Avvertenza iniziale per una corretta fruizione (“Céci n’est pas une expo”)
Non è (non vuole essere) un’autobiografia ufficiale e autorizzata, una mostra autocelebrativa né un “come eravamo” nostalgico, e soprattutto non chiamiamola retrospettiva, per l’amor del cielo. Ma allora, cos’è? Forse è solo un gesto breve, come girarsi indietro un momento o poco più a lanciare uno sguardo a quello che è stato per fare il punto della situazione.
E’ facile notare che il percorso non è mai stato lineare, ma anzi fatto di svolte improvvise, cambi di corsia, zigzag spiazzanti, inversioni a U, capriole beffarde per innata insofferenza verso il già visto-già fatto e smania di percorrere strade ancora inesplorate.
Da una certa distanza le cose si capiscono meglio. E, per una volta, si può anche cominciare dall’inizio, che nel nostro caso coincide con gli spavaldi primi anni Settanta, quando il mondo stava per essere rifondato su basi migliori e il passato lo si guardava negli occhi da pari a pari, senza particolari riguardi.
In questo clima anche quella faentina smette di essere una gloriosa tradizione da contemplare muti di soggezione ma diventa un interlocutore con cui instaurare un rapporto dialettico. Non è neanche necessario eliminarla, perché è possibile trasformarla radicalmente. Allora si può anche reinventare il graffito, usando una specie di ingegnoso pennello fatto di fili di rame che incidono il fondo spesso di vernice al ferro. In questo modo si dilata il concetto di arcaico riportandolo ad un gusto ‘primitivo’ e materico, così lontano da ogni compiacimento decorativo che quel piatto, modernissimo e insieme ‘senza tempo’, non sfigurerebbe su una mensa francescana del Trecento.
E siccome i maestri migliori (in questo caso addirittura Biancini e Leoni) sono quelli che ti tengono d’occhio di lontano e sanno quando lasciarti libero di provare da solo, può succedere che uno si trovi davanti all’improvviso tutta la vasta prateria delle possibilità di sperimentare l’inedito ancora intatte. Nuovi toni di giallo e di viola shocking appena usciti di fabbrica, ad esempio, da trattare senza pennelli ma con l’uso di lattice strappato, ossido di rame e diavolerie varie che producono effetti di imprevedibili accumuli granulosi, limature psichedeliche e bruschi sbalzi cromatici da art brut d’annata.
Al confronto, i passi successivi parrebbero meno azzardati, se non fosse per vena di ragionata follia che li percorre. Anche perché gli oggetti di vario genere che prendono forma negli anni, appaiono solidi come la terra con cui sono modellati, ma sembrano fatti anche di sostanze immateriali: allitterazioni, giochi di parole, scambi di lettere che portano ad associazioni mentali feconde o intriganti.
Come in quelle teiere Fumo per te che giocano sui riferimenti multipli del titolo ma anche sulle forme ibride fra il meccanico e il marino che sembrano portare con sé il consolidarsi di un ricordo (un incontro in una sala da tè intergalattica?), cristallizzato in un fermo immagine in cui il vapore diventa una bolla o un grappolo di vetro soffiato.
Ogni immagine, insomma, sembra sottintenderne altre. Ne è esempio quel Gallo che sotto le accattivanti forme postmodern e le preziosità cromatiche esaltate dall’uso virtuosistico dell’aerografo, nasconde un intrepido animo futurista e transformer, fatto di speroni aguzzi, zampe improbabili e creste che sembrano frastagliate a colpi di rasoio per suggerire trillanti sonorità.
Il lato edonistico del periodo appare ben rappresentato da quelledadazuppiere che negli anni Ottanta, sotto il titolo di Soupes from Italia, furono protagoniste di una tournée di successo sulle migliori piazze italiane. Divertenti variazioni sul tema iperrealista dal complesso albero genealogico che alla superficie candida e liscia, paragonabile ai più classici esempi di “bianchi” seicenteschi, accoppiavano un’apparente, subdola morbidezza da soft machines d’ascendenza pop. Per non citare poi la vedova Perrin che inondò la Marsiglia di fine ‘700 con le sue zuppiere da bouillabaisse con le prese a forma di triglie e poissons vari, e mai avrebbe potuto immaginare una simile, eversiva evoluzione del suo prototipo, coi coperchi della "fornaia", della "verduraia", della "marinara”, grondanti allusive decorazioni in tema. Fino all’apoteosi del ‘trionfo’ formato da pettine, capelli, cuoricini e ammennicoli vari di quella “zuppiera della parrucchiera” che già nella rima scema del nome avrebbe mandato in solluchero Marcel Duchamp.
Secondo Nikolaij Gogol, dopo una lunga peregrinazione per tutta Pietroburgo, il naso dell’assessore di collegio Kovalev riprese come niente fosse il suo posto. Gogol non tornò più sull’argomento ma la sua autorevole testimonianza ci autorizza a pensare che non si sia affatto trattato di un episodio isolato. In effetti i Vasinasi sono la prova evidente che negli anni Novanta del secolo successivo, approfittando del chiassoso clima discotecaro dell’epoca riapparvero in massa, mostrando la stessa attitudine deambulatoria associata al gusto di esibirsi, per così dire en travesti. Nasi ben portanti, profili volitivi sobriamente modellati nell’argilla che tuttavia sembrano concedere qualcosa al gusto frivolo del tempo: spirali metalliche, grovigli di fili disposti in sapiente disordine, riccioli capricciosi simili a volute di fumo che forse sono anche pensieri bizzarri materializzatisi all’improvviso.
Il nuovo millennio porta con sé un bang fragoroso, la svolta più inaspettata (azzardata, sconsiderata?) in un percorso che, tutto sommato, si era accontentato di far rivivere a modo suo la tradizione, mantenendosi entro i limiti “civilizzati” del cotto, rivestito o meno che fosse. Il concetto di libertà dalla materia, insomma, viene qui inteso in senso letterale, segnato com’è da quello scandaloso passaggio dal cotto al crudo del tutto ingiustificabile in termini di ortodossia ceramica, che parrebbe indicare una sorta di regressione antropologica (o di progresso, il dibattito è aperto) da uno stato di cultura a uno di natura.
Veramente, a voler essere precisi, si potrebbe obiettare che si tratta di una natura piuttosto artificiale, comunque, dato che Fusella non cuoce ma utilizza colle acriliche insieme alla terra, mescolata o meno con ossidi. Forse allora è meglio parlare di una ricerca di essenzialità che, se non fosse per l’ironia sempre presente sottotraccia, verrebbe da considerare una sorta di cammino sapienziale in cui via via si abbandonano gli elementi di vanitas (la liscia compattezza della maiolica, la piacevolezza dei colori, le forme di design) di cui pure ci si era compiaciuti in passato.
Il minimalismo degli scenari sembra in effetti confermarlo: accrocchi di ramoscelli, pietruzze brillanti, forme vagamente organiche che brillano d’oro e d’argento come gioielli liquidi capitati lì da chissà dove, in una macrorappresentazione terrosa di quel resta sul bordo della strada quando un mucchio di neve si scioglie.
La scelta del crudo può essere imposta dalla necessità di superare la “pesantezza” della materia, ma è anche dovuta all’impazienza di fissare subito il momento, di cogliere la percezione finché è ancora viva nella mente. Perché la cottura è una procedura lenta per gente paziente dai pensieri costanti che ronzano a basso regime e si mantengono invariati nel tempo, ma è perfetta solo per chi non ha paura di perdersi nella tecnica perché non sospetta neanche che da mezzo possa trasformarsi in fine e diventare un allettante labirinto privo di uscite.
La natura marinara della sua ispirazione già presente in passato in forme diverse e che riemerge (e cosa, se no?) lungo tutto l’arco della produzione, si materializza adesso in una sorta di personalissimo Waterworld fatto di polverose spiagge di smeraldo su cui la bassa marea deposita reperti di varia origine, e di orizzonti perlacei su cui si profilano morbidi, variopinti panorami di coriandoli in gommapiuma e pezzetti di legno. Fino alla follia ittica di quel catafratto Calamaro spiaggiato dall’ inquietante sguardo di vetro, intrappolato in un groviglio di fili metallici e spaghi che racchiudono frammenti di rame e turchese.
Un’ironica impronta fumettara sottintende gli improbabili squarci di altri mondi in cui compaiono turgide “lingue” che sembrano appartenere a ipertrofiche piante grasse ma sono invece le onde su cui si inerpicano e si tengono in equilibrio quei surfisti lillipuziani di rete color rame e porporina blu. Gli stessi intrepidi omini che sfidano ogni legge di gravità per sorreggere grandi bolle trasparenti in cui si intravvedono coleotteri mostruosi di certo provenienti da altre galassie.
A ben vedere c’è una certa perfidia in questi giochi da adulti apparentemente innocui, un sentore sulfureo ben occultato nell’ingannevole aria benevola da teatrino domestico. Tutto si svela senza possibili equivoci, però, (l’autore getta metaforicamente la maschera con uno sghignazzo ben udibile) nella serie, deliziosamente malvagia, dei piccoli Incidenti beffardi percorsi da una vena di humour nero assai godibile in cui, come in un ex voto al contrario, si contemplano aerei che s’avvitano in cieli di catrame e metallo fuso per schiantarsi al suolo.
Giunti a questo punto, resta solo la curiosità di sapere dove condurrà il cammino intrapreso. Ma, in fondo, a ben vedere, non vale neppure la pena di interrogarsi su quale sarà la prossima mossa. Per gli artisti e i saltimbanchi, si sa, le piroette a sorpresa sono d’obbligo.
MariaGrazia Morganti