Carola Fiocco - Gherardi Gabriella, in “Faenza”, bollettino del Museo internazionale delle ceramiche in Faenza, n.1-6, 2010, p.193)
Questo bacile di forma inusuale proviene da una delle più note collezioni del passato, quella di Sir Andrew Fountaine, dispersa presso Christie’s nel giugno 1884 (fig. 1,2,3)[1].
E’ elencato nel catalogo al numero 392, non riprodotto[2]. Poiché se ne erano perse le tracce, questa è finalmente l’occasione per esaminarlo in maniera esauriente.
Le misure sono notevoli: 47,62 centimetri il diametro, 20,32 l’ altezza. La forma, definita “antica” nel catalogo e in effetti vagamente simile al cratere, si presenta rastremata al centro, con il bordo fortemente svasato, su un piede basso. Le due anse sono costituite da mascheroni plastici di satiri con corna ricurve, dai quali escono spire serpentine che si avvolgono e che terminano ciascuna in una foglia verde lobata. E’ possibile che il vaso avesse funzione di rinfrescatoio.
All’interno, entro una fascia a grottesche incorniciata da archetti e ovoli puntinati, è dipinta la Fine del diluvio, tratta da un’incisione delle Metamorphose di Jean de Tournes, Lione 1557, attribuita a Bernard Salomon (fig.4). Poseidone percorre il mare sul suo cocchio–conchiglia, trainato da due cavalli dalla coda di pesce. Attorno a lui i tritoni suonano le trombe, segnalando alle acque di calmarsi. Sullo sfondo si erge una roccia verdeggiante, che non è stata sommersa dalle acque, in cima alla quale è posata un’impresa ben nota: una pietra in fiamme inquadrata da due cartigli ricurvi, su cui si legge la scritta Ardet Aeternum. La grottesca di contorno riprende il tema marino, contrapponendo Poseidone e Anfitrite ai due estremi del bacile, affiancati da tritoni che sorreggono nereidi.
All’esterno le anse delimitano due spazi rettangolari in ciascuno dei quali svolazzano due amorini con una torcia accesa in mano, mentre con l’altra sorreggono un quadro dalla ricca cornice. Al suo interno, su fondo giallo, sono sommariamente tracciati due momenti del mito amoroso di Apollo e Dafne: nel primo il dio insegue Dafne ancora completamente umana, nel secondo la ninfa ha le braccia ormai interamente trasformate in rami frondosi. Nella parte bassa del bacile, tutt’attorno al piede, si svolge una fascia di tralci gialli su fondo blu.
L’impresa dipinta in cima alla roccia indica che il bacile appartiene a una credenza famosa, di cui sono noti altri esemplari[3], e che si ritiene sia stata fatta per il quinto duca di Ferrara, Alfonso II d’Este (1533-1597). Egli regnò dal 1559 alla morte, ebbe tre mogli e amò le credenze maiolicate. Nel corso del suo secondo matrimonio con Barbara d’Asburgo (1565), arciduchessa l’Austria e figlia dell’imperatore Ferdinando I, fu infatti per lui commissionato a Faenza uno splendido servizio compendiario dall’aspetto molto ufficiale: vi figura al centro lo stemma di alleanza Este-Asburgo Ungheria, contornato dal cordone di San Michele. Fedelissimo del re di Francia, il duca era stato infatti insignito di questo ordine, come già suo padre prima di lui.
La credenza Ardet Aeternum è invece legata al terzo matrimonio di Alfonso con la giovane Margherita Gonzaga, avvenuto nel 1579. Niente stemmi o cordoni di ordini cavallereschi in questo caso, ma un’impresa che esalta la fiamma d’amore e la sua persistenza. E’infatti comunemente accettato che vi figuri in fiamme la pietra asbesto, il cui nome in greco significa “inestinguibile”, e alla quale veniva riconosciuta la proprietà, una volta accesa, di non spegnersi più[4]. L’asbesto è dunque, per facile associazione, il simbolo dell’amore inestinguibile, e per di più pare fosse collocato nel lampadario del tempio di Venere[5].
Con questo significato amoroso figura nella credenza. L’impresa è stata usata anche da altri[6], ma sulle maioliche è stilizzata esattamente come sul retro di una medaglia commemorativa del matrimonio Este-Gonzaga, con i due cartigli che la racchiudono e la incorniciano, richiamando l’immagine di un cuore.
Si riteneva un tempo che l’esecuzione della credenza coincidesse sostanzialmente con la data del matrimonio fra Alfonso e Margherita, avvenuto nel 1579. Il realtà tale data è soltanto il post-quem per la realizzazione. Alcuni elementi fanno infatti pensare che si tratti di un’opera successiva[7].
Il duca morì nel 1597, e la duchessa il 6 gennaio 1618. L’esecuzione potrebbe quindi essere collocata in qualunque momento fra il 1579 e il 1618. La mancanza nella decorazione di allusioni funerarie, e la presenza frequente di putti con le fiaccole ben accese, anche se a volte pendule verso il basso, induce però a ipotizzare una data precedente la morte del duca. La fiamma ricorre spesso nella decorazione, e riprende probabilmente il tema dell’impresa.
Da un punto di vista stilistico l’attribuzione è alla bottega Patanazzi di Urbino, dove fu eseguita probabilmente verso il 1590-‘97, periodo in cui Francesco ne era a capo.
Lo conferma il legame stilistico fra l’Ardet Aeternum e la credenza Ruiz de Castro, attribuibile a Francesco per via documentaria e databile agli ultimi anni del 1500[8]. E’ difficile infatti immaginare affinità più stretta di quella fra la fiasca Ruiz de Castro del British Museum di Londra [9] e quella Ardet Aeternum con le allegorie dell’Autunno e dell’Inverno dello stesso museo[10]: innanzitutto la forma, quindi le decorazioni che circondano il piede e il collo. Infine la grottesca, caratterizzata da sfingi crestate e alate dal collo e dal mento prominenti, e dalla presenza di scimmie intente a mangiare o a fumare lunghe pipe a ramoscello.
Il padre di Francesco, Antonio, era morto nel 1587, e la sua influenza è ben visibile nel corredo farmaceutico di Roccavaldina (1580), nel quale anche le grottesche più sciatte rielaborano sostanzialmente gli elementi di quelle sui vasi da lui firmati, magari deformandoli per eccesso di semplificazione[11]. La grottesca di Antonio, e di Roccavaldina in genere, è caratterizzata da sfingi e satiri che terminano in due appendici attorte a spirale, oppure in una sola con le spire strettamente avvolte, fino a formare una specie di conchiglia conica(fig.5,6). Vi sono poi mascheroni e delfini dalle creste appuntite e ricurve, uccelli, grappoli di uva, quadrupedi dalla testa umana e draghi alati, leoni etc.
Nell’Ardet Aeternum l’elemento che richiama più da vicino Roccavaldina non sono le grottesche, ma la fascia azzurra attorno alla base del bacile ex Fountaine, percorsa da rameggi frastagliati gialli e arancio su fondo blu (fig.7). Per il resto gli elementi grotteschi vengono elaborati diversamente. Scompaiono quasi del tutto le terminazioni a spirale, così caratteristiche della grottesca di Antonio[12], le figure appaiono meno fitte, più grandi, e vi spiccano esseri fantastici dotati di ali con una specie di cappellino nero a punta dall’aspetto orientaleggiante. Ecco poi grandi felini maculati, draghi con la testa di rapace, putti o sirene che reggono drappi o rameggi, uccelli di vario tipo (fig.8). Eseguita con maggiore o minore accuratezza, questa grottesca caratterizza nel tempo la produzione di Francesco Patanazzi e della sua bottega. Nei pezzi importanti (ad esempio il bacile trilobato del Louvre con la Pietà e lo stesso bacile ex Fountaine) risulta elaborata, curata; nei piattelli ha un numero inferiore di figure eseguite più velocemente. Si arricchisce poi di scene di caccia con cavalieri e cani, liberamente tratte dal Tempesta. Anche le stampe del Ducerceau ne costituiscono sicuramente una fonte [13]: da qui provengono, ad esempio, i due draghi addossati dal collo ricurvo e abbassato collocati talvolta alla base dei piatti(fig.9)
Nel bacile ex Fountaine, le grottesche sono particolarmente ricche rispetto alla media del servizio, e comprendono gruppi caratterizzati da una divinità centrale in piedi affiancata da tritoni che sorreggono ninfe. Questo schema viene utilizzato solo nei pezzi importanti, ad esempio su un grande bacile trilobato del Museo Civico Medievale di Bologna[14], e anche in quello famoso del British Museum datato1608, con l’iscrizione relativa alla bottega di Francesco Patanazzi[15].
La decorazione istoriata centrale, che riprende la stampa del Salomon, è eseguita con straordinaria finezza. Se, come è opinione di alcuni[16], nel servizio è possibile riconoscere più mani, questa è senz’altro una delle migliori. E’ del resto uno dei pezzi più grandi, cui dovevano venire dedicate attenzioni particolari.
C’è un legame fra i soggetti principali? Sembrerebbe di no, vista la grande varietà dei temi. Si spazia infatti dai temi allegorici (la Pietà, le Stagioni) a quelli mitologici (Poseidone calma le acque dopo il diluvio, divinità marine e fluviali, divinità olimpiche), a scene storiche (Ciro e Cambise), di caccia, e ad una nutrita serie di amorini in vari atteggiamenti: con girandole, legati a un palo, seduti fra le nuvole con ramoscelli in mano, etc. Prevale quindi un atteggiamento enciclopedico, svincolato da un tema preciso, come avviene invece per altre importanti credenze urbinati.
[1] Uomo coltissimo, diplomatico e viaggiatore, sir Andrew Fountaine è particolarmente noto come collezionista. Durante un viaggio in Italia nel 1702 divenne amico di Cosimo III dei Medici, granduca di Toscana. Egli intraprese un secondo grand tour nel 1714, accogliendo maioliche, dipinti e sculture per sé e per il conte di Pembroke, di cui più tardi catalogò la collezione. Morì a Narford nel 1753. La sua collezione fu dispersa nel 1884, e richiese ben 4 giorni di vendita.
[2] Catalogue of the Celebrated Fountaine Collection of Majolica…Christie, Manson & Woods 16 giugno 1884
[3] Per un elenco degli esemplari noti, v. Dora Thornton, Timothy Wilson, Italian Renaissance Ceramics, a Catalogue of the British Museum Collection, London, The British Museum Press, 2009, vol.I, scheda 240 p. 408
[4] Isidoro di Siviglia (560-636), Etymologie, libro XVI, cap. IV “Eo quod accensus semel, numquam extinguitur”. V. anche Bartholomaeus Anglicus, De Proprietatibus rerum (1491) ed. Londinii 1535 , libro XVI cap. XII
[5] Enrico Cornelio Agrippa, De Occulta Philosophia, libro I capitolo IX
[6] Camillo Camilli (Imprese illustri di diversi, in Venetia, Appresso Francesco Ziletti, 1586, parte prima, pp. 37-39) l’attribuisce al giovane Curzio Borghesi, senese, che intendeva indicare la perseveranza del suo animo.
[7] La fonte iconografica del piatto inv.122 del Museo di Arti Applicate del Castello Sforzesco di Milano su cui sono raffigurati Ciro di Persia e Astiage (Raffaella Ausenda, Musei e Gallerie di Milano, Museo d’Arti Applicate: le ceramiche, I, Milano 2000, scheda n. 234 redatta da T. Wilson) sembra essere posteriore. Si tratta infatti di un’incisione di Adrien Collaert da Marten de Vos, della serie dei Quattro Imperi del Mondo. Tale serie non è datatabile con precisione ma, secondo Carl Depaauw, studioso delle opere di Marten de Vos, citato dal Wilson, le prime testimonianze conosciute di una collaborazione tra Collaert e de Vos sono del 1581. Il Depaauw propone quindi per la stampa il 1585 circa. Naturalmente questo vale solo per il piatto in esame, e non per l’intero servizio.
[8] Negroni Franco, "Una famiglia di ceramisti Urbinati: i Patanazzi",Faenza, LXXXIV, 1998, 1-3, p. 104-115.
[9], Dora Thornton, Timothy Wilson op.cit. 2009, vol I, n. 242
[10] Ibidem n. 240
[11] Cfr. C. Fiocco-G. Gherardi, “ Alla ricerca di Antonio Patanazzi” , inFaenza, bollettino del Museo internazionale delle ceramiche, XCV, 2009, 1-6, p. 64
[12] Permane talvolta, ad esempio nelle code dei delfini affrontati su un piatto con putto armato in collezione privata (ripr. in Ravanelli Guidotti Carmen, “Le credenze nuziali di Alfonso II d’Este”, in Le ceramiche dei Duchi d’Este dalla Guardaroba al collezionismo, a cura di Filippo Trevisani, catalogo della mostra, Milano, Federico Motta ed., 2000, tavola V f).
[13] Christopher Poke, "Jacques Androuet I Ducerceau's 'Petites Grotesques' ad a source for Urbino maiolica decoration", in The Burlington Magazine, June 2001, p. 332-342
[14] Inv. 1094, Carmen Ravanelli Guidotti, Ceramiche occidentali del Museo Civico Medievale di Bologna, Bologna 1985 n.170
[15] Thornton-Wilson op.cit.vol. II n. 364
[16] Cfr. ad esempio Alexander V.BNorman, Wallace Collection, Catalogue of Ceramics. 1, Pottery, Maiolica, Faïence, Stoneware, London 1976, p.226