Carola Fiocco - Gherardi Gabriella. In I quaderni dell'Emilceramica, n.20, Pasqua 1994, p.3-14.
Uno dei più bei pavimenti rinascimentali, di fattura derutese, è conservato a Spello. La piccola città, alle falde meridionali del monte
Subasio, è ricca di storia e di monumenti al di là delle sue dimensioni. Di antica origine umbra, poi municipio romano, fu annessa nel medioevo al ducato di Spoleto,
passò alla Chiesa, si costituì in comune ghibellino, quindi appartenne a Perugia. A partire dal XVI secolo fu contesa da una lunga serie di signori - Bartolocci, Baglioni,
Michelotti, Visconti, Da Montone, Montefeltro e di nuovo Baglioni - per poi tornare al diretto dominio della Chiesa sotto papa Gregorio XIII,
nel 1583. Queste complesse vicende hanno lasciato tracce nell' anfiteatro, nelle porte, nelle antiche case e piazze. Fra le chiese, Santa Maria
Maggiore è forse la più importante. Fu iniziata nel secolo XII, e completata nel 1285. I Baglioni, la potente famiglia che tenne a lungo la signoria di Perugia e per
alterni periodi anche quella di Spello, vi ebbero la propria cappella, che fu affrescata da Bernardino di Betto, detto «il Pinturicchio»,
nel 1501. Gli affreschi rappresentano
l'Annunciazione, l'Adorazione dei
pastori, le Sibille, e assieme al variopinto pavimento in maiolica fanno sì che sia pienamente meritato l'appellativo di «Bella» con cui la
cappella viene comunemente chiamata.
Ma la collocazione originale del pavimento non era quella attuale. Si trovava infatti nel presbiterio, ai piedi dell' altar maggiore, e solo successivamente fu trasferito nella cappella dei Baglioni, con il cui progetto decorativo non ha nulla a che fare (1). Non siamo quindi di fronte a uno dei casi, frequenti in maniera sorprendente, in cui ambienti affrescati dal Pinturicchio hanno pavimenti maiolicati, denotando forse una particolare sensibilità del pittore, che secondo la tradizione era imparentato a Deruta: ad esempio, la cappella Basso-Della Rovere in Santa Maria del Popolo a Roma, gli Appartamenti Borgia in Vaticano, la Libreria Piccolomini e il Palazzo Petrucci a Siena (2).
Il Guardabassi descrisse nel 1878 il pavimento nella sua sede originale, informandoci che nella iscrizione che un tempo vi figurava erano incluse le iniziali «F.D.», forse riferibili all'autore, il «Frate da Deruta» (3). Il Pomponi nel 1926 lo vide invece già rimosso nella attuale collocazione (4).
Il pavimento consiste di tre grandi pannelli, due rettangolari e uno quadrato, formati rispettivamente di 12 mattoni quadrati disposti 3 per 4, e da 9 disposti 3 per 3. Ciascun pannello è doppiamente incorniciato da due fasce, una più interna di mattoni rettangolari, una più esterna di mattoni quadrati, grandi quanto quelli al centro. La presenza delle cornici e il fatto che gli ornati si distendano ininterrotti da un mattone all' altro rendono con efficacia l'impressione di un grande tappeto, accentuata dai brillanti colori tipici della maiolica derutese della seconda metà del secolo XVI: verdi intensi, aranci, gialli e blu di varie gradazioni che spiccano sul fondo bianco con effetti vivacemente decorativi.
Nella parte centrale dei pannelli si sviluppano, attorno a una candelabra, elaborate ornarnentazioni disposte simmetricamente, nelle quali si è esercitata la fantasia del maestro o del committente. Le cornici sono invece arabescate, con un unico motivo che si svolge in una specie di ghirlanda nella fascia più interna, con due che si alternano inscritti in un quadrato e formati da nastri e fogliame stilizzato in quella più esterna.
Due dei pannelli sono praticamente uguali, e presentano varianti di scarsa entità: la candelabra centrale
reca alla sua base un mascherone ghignante' dall' aria demoniaca, sulla testa del quale è un cartello con la data «1566». Si sovrappongono poi due mostri con il corpo da
quadrupede e la testa umana, addossati e legati per il collo, e un grande vaso che erutta fiamme, verso il quale accorrono due angeli ignudi con le mani giunte.
Dal mascherone di base escono tralci animati terminanti in cornucopie, giovani alati che soffiano fuoco dalle loro trombe, cavalli alati. Due
pavoncelle beccano quanto trabocca dalle cornucopie, cariche di melograne e altri piccoli frutti. I mostri
addossati, con volto umano, zampe equine e scimmiesche e corna di capri, reggono le
estremità di una ghirlanda in cui sono inseriti due specchi, un trofeo d'armi e un teschio.
Nel pannello più grande la candelabra poggia su zampe leonine, e culmina in una testa femminile che regge un vaso di fuoco. Ai lati sono due cornucopie, e rameggi fioriti sui quali siedono putti alati con fiaccole accese, e alle cui estremità sono appesi due specchi. Dalla parte mediana fuoriesce un altro girale che termina in due cavalli, su cui si siedono putti alati con una clessidra in mano. Più in basso, altri girali terminano in due grifoni affrontati.
Siamo quindi di fronte a una versione particolarmente elaborata
dell' ornato «a grottesche», fra i preferiti del Rinascimento, che ha origini nell' antica Roma. Infatti, anche se il gusto
del fantastico e del mostruoso si prolunga per tutto il Medio Evo, ed è ben presente nella decorazione romanica e gotica,
esso si riorganizza nel Rinascimento secondo il modello antico, che dal terzo stile pompeiano trova il suo culmine nelle decorazioni murali della Domus Aurea, la reggia di
Nerone (metà del I secolo d.c.).
I ruderi di questa, interrati, vennero riscoperti nel XV secolo, agli inizi degli anni '80, e le pitture copiate da artisti che si calavano appositamente nei
meandri dell'Es quilino , e le traducevano in disegni e incisioni. Il fatto stesso del ritrovamento in «grotte» e oscure spelonche, da cui trassero il nome
5, contribuì a dare loro un'aura di mistero. Per la bizzarra mescolanza di elementi zoomorfi, mostruosi e vegetali, colpirono la fantasia
degli artisti, che le adottarono con entusiasmo soprattutto a partire dall'ultimo decennio del secolo, non a caso in un periodo in cui l'antichità era vista come
depositaria di una sapienza ermetica filtrata attraverso il neoplatonismo 6. In precedenza,
pittori-archeologi come il Mantegna si erano già serviti di elementi di grottesca per le parti decorative dei loro dipinti, ma
sporadicamente.
Verso la fine del secolo XV, in perfetta sincronia con la grande pittura, anche i maiolicari introducono nei vecchi contesti gotici la
nuova decorazione, dapprima a frammenti, poi con sempre maggior sicurezza.
Mascheroni e sirene compaiono precocemente in contesti datati «1487», come il pavimento Vaselli in San Petronio a Bologna e il gruppo plastico con il Compianto su Cristo
morto del Metropolitan Museum di New York (7). Nel primo decennio del secolo successivo le grottesche
appaiono già in pieno sviluppo sia nelle officine dell'Italia settentrionale che in quelle del centro; basta guardare
i due piatti di Modena e N ew York, generalmente attribuiti a Faenza, e la coppa di Zoan Maria da Casteldurante, datati tutti «1508» (8).
Malgrado giungessero al Rinascimento gravate dalla condanna dell' architetto Vitruvio, le grottesche trovarono immediata fortuna presso le personalità più estrose, come Filippino e l'Aspertini, ma fra i primi ad usarle vi furono anche il Pinturicchio e il Signorelli. In seguito, esse si legano particolarmente a un personaggio piuttosto misterioso, Pietro Luzzo soprannominato «Morto» da Feltre, e a Giovanni da Udine, allievo di Raffaello. Proprio la scuola di Raffaello è principalmente responsabile della diffusione ovunque delle grottesche, sia tramite stampe che attraverso la diaspora degli artisti, come nel caso dell'Imperiale di Pesaro. Più tardi, i suoi caratteri fantastici e innaturali destarono l'interesse dei manieristi. Chiaramente legata alla maniera si presenta la grottesca di Spello, vicina com'è alle incisioni di Enea Vico e del «Maestro del Dado». In particolare, ci appare in sintonia con una versione che il Maestro del Dado, incisore della cerchia del Raimondi, trasse probabilmente da un disegno di Perin del Vaga, e che è corredata da alcuni versi in elogio per questo tipo di ornato, sempre bisognoso di giustificazioni a fronte di quanti ne condannavano l'eccentricità. Il caratteristico aspetto capriccioso e incontrollato, che mescola specie diverse dando luogo alla formazione di ibridi, del tutto in contrasto con la teoria del «decorum», fu infatti all' origine di reazioni sdegnate, fra cui quella del Vasari, che le definì «pitture licenziose e ridicole molto»(9). E certamente anche questo sono le grottesche. Vi si dispiega talvolta al più alto grado la licenza, il libero gioco della forma, per cui gli artisti inventano senza alcuna regola o vincolo, sia pure in ritmi rigorosamente simmetrici, creando mostri e bizzarrie, in composizioni che rispondono solo al gusto decorativo, rinunciando a criteri di verosimiglianza o realtà. Il Gombrich, che appare propenso a evidenziare questo aspetto gratuito, sottolinea però come la libera associazione dei motivi, l'immaginazione senza freni che produce accostamenti imprevisti, divertenti e un po' inquietanti trovi la sua collocazione ideale in zone poco impegnative, quali il giardino e le logge (10). Quando si passa a luoghi di maggior prestigio, allora diviene legittima la ricerca di significati esoterici e simbolici, attraverso la quale passa, nel Rinascimento, la difesa della grottesca, che si riscatta proponendosi come tramite di contenuti che non possono né debbono essere alla portata di tutti. Su questo linguaggio iniziatico, che abbina l'attrattiva sensoriale a quella conoscitiva, insiste ad esempio il Battisti, riportando le parole di Pirro Ligorio, scritte subito dopo la metà del Cinquecento: «se bene al vulgo pareno materie fantastiche, tutte erano simboli et cose industriose, non fatte senza misterio ... et per mostrare l'accidenti, per accomodare la insatiabilità delli varij et strani concetti cavati da tante varietà che sono nelle cose create» (11).
È dunque legittimo proporre una chiave di lettura simile per il pavimento di Spello, che si collocava in una zona di altissimo prestigio quale il presbiterio di una grande chiesa. Senza contare che esso appartiene a un periodo in cui si iniziano a stringere i freni della libertà artistica nelle chiese, secondo le indicazioni scaturite dal Concilio di Trento, e che non molti anni dopo, nel 1582, si giungerà a una nuova, decisa condanna della grottesca, questa volta in chiave religiosa controriformistica, da parte del cardinal Paleotti.
Rinnovando gli argomenti già usati a suo tempo da San Bernardo contro le mostruosità nella decorazione romanica, egli, nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane, si scaglia contro questa «ridicula difformitas» per di più legata presumibilmente ad antichi culti pagani (12). Solo l'espressione di significati elevati può dunque riscattare la grottesca nel momento in cui, con la scuola dei Carracci, sta per essere accantonata, per lo meno nella sua forma cinquecentesca.Leggeremo quindi gli ornati di Spello secondo una duplice valenza. Da un lato, come in tutta la decorazione manieristica, vi è al suo culmine l'elemento visivo e sensoriale, in questo caso l'effetto a tappeto di grande vivacità pittorica. Dall' altro vi si abbina con ogni probabilità un linguaggio simbolico e concettuale, non organizzato e chiaro nei suoi nessi, ma allusivo ed intenzionalmente oscuro, che procede per rimandi e associazioni non chiaramente definibili (13).Le grottesche di Spello vanno dunque al di là dell' aspetto puramente decorativo, anche se sfuggono a una logica razionale.Esse sembrano voler esprimere in modo oscuro i misteri e le metamorfosi della creazione.
L'altar maggiore è il fulcro, il cuore della chiesa, la sede del SS. Sacramento. In una visione simbolico-alchemica del creato, che nel secolo XVI è strettamente legata a quella religiosa, esso è assimilabile al «lapis», la pietra filosofale, che trasforma gli elementi in oro e consente di raggiungere la perfezione spirituale. Non a caso il tema dominante della grottesca di Spello è il Fuoco, inteso come agente di trasformazione, ma anche come risultato della trasformazione stessa. Il fuoco, situato nella parte superiore della candelabra, erutta da un vaso verso il quale si dirigono angeli oranti o che reggono a loro volta fiaccole infuocate. Nel registro inferiore invece si trovano animali metamorfici, grifi o cavalli alati, che rappresentano immagini della materia che si trasmuta, a partire dall' elemento demoniaco del mascherone o delle zampe animali. Punto di passaggio è la «nigredo», adombrata dai teschi, dalle armi e dalle clessidre, che evocano l'idea del tempo, della morte e della caducità delle cose, e che viene però superata dalla «rubedo», cioè dal fuoco, l'elemento divino e spirituale.
La committenza ha certo avuto una parte importante nell' elaborare e accettare l'iconografia. Rispetto agli altri due pavimenti affini che ci sono tutt' oggi pervenuti, quello nella
sagrestia dell' Abbazia di San Pietro in Perugia, datato «1563», e quello dei Musées Royaux d'Art et d'Histoire di Bruxelles, probabilmente più tardo (14) il pavimento di Spello si presenta
infatti più complicato, anche se in ciascuno di essi ricorrono motivi e temi costanti, e lo stesso schema con grandi cornici. Tutti e tre provengono infatti dalla stessa bottega derutese, quella
di Giacomo Mancini, soprannominato «El Frate», forse per la sua appartenenza a una confraternita.
Questi è menzionato nel libro d'amministrazione per l'anno 1566 della chiesa di Santa Maria come il «MO da Deruta che mattonò innanzi all' altar grande», e al quale furono pagati «10 scudi e 27
baiocchi» (15). Ancora più esplicitamente, nei documenti di pagamento dell' abbazia di San Pietro in Perugia egli viene chiamato, oltre che «Maestro del pavimento della Sagrestia», «Frate da
Deruta». Non è quindi possibile alcun dubbio sull' attribuzione, anche a prescindere dall'interpretazione delle iniziali «F.D.» viste dal Guardabassi sulle mattonelle di Spello.
All' epoca in cui furono eseguiti i pavimenti, Giacomo Mancini era dunque artista affermato. Già attivo, se non prima (16), agli inizi degli anni quaranta, quando firma una famosa serie di istoriati, egli è il personaggio più noto di una grande famiglia di maiolicari, per i quali si hanno notizie dal secolo XVI al XVII, periodo fra i più fecondi della ceramica derutese.
I Mancini compaiono nei documenti d'archivio fin dal 1519, con Averardo, poi con Berardino di Pietro Paolo e Tommaso di Mariotto, il padre del Frate (1521), e ancora nel 1651 vi è menzione di pagamenti a un Mastro Mare' Antonio Mancini (17). Giacomo appone la sua firma per la prima volta nel 1541, su un piatto ornato con una scena tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, al quale ne seguono altri datati per lo più al 1545, anch' essi con scene dalle Metamorfosi e dall'Orlando Furioso. Soltanto nel 1581 i suoi figli Filippo, Andrea e Africano dividono fra loro i beni paterni, informandoci così della morte avvenuta (18). Il pavimento di Spello rappresenta dunque una fase matura, se non tarda, in una carriera durata almeno quaranta anni. Anche lo stile esprime una sicurezza, una coerenza di modi che denotano una personalità forte e pienamente padrona dei suoi mezzi.
Già negli istoriati degli anni quaranta la narrazione fluiva con vivace spontaneità, malgrado una certa persistente durezza nell'articolazione delle figure e qualche occasionale sproporzione. Giacomo mostra fin dall'inizio una capacità espressiva eccezionale nel panorama derutese, e un segno che il Liverani definisce «ben delineato e deciso» (19) e la Giacomotti «mou et rond, avec cette tendance persistante à la stylisation décorative qui a toujours marqué l'art de Deruta» (20). La sua fonte è in genere la stampa, fra cui è stata individuata quella del poema ariosteo edita nel 1542 a Venezia da Gabriel Giolito, della quale riporta sui retri anche i capoversi. Con grande abilità, mediante l'uso di spolveri, egli traduce le immagini nelle giuste dimensioni e le adatta alla forma rotonda di piatti, vassoi e coppe, non disdegnando di modificare o aggiungere particolari, specie nel paesaggio, e arricchendo spesso la gamma dei colori di uno splendido lustro dorato, che costituiva la specialità dei vasai di Deruta, il tratto distintivo a cui essi dovevano la propria fama.
Comunque, al di là delle indubbie qualità decorative, il «Frate» è importante in quanto occupa un posto chiave nell' evoluzione della ceramica derutese. Con lui si abbandona infatti gradualmente l'impostazione classicheggiante e un po' fredda che domina la decorazione nella prima metà del secolo, ispirata a Perugino, Pinturicchio e Signorelli e in seguito a Raffaello, e che trova la sua massima espressione nelle algide, elegantissime figure del Maestro I del Pavimento di San Francesco. Al di là della fedeltà alla stampa d'origine, il «Frate» introduce invece nel racconto un fare sintetico, largo, di grande simpatia e immediatezza, che andrà sempre più accentuandosi, e il cui tratto un po' popolaresco diverrà uno dei caratteri distintivi della maiolica derutese nella seconda metà del secolo XVI, e soprattutto nel successivo.
Dopo il 1550 questa svolta appare in piena attuazione. Il momento è ben rappresentato da un piatto del Louvre con il Trionfo di Scipione, tratto da una stampa di Antoine Lafrery, e datato «1554» (21), e trova una delle sue espressioni più affascinanti nel grande piatto del Museo Alexis Forel di Morges (1564), nel quale il Parnaso di Raffaello, col tramite di una stampa di Giorgio Ghisi, è tradotto dall' artista derutese con una cordialità e un'allegria del tutto assenti nelle fonti originali (22). Illustro viene ora per lo più abbandonato, quasi per il tacito riconoscimento che ai nuovi modi meglio si adattano gli aranci e i verdi squillanti, che 1'oro tende a raggelare. Le fisionomie si caratterizzano, con visi larghi, cuoriformi, dalle guance rotonde sottolineate da un tocco di colore, dall' espressione serafica. Le membra vengono delineate con forza, le ginocchia strette, i polpacci ingrossati, i piedi grandi con le dita divaricate.
Nel pavimento di Spello tutto ciò viene esaltato al massimo, e un gusto decorativo interamente manierista distende in un arazzo sontuoso le caratteristiche figure dalle ombreggiature in grisaille, in un continuo di fogliame, fiori, nastri, collane variopinti. Gli stupendi girali che completano la grottesca richiamano, pur nella forte policromia, la grande decorazione perugina, in particolare le tarsìe del duomo di Perugia e le volte del collegio del Cambio, dove, attorno ai sette pianeti, si svolgono girali di gusto affine.
L'arabesco che si dispone a ghirlanda nella fascia interna appartiene anch'esso alla grande decorazione umbra, e, in campo ceramico,rappresenta un' elaborazione di quello che incornicia, in posizione analoga, il precedente pavimento di San Francesco. Il motivo, che a Spello è bianco su fondo blu, è tratteggiato con più forza, meno estenuato ed elegante, tuttavia perfettamente riconoscibile.Naturalmente il pavimento di San Francesco deve aver costituito una specie di modello per tutti i ceramisti successivi; tuttavia, anche in considerazione del fatto che le pavimentazioni sembrano in seguito essere una prerogativa dei Mancini 23, è legittima la domanda se anche quel primo superbo esemplare sia stato eseguito all'interno di questa bottega. Verrebbe in questo caso ancor più sottolineato lo stacco stilistico dovuto all' esuberante personalità di Giacomo, che in una coppa del Museo di Torgiano non esita a raffigurarsi vestito col saio, mentre stringe il rosario fra le dita e venera inginocchiato il vino che spilla da una botte: perfetto interprete, di quel risvolto un po' scanzonato della devozione umbra, dove non manca qualche battuta irridente e liberatoria, come appare talora nei grandi piatti da pompa di Deruta.
I Mancini, F. Federico, «l pavimenti in maiolica di Deruta: problemi di lettura e diinterpretazione critica», in AA.VV., Antiche maioliche di Deruta, Firenze, Nuova Guaraldi Editrice, 1980 p. 46.
2 Wilson, Timothy, «Girolamo Genga: Designer for
Maiolica?» in Italian Renaissance
Pottery, 3 Guardabassi, M., Indice - guida dei monumenti pagani e cristiani riguardanti l'isteria e l'arte esistenti nella provincia dell)Umbria, Perugia 1872, p. 268 (citato in Mancini, op. cit.)) 4 L. Pomponi, S. Maria Maggiore di Spello, Foligno, 1926 pp. 27 -28.
5 Cellini, Benvenuto, La vita, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1983, libro
I, capitolo l, Cecchi, Alessandro, «Pratica, fierezza e terribilità nelle grottesche di Marco da Faenza in Palazzo Vecchio a Firenze», in «Paragone», maggio 1977, n. 327, p. 24.
7 Ballardini, Gaetano, Corpus della maiolica
italiana I, le maioliche datate fino
al 1530, Roma, 8 Modena, Galleria Estense, inv. 2005, in Liverani, Francesco, Le maioliche della GalleriaEstense di Modena, Faenza, Faenza Editrice, 1979 pp. 17-19. New York, collezione Lehman,Metropolitan Museum, inv. 1975.1.1024, in Rasmussen, Jorg, The Robert Lehman Collectio-Italian Majolica, New Y ork, The Metropolitan Museum of Art, in association with Princeton University Press, Princeton, 1987, n. 152 p. 234. New York, collezione Lehman,Metropolitan Museum, inv. 1975.1.1015, ibidem n. 62 p. 100. 9 Vasari, Giorgio, Le Vite de' più eccellenti Architetti, Pittori et Scultori Italiani da Cimabueinsino a' tempi nostri ... , a cura di Paola Barocchi e R. Bettarini, Sansoni, Firenze, 1966, p. 143, Come si lavorino le grottesche su lo stucco (Prima edizione Firenze 1550). 10 Gombrich, Ernst, Immagini simboliche, studi sull'arte nel Rinascimento, Torino, Einaudi,1978 p. 31 (titolo originale Symbolic Images. Studies in the Art of the Renaissance, London,Phaidon Press, 1972). 11 Ib. p. 183 nota 10. 12 Chastel, Andrè, La grottesca, Torino, Einaudi, 1989 p. 63 (titolo originale La grotesque,Paris, Le Prorneneur/Quai Voltaire, Paris 1988). 13 Battisti, Eugenio, L'Antirinascimento, Milano, Garzanti, 1989, I pp. 183-184. 14 Il pavimento di Bruxelles fu fatto per i Castrac~ni di Cagli, ed è tuttora inedito. Labottega del Frate si occupò con ogni probabilità anche delle pavimentazioni derutesi recentemente scoperte provenienti dalla rocca Paolina di Perugia, ancora in fase di studio. 15 Mancini, F. Federico, op. cit., p. 48 nota 9. 16 Saremmo propense ad attribuirgli un piattello del Musée des Arts Decoratifs di Lyon,proveniente dalla collezione Gillet, con un doppio stemma d'alleanza di cui fa parte quellodei Montesperelli di Perugia, datato «1533». Il piattello, vicinissimo per alcuni aspetti alMaestro del Pavimento di San Francesco, ci appare uno dei molti indizi che legano l'opera di quest'ultimo a quella del Frate, pur nell' estrema diversità stilistica. 17 Nicolini, Ugolino, «La ceramica di Deruta: organizzazione economia maestri. I documenti», in AA.VV., Antiche maioliche di Deruta, a cura di G. Guaitini, Firenze, Nuova Guaraldi, 1980 pp. 32-33.
18 Nicolini, Ugolino, «La Madonna dei Bagni: il culto e la documentazione», in
AA.VV., Gliex-
19 Liverani, Giuseppe, La maiolica
italiana sino alla
comparsa della porcellana
europea, Electa 20 Giacomotti, Jeanne, Catalogue des majoliques des musées nationaux, Paris, Editions des MuséesNationaux, 1974 p. 297. |
21 Giacomotti,]eanne, Op. cito n. 922 p. 300.
22 Mariaux, P.A., «Prolégomènes à un catalogue des majoliqusitaliennes conservées dans les collections suisses», in «Faenza»LXXVIII, 1992, 1-2, tav. XV.
23 Oltre ai tre pavimenti rimasti, c'è notizia di un quarto, eseguitodal figlio di Giacomo, Africano, per la Sforzesca di Castell' Azzara. Dell' opera
e dei relativi pagamenti si parla in una nota di credito del
perugino Pompeo Graziani, datata 1589 (NICOLINI, UGOLINO, «Divagazioni sull'arcaico derutese», in AA.VV., Omaggio a
Deruta, Comune di Monte San Savino-Comune di Deruta, 1986, p. 27).