GUFI E CIVETTE, UNA QUESTIONE ANCORA APERTA

    E’ un rapporto forte, antichissimo ma anche ambivalente e soggetto a forti oscillazioni, quello che ci lega a gufi, civette (e Strigidi in genere) e che ci accompagna, è il caso di dirlo, fin dalla notte dei tempi, quando il mondo era nuovo ed eccitante ma la scomparsa della luce del sole gettava nell’angoscia i nostri progenitori. La parola-chiave, si direbbe, è proprio la loro associazione con la notte, da sempre oggetto di paure, regno dell’inconoscibile, della metamorfosi e dell’inganno.

 

    Il buio che percorrono con tranquilla sicurezza, senza i nostri tremori, diventa allora simbolo e prefigurazione della morte, con cui gli uccelli notturni parrebbero intrattenere rapporti di una certa famigliarità, come sembrano indicare la testa di gufo di Hunakan, il dio maya della morte, ma anche le innumerevoli civette di pietra e di argilla che accompagnavano il lungo sonno dei defunti della preistoria, entro un vasto perimetro che dal Mediterraneo giungeva fino al cuore dell’Europa orientale.

 

    Una lunghissima consorteria, la nostra, in cui vita e morte si intrecciano, e infatti non ci sono solo bovidi e cavalli sulle pareti delle grotte francesi di venti o trenta millenni fa, ma anche uccelli notturni, di cui i cacciatori avrebbero voluto assorbire la capacità di muoversi in assenza di luce, in un’oscurità che non era solo fisica ma anche esistenziale, come suggerisce Jung a proposito del Grande Stregone di Trois Frères e della sua maschera (o faccia) di gufo,  che ne indicherebbe le doti sciamaniche, adatte a percorrere i sentieri dell’ignoto.

 

   Si tratta di figure archetipe, dunque, che si legano al concetto di protezione, per la loro visione dall’alto in ogni condizione di luce, e anche a quello di preveggenza perché i grandi occhi che li caratterizzano suggeriscono la capacità di vedere meglio e di più. Di qui la credenza che potessero essere di aiuto contro le malattie degli occhi ma anche che conoscessero in anticipo la morte di cui diventavano quindi lugubri messaggeri. Così in questo modo, un po’ paradossalmente, finivano per essere più temuti di volatili diversissimi da loro e ben più possenti, come l’aquila, il condor o lo sparviero, cui spesso sono contrapposti.

 

    In tutte le culture, non importa quanto distanti fra loro nel tempo e nello spazio, sembra infatti esistere un’ antitesi fra gufo e aquila  che nel Mahabharata sono intesi come simboli, rispettivamente, di notte e sole e per René Guénon figurazioni della conoscenza razionale (luce lunare riflessa) e della conoscenza intuitiva (luce solare diretta). La medesima associazione con la notte e la luna, d’altro canto, portava a sospettare in loro la presenza di doti malefiche che, secondo una diffusa credenza popolare, si dispiegavano al meglio quando aleggiavano su minacciosi pentoloni ribollenti in compagnia di streghe adunche, perfidi maghi e degli immancabili gatti neri.

 

    In questa altalena continua fra cultura “alta” e “bassa”, superstizione e scienza, cui la venerazione e la fiducia si alternano alla diffidenza e al dileggio, non stupisce che, da simboli ermetici per i sapienti, allocchi, barbagianni e gufi possano essere diventati nel tempo sinonimi di stupidità, vecchiaia noiosa e volontà iettatoria nel linguaggio comune. Per tacere poi della civetta che – lo testimonia perfino la Bohème – si supponeva capace di mangiare il cuore alle sue vittime e costituiva quindi la perfetta immagine della femmina seduttrice e spietata di cui non fidarsi mai. 

 

    Quanto ad oggi - forse è colpa della scienza, o forse c’entra la progressiva perdita del senso del “sacro” in senso lato che investe la nostra vita - cancellato ogni residuo timore superstizioso, assistiamo alla banalizzazione degli un tempo temibili uccelli notturni, ridotti perlopiù a disegnini buffi e rassicuranti adatti ad ogni impiego dccorativo essendo precipitati, ahiloro, nell’innocua, irrilevante, mortale categoria del “carino”.

 

    Dagli owl skyphòi, le tazze rituali dipinte con espressive rappresentazioni di civette della ceramica attica, si è ormai passati agli owl café giapponesi che non si limitano a fornire tazze e dolci a forma di civette ma ne presentano esemplari viventi che i clienti possono accarezzare e vezzeggiare a loro piacimento.

 

    Mille volte meglio, allora, Goya con quei meravigliosi sinistri uccelli notturni che si affollano attorno all’uomo addormentato, simbolo di una fantasia che senza la guida della ragione, produce mostruosità o anche, più modernamente, si consegna agli impulsi più torbidi, sopraffatta dalle immagini provenienti dall’inconscio.

 

    In mezzo a queste diatribe che attraversano anche l’Estremo Oriente – avrà avuto ragione Gengis Khan a mettere un gufo sulle sue insegne oppure i cinesi a ritenerlo messaggero di sventura? – Riccardo Biavati si pone, saggiamente, oltre.

 

    I suoi uccelli notturni non appaiono sospetti di associazioni stregonesche o tantomeno complici di diabolici malefici ma non sono neanche bibelots da salotto, pur nell’apparente leggerezza delle forme.

Merito della misteriosa, insondabile vitalità che li anima e ne sottolinea la fondamentale natura metamorfica, in cui gli aspetti minerali, animali e vegetali si sovrappongono, confondendosi fra loro nel passaggio da una natura che appare ancora indifferenziata.

 

    Mosso da un’evidente affinità spirituale, Biavati esplora pazientemente caratteristiche esistenziali, momenti ludici, passioni, e tic segreti di una vita che ama l’understatement, i toni smorzati, l’ironia sorniona e la convivenza pacifica.

 

    Questa apparente mitezza, del resto, ne rispetta perfettamente il carattere più antico, perché gufi e civette nel mito non sono mai protagonisti di vicende platealmente eroiche – per questo sono più adatte l’aquila che rapisce Ganimede e strazia Prometeo o la fenice, così spettacolare nella sua continua rinascita. E se Afrodite e Apollo appaiono associati al cigno che ne rispecchia la luminosa, appariscente presenza, Pallade Atena, vergine guerriera e simbolo di acutezza d’ingegno, sceglie la civetta dal piumaggio dimesso come compagna e ne assume talvolta le sembianze, perché la vera saggezza, come si sa, consiste nel vivere nascostamente.

 

    In piena consonanza, Biavati dà largo spazio all’aspetto mimetico della loro personalità, che porta gufi, civette e barbagianni a confondersi astutamente col paesaggio, assumendo morbide tonalità boschive e rivestendosi di rami frondosi, proprio come Ulisse (non a caso il prediletto della dea) al suo approdo fra i Feaci.

 

    Davanti ai nostri occhi prende quindi vita un’ideale galleria plastica in cui, come nei Bestiari medievali, gli animali reali e quelli fantastici trovano posto uno accanto all’altro senza problemi, in una serie infinita di divagazioni sul tema. Non stupisce quindi che il temibile gufo pescatore di Blakiston – riconoscibile perché porta alto sul capo come un trofeo il pesce che si è procurato - conviva serenamente coi suoi simili che occhieggiano un po’ inquietanti da tronchi cavi o si presentano coronati da paesaggi mignon, mettendo letteralmente in cima ai loro pensieri il casolare su cui vigilano.

 

    Si tratta spesso di creature inclusive che accolgono in sé morbidi ammassi di foglie e ciottoli dai toni pastello a segnalare ricordi di stagioni trascorse. Coi loro ipnotici occhi a palla, a piattello, a cerchi concentrici o ruota raggiata appaiono dotati di un’intensa vita interiore, di indubitabile saggezza e segreta ai più, che solo un leggero spostamento delle pupille ci segnala. Ma non mancano i gufi giocherelloni che si impilano simulando antichi totem navajo o si fanno rapire da visioni oniriche, materializzate sul loro capo sotto forma di elementi traforati, nuvole, ali dai colori smaglianti ma anche dischi lunari, galline, rami secchi e porcospini.

 

   Come appena usciti da un’arca di Noè nuova di zecca, ci appaiono spesso un po’ sconcertati per la scoperta di un mondo ancora tutto da decifrare, verso cui si rivolgono però con una disposizione d’animo così amabile da riuscire riconciliarci con la visione di uno stormo di uccelli senza provare quel brivido sottopelle, divenuto ormai incontrollabile riflesso condizionato da quando Hitchcock velò irrimediabilmente di sospetto e diffidenza persino lo sguardo che un tempo si posava intenerito sui passerotti becchettanti sul davanzale.

 

Perché solo l’arte, si sa, può sanare le ferite che l’arte ci infligge.

 

 

MariaGrazia Morganti, estate 2015


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