bruxelles (inv. n. 3696), inedito e non ancora studiato.
3· Vassoio da acquereccia con busto di donna
entro grottesche a
rilievo, Deruta, bottega di
Giacomo Mancini (?), 1546.
Parigi, Louvre.
Del pavimento nella sagrestia di San Pietro non rimane ormai molto: presenta una disposizione
a fasce, di cui le più esterne sono ad arabesco e a
vivaci motivi floreali, mentre il centro è occupato
dalle chiavi papali attorno alle quali si svolgono grottesche.
Come in tutta la seconda fase della sua carriera, quella che
oltrepassa la metà del secolo, anche qui Giacomo dà prova di un brio e un vigore che trasformano la
decorazione in un capolavoro di estro e bizzarria. Vi campeggiano giganteschi, orridi
mascheroni dalla bocca spalancata, con la
lingua rossa e i denti bene in vista, dai quali partono
vasi e tralci complicatissimi che sorreggono
angeli che soffiano entro trombe infuocate, sirene alate con ai fianchi teste
mostruose, centauresse, eròti, satiri, cesti e cornucopie colme di frutti e fiori. Sullo stesso modello
si sviluppa il pavimento di Spello, suddiviso in grandi
riquadri circondati da fasce arabescate e
fiorite, mentre le sontuose candelabre centrali poggiano
su mascheroni e su zampe leonine, e sono costituite da un
sovrapporsi fantastico di vasi infuocati, teste,
mostri dal corpo animale e dal viso umano addossati e legati per il collo. Da esse
si dipartono lateralmente, impostandosi sui lunghi tralci sinuosi che
nascono dalla base, grifoni, angeli a cavallo di draghi o che
reggono torce, cavalli alati, tritoni,
cornucopie. Anche se il pavimento, che oggi si trova nella cappella
Baglioni, affrescata dal Pinturicchio, vi fu trasportato in seguito
trovandosi in origine nella zona presbiteriale, si impone tuttavia un confronto con le grottesche dipinte dal
pittore umbro nel 1501, che Giacomo doveva con ogni probabilità
conoscere.
Alcuni dettagli di queste ultime, per esempio la
base dalle zampe
4. Mattonelle dal pavimento della sagrestia di San Pietro a Perugia,Deruta, bottega di Giacomo Mancini detto "il Frate ", 1563.
5. Mattonelle dal pavimento della cappella Baglioni nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Spello, Deruta, bottega di Giacomo Mancini detto "il Frate ", 1566.
leonine, le teste umane intercalate nella candelabra, i satiri e i
fanciulli prigionieri addossati e legati l'uno all'altro,
richiamano assai da vicino l'elaborazione del maiolicaro derutese, la cui ispirazione ci
appare però del tutto diversa.
Alla grottesca monocroma, composta e
classicheggiante del pittore umbro questi contrappone una fantasia vigorosa che,
pur nel rispetto della simmetria, dà l'
impressione di un rigoglio di
vitalità mostruosa, barbarica, di irrefrenabile
esuberanza. Siamo di fronte a una sensibilità prettamente
manieristica per l'effetto visivo
e sensoriale, grazie alla quale il
pavimento si trasforma in un sontuoso coloratissimo tappeto.
Iconograficamente, il pavimento ci
sembra poi altrettanto se non
più vicino alle grottesche del Maestro del Dado, incisore della
cerchia del Raimondi, e in particolare a quella corredata da alcuni versi in elogio di questa forma di
ornato.
Abbiamo già cercato in uno studio precedente
(9) di discutere la possibilità che le
grottesche del pavimento di Spello contengano
una qualche valenza simbolica.
Potrebbe naturalmente trattarsi soltanto di capriccio e di
libero estro fantastico, come per lo
più avviene. Tuttavia non mancano proprio in questo periodo
affermazioni a favore di significati reconditi nelle figure mostruose
e bizzarre che la compongono, come quella
espressa da Pirro Ligorio: "se bene al
vulgo pareno materie fantastiche, tutte erano simboli et cose
industriose, non fatte senza misterio [ ...
] et per mostrare l'accidenti, per accomodare la in satiabilità
delli varij et strani concetti cavati
da tante varietà che sono nelle cose create"(10), e nel
caso specifico di Spello siamo convinte che possa
esserci una chiave di lettura. E significativo, a nostro
6. Miniatura dal privilegio di cittadinanza di Vincenzo, Giovan Battista e Francesco Maria Cantalmaggio, Perugia, Archivio di Stato, Archivio storico del Comune di Perugia, Catasti, III, 66, c. 295r.
avviso, che in una data così tarda, quando ormai la Controriforma sta mettendo
in atto una decisa stretta di freni nell'iconografia religiosa,
purgando la di ogni sfumatura sospetta, si acconsenta a
collocare nel presbiterio di una chiesa di tale importanza, proprio ai
piedi dell'altar maggiore, un pavimento in cui
domina un ornato dichiaratamente di origine pagana.
Non ci sembra che sia
sufficiente la sua qualità decorativa, o la comodità di appartenere al
repertorio consolidato della
bottega derutese, che lo aveva già
utilizzato una volta. La condanna era
già di fatto pronunciata, e non molti anni dopo, nel
1582, essa diventerà
esplicita nelle parole del
cardinal Paleotti il quale, nel suo
Discorso intorno alle immagini
sacre e profane, sottolineerà proprio i
presumibili legami con antichi innominabili culti (11). Tale
condanna doveva già essere nell'aria nel
1566, non dovuta questa
volta, come in precedenza,
all' anticlassicismo insito nella
grottesca, ma a ben più solidi motivi
di ordine morale e religioso. Solo i
significati in essa nascosti potevano in
qualche modo riscattarla, fornendo la
possibilità di una interpretazione
assimilabile alla ortodossia
religiosa.
A Spello
essa ci appare legata a una visione alchemica del
creato, niente affatto in
contrasto con quella cristiana, essendo
possibile leggervi con una certa coerenza l'ascesa
dello spirito verso la perfezione (il
fuoco, il Lapis, il Santissimo
Sacramento sull' altare
soprastante) a partire
dall'elemento demoniaco del mascherone e
delle zampe animali, attraverso tutta una serie di
esseri metamorfici, simbolo della materia che si trasmuta,
corredati di teschi, trofei d'armi,
clessidre, che evocano il tempo che passa e la
terribile fase della "nigredo". Può così
risultare
accettabile quello che altrimenti non lo sarebbe. Dopo il
pavimento di Spello, la grottesca perde
vigore nella ceramica derutese. Nel terzo pavimento del
Frate, quello di Bruxelles,
dai colori più freddi, essa appare più che altro
la replica di un modello
sperimentato, nel complesso priva di
originalità.
Nulla si sa di un quarto pavimento,
eseguito da un figlio del
Frate, Africano, per la
Sforzesca di Castell'
Azzara, noto solo
perché menzionato nei documenti
(12). Nella sua fase
tardocinquecentesca, la bottega
Mancini sembra cimentarsi più
che altro con i primi esempi di
compendiario, stile nel quale produce
esemplari di grande qualità. Per
quel che riguarda invece i trofei,
sono da ricordare alcuni vasi da
farmacia, albarelli e versatori,
facenti parte di un corredo
datato 1565 destinato alla
"Domus Misericordiae",
l'antico ospedale di
Perugia, nei quali l' emblema delle bilance
e la sigla sono circondate da fasce a trofei
velocemente tracciati (13),
con teschi intercalati che si
associano forse all'eterno legame
tra veleno e medicamento, e
all'incombere della morte nella
malattia. Nel XVII
secolo assistiamo a Deruta a un
nuovo trionfo della grottesca,
in veste però completamente
mutata.
Si tratta questa
volta di velocissime e gustose
elaborazioni su fondo bianco, che i
ceramologi sono avvezzi a
chiamare
"raffaellesche", anche se
nel caso specifico
poco hanno a che fare con gli
ornati elaborati da Raffaello e dipinti
dalla sua scuola nelle Logge Vaticane, ben più
classicheggianti e legati
agli esempi antichi. Il
collegamento è invece
straordinariamente diretto e preciso con affreschi e miniature di
artisti perugini coevi, in particolare
Biagio di Angelo Marini e Onofrio
Marini (fig. 6). Sembra quindi
affermarsi nell'ambiente pittorico perugino una decorazione sintetica, a base di sirene bifide alate dai seni divaricati, che
spesso reggono cesti e cornucopie sul capo, affiancate da draghi, uccelli e teste angeliche, e intercalate da fiori, ramoscelli, specchi, cammei e ghirigori vari, in vivaci colori fra i quali
spiccano il verde e l'arancio. Tutte le botteghe derutesi sembrano condividere questa simpaticissima grottesca, che si presenta in forme rigide e semplificate ma anche ricche e piene di fantasia,
come negli esemplari legati al Maestro degli Atteoni. Essa rappresenta a Deruta l'estrema evoluzione del motivo, poiché non pare vi sia mai giunta, come pure avviene in altri centri ceramici
specialmente del nord, la versione proposta dall'incisore lorenese Jean Bérain verso la fine del XVII secolo, più rigida e di gran lunga meno fantasiosa.
L'altro grande centro umbro della maiolica decorata, Gubbio, si colloca nei confronti dei motivi rinascimentali in un ambito diverso, coerente con l'uso che di questi fanno l'arte e l'artigianato marchigiano, più che quello umbro. La bottega di maestro Giorgio Andreoli, l'unica la cui produzione sia ben conosciuta, pur non rifiutando agganci derutesi è nel complesso legata al ducato di Urbino. Sono documentate assunzioni decoratori da Urbino e Casteldurante, e la bottega gravita in quella direzione, stilisticamente oltre che politicamente. Gubbio apparteneva infatti, nel XVI secolo, al ducato di Urbino. Qui candelabre, mascheroni, delfini e altri elementi di grottesca trovarono precoce diffusione su camini, portali, lesene, ad opera di decoratori come Francesco di Simone e Domenico Rosselli.La produzione precoce della bottega di maestro Giorgio e di altre botteghe eugubine è tuttora quasi sconosciuta. Se può essere considerata valida la nostra proposta di attribuire all' eugubino maestro Giacomo di Paoluccio il grande piatto del Louvre con i due cacciatori (fig. 7) (14) al quale si lega stilisticamente quello famoso dello stesso museo con l'Antonia sopposta (15),essi ci forniscono un esempio precoce di tese a trofei d'armi e musicali, intervallati da mascheroni. Il piatto con l'Antonia è datato 1510, mentre non è possibile dare una datazione esatta all'altro esemplare, che a nostro avviso è anche cronologicamente vicino al precedente, e che non va comunque collocato oltre il 1519, quando maestro Giacomo risulta ormai morto (16). Il piatto con i cacciatori ha oscillato a lungo come attribuzione fra Deruta e Gubbio; tuttavia il tipo di lustro, e soprattutto la firma "Giacomo" che compare ben leggibile sul retro, ci hanno ormai convinto che esso appartiene alla produzione precoce delle botteghe di Gubbio.
In tal caso i motivi del pieno Rinascimento, e in particolare grottesche e trofei, comparirebbero qui con leggero anticipo rispetto a Deruta dove, come abbiamo visto, non sembrano avere un completo sviluppo prima degli anni venti.
Contemporaneamente a Giacomo, anche Giorgio è attivo fin dalla fine del xv secolo, ma la prima opera sicura, il piatto del Victoria and Albert Museum del cosiddetto Servizio dell'alabarda, reca la data 1515 (17). È ornato da un motivo a serpenti mostruosi con la testa di delfino che si attorcono fra trofei e cornucopie, circondando un elemento centrale costituito da un vaso di frutta e da due teste angeliche. Elementi decorativi simili, variamente associati, si trovano in una serie di piattelli generalmente attribuita a Casteldurante (18),
7. Piatto a lustro con due cacciatori e tesa a trofei, Gubbio, maestro Giacomo di Paoluccio, 1510 circa.
Parigi, Louvre.
8. Piatto stemmato con putti, trofei e cornucopie, Gubbio, bottega di maestro Giorgio Andreoli, 1520.
San Pietroburgo, Museo del! 'Hermitage.
sia a lustro che soltanto policromi, testimonianza di affinità decorative dovute al fatto che maestro Giorgio impiegava maestranze durantine, oltre che
urbinati.
La tipologia perdura all' interno della bottega, e ritroviamo ad esempio la grottesca con
vaso e testa angelica al centro, mostri serpentiformi, cornucopie e trofei tutt'attorno anche su un piattello a
lustro datato" 1519" (19). In questo periodo, tuttavia, diviene frequente
l'inserimento di grandi putti che giocano fra trofei e cornucopie, tengono in mano tralci che terminano in teste mostruose, vi siedono
sopra, afferrano grappoli d'uva.
Talvolta assumono connotazioni legate al neoplatonismo, come nel piatto dell 'Hermitage di San Pietroburgo (1520) in cui uno stemma non identificato è
sormontato da un Eros bendato (fig. 8) (20), allusione all'amore terreno.
Talaltra invitano a interpretazioni in chiave alchemica, come nell'attraente esemplare del Petit Palais di
Parigi, dove dodici bimbi si arrampicano su un albero per raccogliere grappoli (21). Il riferimento ceramico più evidente è alla
coppa del durantino Zoan Maria, datata 1508, nella quale quattro grandi eroti si atteggiano, assieme a due satiri,
attorno alle armi del papa Giulio II Della Rovere. Non per nulla il Rinascimento è "l'età del putto", e, a partire dalla cantoria di Donatello, frotte di bimbetti
nudi e danzanti, più o meno angelicati, dominano la decorazione e costituiscono uno dei più frequenti richiami
all'antico, perfino in contesti persistentemente gotici.
Così, un tempietto classico con una danza di putti è raffigurato su una stampa di scuola fiorentina della metà circa del XV secolo, anche se al
suo interno Paride ed Elena vestono ancora sontuosamente secondo
9. Piatto con putto alato e trofei attorno alla tesa, Gubbio, bottega di maestro Giorgio Andreoli, 1524.
Londra, British. Museum.
10. Piatto con al centro lo stemma Vitelli - Della Staffa e tesa a palmette classiche, Gubbio, bottega di maestro Giorgio Andreoli, 1527.
Londra, British. Museum.
la moda borgognona (22). E possibile che, in ambito marchigiano,
gli artigiani siano stati particolarmente colpiti dagli stucchi del
palazzo Ducale di Urbino, in particolare da
quelli raffiguranti putti sul camino della sala della Jole. Un
altro tramite può essere stata la grande influenza che Agostino di Duccio esercitò nella
cultura figurativa dell'Italia centro-orientale tramite
i rilievi del tempio Malatestiano di Rimini, mentre un'influenza molto più ridotta sembrano
avere le sue opere perugine, tanto è vero che i
ceramisti derutesi sono inizialmente assai poco
propensi al motivo. Esso era poi destinato a
diffondersi ovunque tramite le stampe della cerchia del Raimondi,
e in un certo senso nelle Marche trovò
che il terreno era già preparato. Presso la
bottega di maestro Giorgio, la fase di questi grandi putti dalle
collane di corallo al collo e alle caviglie e
dagli atteggiamenti leziosi si esaurisce poco dopo
il 1520. In seguito essi si collocano per lo più al centro di piatti
e sco delle, e ne divengono uno degli ornati più
frequenti, in atto di cavalcare cavallucci di
legno, giocare a palla, ostentare arco e frecce o tenersi in
equilibrio sulle mani.
Elementi
grotteschi e trofei continuano però a costituire la
decorazione dominante della bottega di Giorgio ancora per qualche anno.
Ad esempio, i
trofei si trovano abbondantemente sul servizio
contrassegnato da un emblema di appartenenza entro cui è tracciata
la lettera "S". In questo servizio, che comprende anche
alcuni istoriati eseguiti in una maniera piuttosto vicina a
quella del monogrammista "F R", essi si
alternano talora ad elementi flore ali, delfini
mostruosi, arpie dal collo di serpente e cornucopie (fig. 9). Dopo
il 1524 il loro uso sembra però gradualmente
scomparire, sostituito quasi interamente dagli ornati a palmette classiche. Riprende vigore soltanto dopo il 1530, in una serie di piatti con busti maschili e femminili incorniciati da un cartiglio arrotolato, attorno al quale ritroviamo delfini, scudi e faretre, teste alate di putti.
Tra i motivi rinascimentali presenti a Gubbio, quello a "palmetta classica" è di particolare rilevanza, frequentissimo attorno alle tese di piattelli con al centro i soliti putti che giocano, o gli stemmi miniati di alcune nobili famiglie, fra cui i Saracinelli di Orvieto o i Vitelli di Città di Castello (fig. 10). Esso si associa talvolta a piccoli girali con un tondo centrale che ricorda un po' la stilizzazione dei delfini nella grottesca. Il motivo classico della palmetta è comune nei fregi architettonici di buona parte d'Italia, e si ricollega probabilmente alle fasce ornamentali delle ceramiche greche rinvenute in tombe etrusche. A Gubbio ornava gli architravi dei portali nella basilica del beato Ubaldo, e compariva anche nel palazzo ducale. Questa presenza in edifici prestigiosi può aver contribuito non poco a indirizzare le scelte decorative dei ceramisti.
La produzione a palmette cessa verso la metà degli anni trenta, sostituita dalle notissime coppe a rilievo su basso piede che costituiscono, nella fase tarda della bottega, la tipologia di gran lunga prevalente. Attorno alla loro parete si dispongono talora radialmente delfini ricurvi, ma per lo più gli ornati sono ora costituiti da fogliame frastagliato intercalato da bacche, raggi serpentinati e frutti simili a pere o mele cotogne.
Presso le botteghe di Gubbio la grottesca non sembra avere un futuro, nemmeno nella versione su fondo bianco. Stranamente, le cosiddette "raffaellesche", così diffuse nelle Marche a partire dalla metà del XVI secolo e a Deruta in quello successivo, non compaiono nella ceramica eugubina, perlomeno in quella attualmente nota.
Questo è probabilmente dovuto da un lato alla particolare rilevanza e aggiornamento culturale della bottega urbinate dei Fontana, presso la quale il motivo ha trovato le sue migliori applicazioni, spesso con derivazioni colte dalla pi ttura contemporanea; dall' al tro, c'era la ferrea determinazione dei maiolicari derutesi a non perdere terreno nei cospicui mercati su cui irradiavano i loro prodotti, dalla Toscana al Lazio, e la conseguente necessità di stare al passo coi tempi. Per Gubbio sono invece anni di decadenza economica, soprattutto per quel che riguarda il campo ceramico: la gloriosa bottega degli Andreoli cessa la propria attività verso gli anni settanta, con la morte di Vincenzo, figlio di Giorgio. È ancora attivo maestro Vittorio, detto "il Prestino", autore di alcuni esemplari di grande prestigio. La quasi totalità della produzione sembra però ripiegare su un un genere modesto, per lo più destinato a ospedali e spezierie locali, non troppo esigenti in fatto di aggiornamento nelle decorazioni. Se si rinviene negli scavi vasellame a "raffaellesche", si tratta di importazioni dalla vicina Urbania, specializzata in versioni corsive del motivo urbinate, eseguite con grande rapidità.
Soltanto dopo il 1850, con la grande stagione del Revival e dell'eclettismo storicistico, si assisterà anche a Gubbio al recupero di grottesche, trofei, candelabre e di tutte le antiche decorazioni cinquecentesche, arricchite da uno sfavillante lustro rosso rubino, anch' esso ritrovato.
1. Per queste prime esplorazioni nel mondo della grottesca, v. Dacos, 1969.
2. Basti pensare al fregio di sirene con
terminazione a foglia che orna un
edificio sullo sfondo del
Martirio di san Cristoforo, ne-
gli affreschi degli
Eremitani, in una data tanto precoce come la metà del
xv secolo.
3. Dacos, 1969, p. 69.
4. Come nota la Dacos (1969), l'unico possibile esempio contrario potrebbe essere costituito dai soffitti di castel Sant'Angelo, perduti, sui quali il Vasari ricorda che egli dipinse "infinite stanze a grottesche".
5. Dacos, 1969, p. 74 ss.
6. Chastel, 1989, p. 17.
7. Cfr., ad esempio, Londra, British Museum, inv. MLA 1878, 12-30,417; Fiocco-Gherardi, 1994, p. 246, n. 140.
8. Ivi, nn. 152-154.
9. Ivi, pp. 3-14.
10. In Battisti, 1989, I, p. 183; v. anche Chastel, 1989, pp. 51-52.
11. Chastel, 1989, p. 63.
12. Nicolini, 1986, p. 27.
13. Fiocco - Gherardi, 1994, n. 193.
14. Parigi, Louvre, inv. OA 1257.
15. Ivi, inv. OA9205; Giacomotti, 1974, p. 140, n. 477.
16. Biganti, 1987, p. 212.
17. Londra, Victoria and Albert Museum, inv. C 477-1921.
18. Cfr., ad esempio, Giacomotti, 1974, n. 747.
19. Parigi, Louvre, inv. OA 7589; Giacomotti, 1974,n. 751.
20. San Pietroburgo, Hermitage, inv. F 396.
21. Parigi,
Petit Palais, inv. 1090.
22. Panofsky, 1971, p. 205, tav. 136.