Morganti Maria Grazia.
Esiste al mondo qualcosa di più semplice, addirittura banale, di una ciotola? Presenza pressoché inavvertita, fra gli oggetti che ci circondano, annullata dall’uso quotidiano che ne facciamo, rischia di fatto la perdita di visibilità proprio perché fa da sempre parte del nostro panorama domestico.
Già il nome, così morbido, rotola via senza pretese dalla bocca, pianamente, con quella dentale al centro che rappresenta un inciampo, un lieve ostacolo subito riassorbito nella distensione finale.
Non è il piatto, duro anche nel suono o la tazza, un po’ spocchiosa con quel ritrarsi delle labbra sui denti, a pronunciare un nome che evoca immagini di tè pomeridiani e mignoli inarcati.
Eppure, questa stoviglia dalla linea così essenziale da richiamare il più raffinato design scandinavo o, indifferentemente, il disegno di un bambino, è situata al bivio fondamentale della storia dell’umanità. Lo possiamo chiamare neolitico antico, se vogliamo, ma senza dubbio c’è un mondo prima e un altro, diverso, dopo la ciotola che, da un punto di vista antropologico, diventa addirittura il simbolo più efficace del sorgere di una struttura sociale nuova per l’umanità, legata alla stanzialità, all’agricoltura e alla divisione di compiti fra i sessi.
Forma primaria, anzi la più antropomorfa delle forme, derivata chiaramente da quella di due mani accostate a coppa, è difficile pensarla in sé e non associata al cibo, solido o liquido che sia, tanto da rappresentare un ideale anello di congiunzione fra la civiltà del crudo e quella del cotto, adattabile com’è ad ogni uso e circostanza, nella sua disadorna, flessibile funzionalità.
Ma esiste anche un livello simbolico più profondo, che travalica il semplice uso materiale, per riallacciarsi direttamente ai riti ancestrali di una religione primordiale che venerava tutto l’universo in quanto corpo della Dea Madre Creatrice.
In questo ambito, la ciotola diventa la forma metaforica per eccellenza legata la mito della Grande Madre mediterranea. E’ il ventre gravido della Dea, ma anche la sua mammella ricca di nutrimento, foggiata unicamente dalle sacerdotesse-vasaie coi gesti segreti di una ritualità magica. Per l’affumicamento e per la composizione dell’impasto, era sempre nera, come è nera la terra fertile, immagine di vita che riconduce alle grotte umide, al grembo della Dea Madre, così come, per contrasto, il bianco è simbolo di morte, colore delle ossa disseccate al sole.
Il ricorso alla forma materna archetipa è ribadito dall’uso stesso della terra che, per dirla con Marija Gimbutas, nel neolitico è la vita, in quanto essa stessa Dea Creatrice e quindi non è la “polvere” biblica dell’ammonimento di Dio ad Adamo “polvere sei e polvere tornerai” ma elemento vitale, fonte di ogni energia. Concetto che si rafforza nelle prime decorazioni, incise o impresse, con quei segni che sembrano unghiate, ma in effetti sono facilmente identificabili, in termini di archeomitologia, come elementi dinamici legati al culto della Dea: crescenti lunari, corna, germogli, spirali o anche serpenti, le entità benefiche per eccellenza, che sottolineano la rotondità, tutta “maternamente” accogliente, dell’oggetto.
L’identificazione della ciotola, insomma, col mondo magico della religione primordiale appare così evidente che uno dei segni del passaggio dalla civiltà matrilineare delle origini a quella greca patriarcale potrebbe essere individuato proprio nell’aggiunta dei manici alla ciotola originaria.
Il pensiero va immediatamente allo skyphos, al kyatos, alla lekane, utilizzate per il bere e il mangiare quotidiani fin dai tempi omerici. Ma è soprattutto l’elegante, distesa kylix dallo stelo slanciato che può essere assunta a simbolo del nuovo ordinamento sociale e delle capovolte gerarchie sessuali, unicamente destinata com’era al simposio, la riunione maschile per eccellenza.
E proprio nella rigidità di queste anse, sempre uguali e simmetriche, che fissano inesorabilmente funzioni, destinazioni e modalità d’uso in un oggetto in precedenza indifferenziato nell’approccio e multiuso, potremmo in effetti leggere uno dei segni dell’affermarsi della nuova razionalità che investe il pensiero occidentale.
In fondo, semplificando un po’ il concetto, si potrebbe dire che lakylix sta a Platone come la ciotola sta all’animismo preistorico.
Così, in nome del nuovo criterio di bellezza, legato alla proporzione e alla simmetria - ma anche della separazione fra corpo e intelletto e del desiderio di porre una distanza, concettuale e materiale, che impedisse un contatto fisico troppo coinvolgente - questo oggetto fondamentale nella storia dell’umanità venne rapidamente negletto, relegato in fondo alla scala sociale, privato di ogni sacralità.
Si vede già dalla pittura. Assente nelle sontuose nature morte fiamminghe, ricche al contrario di boccali di porcellana e di peltro, e nelle scenografie dei ritratti di personaggi illustri che, al caso, esibiscono caraffe o calici dalla fattura elaborata, la ciotola appare invece di frequente nelle mani dei mendicanti medievali, sulle mense dei poveri di tutti i tempi o nella grotta di qualche santo eremita. La memoria, al massimo, può correre alla scodella plebea del Mangiatore di fagioli di Annibale Carracci o a qualche bodegòn di Velazquez, ma passeranno secoli prima che la ciotola sappia riacquistare un suo ruolo – se non di protagonista almeno di comprimaria - nelle nature morte più blasonate, da Cézanne a Morandi, fino al riscatto totale, legato ad uno dei quadri più belli del Novecento italiano, L’attesa di Casorati, con quelle splendide, silenziose tazzone a scandire il senso metafisico di un’assenza.
Allontanata perentoriamente dalle tavole dei ricchi e dei potenti, nelle quali ormai compare giusto in veste di coppetta sciacquadita, la ciotola perde rapidamente anche ogni funzione ornamentale in architettura, facendosi estromettere dalle facciate delle chiese di cui in antico accompagnava la linea dei salienti. Quanto alle sale dei palazzi, poi, è ancora presente ma risulta in pratica accettata solo nella variante rappresentata dalla frivola, candida crespina - per lo più inabile ad ogni uso pratico, coi suoi trafori leggiadramente sagomati. Assai più spesso, però, cede il posto ai superbi piatti “da pompa” in maiolica istoriata, simili a variopinti scudi rotondi da appendere alle pareti o da esibire in sontuose credenze ricche di intagli.
Nell’immaginario collettivo, dunque, per un lunghissimo periodo, la ciotola si identifica con la ceramica povera, forma “bassa”, fisicamente e metaforicamente opposta alle “alzate” delle tavole nobiliari. Anche per ragioni strettamente gastronomiche, del resto. Alla ciotola si legano immagini da cucina dei miseri: zuppe d’erbe, legumi bolliti, brodini “matti” e pancotti.
Le paste imbottite, la cacciagione, gli intingoli elaborati, la pasticceria sontuosa dei banchetti che duravano giorni interi, esigevano al contrario stoviglieria di forma distesa, su cui potessero esibirsi in tutto il loro splendore effimero i trionfi dell’ars culinaria.
C’entra la gastronomia, quindi, in questa esclusione ma anche il galateo vi gioca un suo ruolo.
La ciotola è fatta per essere portata alla bocca, per essere svuotata con un cucchiaio (che altro non è, in fondo, che una minuscola ciotola col manico) mentre viene tenuta ferma con l’altra mano o addirittura stretta al petto. Rimanda ad immagini sommamente plebee di visi che affondano nel cibo, proprio mentre il nascente bon ton delle corti italiane esigeva l’utilizzo della forchetta bizantina che permetteva di portare il boccone alle labbra, mantenendo una postura eretta di contegnoso distacco.
Ma se in Occidente la ciotola veniva allontanata e messa ai margini da una civiltà sempre più manierata e così infastidita dal volgare contatto con la materia da utilizzare, per i suoi riti sociali, tazze e tazzine dotate di manici - schizzinosi respingenti destinati a creare un elemento di distanza, anche psicologica, fra il cibo e il suo consumatore - in Oriente la storia girava in tutt’altro senso.
In una cultura che non si affida soprattutto al senso della vista, come fa la nostra, ma al contrario attribuisce un’ importanza fondamentale ai valori tattili, la ciotola, che va stretta fra la mani e trasmette il calore degli alimenti, ha sempre affermato la sua indiscussa centralità. E’ il contenitore per eccellenza, quello che viene usato in ogni circostanza, coi cibi solidi e con le bevande, col riso e col sakè, passando per ogni possibile varietà di tè o di zuppa.
Tanta importanza portò anche ad inventare nuove, e più fantasiose, tecniche di produzione che si aggiunsero al primitivocolombino, allo stampo, al colaggio e, naturalmente, al tornio, la ruota del vasaio, che resta pur sempre la tecnica più praticata da chi voglia realizzare scodelle d’ogni genere.
Ecco quindi le ciotole coreane Ido realizzate partendo da una striscia avvolta a spirale, e quelle raku, scavate da un blocco di creta o modellate rialzando i bordi di una sorta di piadina di argilla.
E se nel periodo più estetizzante della raffinatissima corte Song, la coppa da tè diventa color del cielo, acquistando un supporto sagomato a corolla che la isola simbolicamente dalla terra, è pur sempre alla forma-base della ciotola che, in quest’area, si legano le più straordinarie creazione ceramiche.
Da un ideale inventario emergono forme squisite e decori inimitabili - le terrecotte sancai “a tre colori” della dinastia Tang, i pallidi Ding color avorio dai disegni floreali intagliati col coltello di bambù, le prime porcellane “bianco-e-blu” degli imperatori mongoli, icéladon coreani verde-acqua del periodo Koryo, splendidi con o senza decorazioni incise a sanggam - che abitano gli spazi e i tempi favolosi di corti imperiali ormai perdute nel tempo.
Immagini di padiglioni aperti su giardini in fiore, di principesse dal volto di perla che oscillano con grazia sui loro gigli d’oro, di nobili guerrieri e eruditi mandarini fra le cui mani trovano la giusta collocazione queste ciotole nobilissime e fragili.
Quanto ai mitici temmoku, poi – quelle tazze pesanti in gres nero dai lucenti rivestimenti screziati, allora conosciuti coi nomi suggestivi di “gola di pernice”, “macchia d’olio” o “peluria di trifoglio nei campi” – il loro uso era riservato alle offerte rituali dei monaci cinesi che vivevano sulle montagne del Fukien, e per questo ebbero un destino particolare, legato alla diffusione del buddismo zen nel Giappone medievale attraverso l’uso del tè verde in polvere, preparato secondo i modi di un cerimoniale che, nel passaggio da rito sacro ad esperienza spirituale, segnò profondamente il costume dell’epoca.
Così, mentre l’Europa s’affannava intorno a forme sempre nuove, e spesso inutilmente complesse, cercando la bellezza soprattutto nell’insolito e nel mai visto prima, dall’altra parte del mondo poteva succedere che il più grande dei Maestri del Tè, Sen-no Rikyu, progettasse una tazza senza manici che più disadorna non si poteva e ne facesse il fulcro di una filosofia. E per quanto potesse sembrare incredibile a chi era abituato a pensare in scala monumentale – il Partenone, il Colosseo, San Pietro – era in una semplice ciotola raku che si trovavano racchiusi tutti i valori fondamentali dell’estetica zen, così diversa da quella nata dal Rinascimento: yugen, la coscienza di quanto sia effimera la bellezza, sabi, l’apprezzamento di tutto ciò che è consunto e reca i segni del tempo e wabi, l’amore per l’assoluta semplicità e l’imperfezione casuale.
La divaricazione fra Occidente e Oriente, insomma, era giunta ad un punto tale da sembrare insanabile, ma poi la storia girò di nuovo su se stessa e tutto quel vertiginoso virtuosismo inseguito per secoli e culminato nel delirio vittoriano che affastellava stili e tecniche eterogenee per dare vita a forme sempre più bizzarre, sembrò improvvisamente insopportabile (oltre che faticosissimo da spolverare, a pensarci, con tutte quelle rose applicate e i trafori, le doppie pareti, le filigrane e gli à jours vari).
Fu allora che il commodoro Matthew Perry puntò i cannoni della sua corazzata sul Palazzo imperiale di Tokyo col nobile scopo di inserire anche i giapponesi nel circuito del commercio internazionale. Non immaginava certo (ma è pensabile che la cosa non l’avrebbe comunque turbato neanche un po’) che il contatto con una tradizione artistica così diversa avrebbe avuto ricadute impensabili nell’arte e nella cultura occidentale in genere. E se i pittori persero letteralmente la testa per Utamaro, Hiroshige e Hokusai e abbandonarono precipitosamente la prospettiva, la ceramica, uscì addirittura tramortita da questo incontro e non poté più essere la stessa, dopo.
Davanti a quelle forme essenziali, infatti, ravvivate solo da colature di smalto e oro, casuali macchie di cenere di legna o sapienti craquelures che abbracciavano le incerte, imperfette rotondità delle tazze da tè e dei versatori, l’Occidente si scoprì con improvviso disagio sovraccarico, privo di grazia e decisamente kitsch.
Ci penserà il Giapponismo, di lì a pochissimo, a riequilibrare la situazione – e a riportare in voga la ciotola - insegnando di nuovo l’eleganza suprema della semplicità ad una mondo della produzione ormai stremato dalla ricerca di ogni possibile complicazione decorativa. E così, da un giorno all’altro, si potrebbe dire, gli arzigogolati contenitori in porcellana o bone china e le luccicanti maioliche di revival ricchissime di decorazione pittorica, persero ogni connotazione chic per diventare le buone cose di pessimo gusto che solo qualche zia di provincia poteva azzardarsi ad esibire nel suo salotto fra i bibelots protetti da campane di vetro e le montagne di cuscini ricamati con perline di vetro.
L’ornamento era ormai delitto, per generale accettazione, ed i tempi erano quindi maturi per il riscatto definitivo della ciotola che, da forma povera, si trasformò improvvisamente in oggetto-culto, passibile di interpretazioni d’ogni genere per quanto riguardava tecniche, decori, materiali. Né la cosa appariva sorprendente, a ben vedere. Si trattava, in fondo, della sfida per eccellenza per ogni artista: cimentarsi con una forma semplice e ben definita per ricavarne qualcosa di personale.
E così, esplorando esplorando, si riscoprì ancora una volta la vitalità di una forma così versatile da mutare completamente la destinazione - e il significato - se sottoposta ad aggiunte o cambiamenti anche minimi. Il gioco è semplice. Basta metterle un coperchio per farne una pentola, doverosamente panciuta e capiente, se la si allarga diventa un bacile, mentre raddoppiata e fornita di beccuccio è già una teiera. Ma il suo campo di metamorfosi è ben più ampio e travalica il puro ambito materiale. Quando si posa su uno stelo sottile, ad esempio, e si trasforma in un calice, assume una valenza più aerea e spirituale, tanto da diventare un contenitore mistico, magari anche il Santo Graal.
L’alfa e l’omega della vita, per così dire, racchiusi un un’unica forma che da sempre accompagna i momenti fondamentali dell’esistere. Perché se è vero che c’è una ciotola nelle mani dei defunti rappresentati sui sarcofagi etruschi, non dobbiamo dimenticare che è in una ciotola colma di petali di fiori che, presso gli aborigeni australiani, il neonato viene presentato alla comunità.
In ultima analisi: versatile, perfetta sotto il profilo simbolico, quanto mai decorativa - e ci si può anche mangiare dentro. Signori, la ciotola.