LE MOLTE VITE DI MAURIZIO KORACH
Pubblicato in Faenza Bollettino del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza, annata XCVI, anno 2010, fascicolo I-VI, pp.141-149
Come molte esistenze eccezionali, anche quella di Mór (poi Maurizio) Korach inizia in sordina, l’8 febbraio 1888 a Miskolc, nel nordest dell’Ungheria, città un po’ alla periferia dell’Impero ma con una storia di tutto rispetto, e un presente ricco di fermenti vitali, visto che nel 1873 dà i natali anche a Sàndor Ferenczi, allievo di Freud e pioniere della psicoanalisi. Primo di quattro fratelli, Mór cresce all’interno di una famiglia della piccola borghesia ebraica, sicuramente ignaro di muovere i primi passi di quella che si potrebbe definire una vita esemplare della finis Austriae, contrassegnata dal nomadismo (non sempre volontario) e degna di un personaggio di Joseph Roth.
Durante l’infanzia e l’adolescenza cambia spesso di residenza al seguito del padre, impiegato del regno austro-ungarico, e viene così precocemente a contatto con popoli, lingue, usanze e anche religioni diverse. E’ in questi anni che si pongono le basi di quella dimensione “europea” - subito percepita da Riccardo Bacchelli al loro primo incontro - che rimarrà per sempre un carattere distintivo della sua personalità. A poco più di vent’anni Korach padroneggia già sette lingue, anche se sarà fedele soprattutto a tre “patrie” culturali: l’ungherese, l’italiana e la tedesca.
In ogni caso Mór-non-ancora-Maurizio inizia i suoi studi in Slovacchia, in una scuola tedesca protestante, per proseguirli poi in una scuola cattolica in Croazia. Gli otto anni del ginnasio-liceo li passa invece a Fiume, dove si manifesta già perfettamente compiuto lo sviluppo della sua personalità, equamente divisa fra l’interesse per la scienza e la passione letteraria. Già a 13 anni, infatti, alterna gli esperimenti chimici alla poesia e collabora al giornale locale. Una quindicina d’anni più tardi, del resto, si laureerà in Fisica e matematica all’Università di Bologna, e contemporaneamente anche in Filologia germanica.
Rientrato in Ungheria nel 1907 Korach studia all’Accademia di Scienze di Budapest, laureandosi in Ingegneria Chimica con quello scienziato assolutamente sui generis che è Vinsce Wartha, un super-tecnico di fama mondiale che è anche innamorato dell’arte, necessaria alla vita quanto il nutrimento, a suo dire. Ed appare evidente che la devozione sempre mostrata da Korach nei suoi confronti nasce non solo dall’ammirazione per il grande chimico dotato della capacità di “rendere appassionante e drammatico il resoconto di qualunque esperimento di laboratorio”1, ma anche per questa matrice umanistica da lui condivisa con Wartha che, non a caso, aveva battezzato col nome grecizzante di Eosina (da éos, aurora) il suo primo lustro iridescente di colore rosso, creato nel 1892 nei laboratori della Zsolnay di Pécs. Wartha è chiaramente un modello intellettuale per Korach che, quando sottolinea come non sia mai stato “un barbaro della sua specialità”, secondo un’espressione ungherese usata per definire un tecnico troppo unilaterale, esprime un giudizio applicabile anche a se stesso.
Ancora nel 1968, a più di 50 anni dalla sua scomparsa, Korach scrive su “Faenza”2 un articolo in memoria del suo antico maestro, e lo correda con un ritratto dipinto da lui stesso in uno stile naïf chiaramente ispirato a quello di uno dei suoi pittori preferiti, il “santo doganiere Rousseau”3, in cui Wartha tiene fra le mani un boccale faentino con l’astorre. E’ evidente il riferimento simbolico. Korach, da sempre attento a sottolineare l’antichità dei rapporti fra l’Italia (e Faenza in particolare, fin dai tempi di Mattia Corvino e dei Manfredi) con l’Ungheria, ricorda infatti di avere ricevuto nei suoi ultimi giorni da Wartha, morto proprio nel 1914 quando stava prendendo forma la Scuola di ceramica, una simbolica fiaccola della tecnologia ceramica perché la riportasse in Italia dove erano nati i lustri da cui discendeva la sua Eosina.
Il soggiorno ungherese, comunque, non dura a lungo. Nel 1912, un anno dopo la laurea, Korach fugge in Italia, dopo aver rifiutato di prestare giuramento di fedeltà come ufficiale alla monarchia asburgica, di cui sospetta le intenzioni guerrafondaie. Nei primi anni Venti rievocherà questa partenza in “Ritorno ai ritorni”, rivelando come fosse ancora vivo in lui il rimorso per quel distacco doloroso e un po’ vile dalla madre quando, per evitare di vederla piangere, aveva finto di credere in un ritorno che, in realtà, non era affatto nei suoi piani: “Ce ne andammo così. Si staccò financo l’ultima fibrilla che ci univa all’estremo per noi rimasuglio d’umanità: la famiglia. Partimmo alla volta della nostra solitudine. E fu questa la nostra prima partenza autentica”. 4
Inizia qui un altro capitolo di una vita che, per quanto possa sembrare banale il concetto, è impossibile non definire ‘da romanzo’, scandita com’è da svolte improvvise, dovute certo all’incalzare della storia (le due guerre mondiali, il crollo dell’impero asburgico, la Resistenza, le persecuzioni razziali) ma anche, e forse in misura ancor più decisiva, agli incontri che il caso (il destino?) gli procura. Dopo Wartha, ecco Gaetano Ballardini, conosciuto nel 1913, quando Korach si è appena trasferito a Faenza dove insegna fisica e chimica al locale ginnasio-liceo. E’ il classico incontro della vita per entrambi, ricordato più volte dagli stessi protagonisti e del tutto imprevedibile.
Secondo Gastone Vecchi, nipote di Ballardini e poi direttore dell’Istituto d’arte, che lo descriveva come assai sensibile al fascino femminile (e i 15 capitoli del suo romanzo autobiografico Un Dongiovanni maldestro, ognuno dedicato ad un diverso incontro amoroso, ne forniscono un’ indubbia conferma), Korach era giunto infatti a Faenza per ragioni squisitamente sentimentali, impersonate da una giovane insegnante di scienze da lui conosciuta all’università di Padova5 dove, per due anni, era stato assistente del prof. Pianebianco all’Istituto di Mineralogia.
In ogni caso Ballardini scopre con crescente entusiasmo di avere davanti un allievo di Vinsce Wartha, il cui nome gli è ben noto per via di quei meravigliosi lustri iridescenti della Zsolnay, premiati in tutta Europa e presentati con grande successo anche all’Esposizione Torricelliana del 1908. C’è in effetti un carattere quasi di ‘necessità’ in questo incontro di due personalità diverse sotto molti aspetti, ma accomunate dall’ideale umanistico inteso come sintesi di arte e tecnica. Da questa consonanza nasce anche l’accordo sulla struttura da dare a quella scuola d’arte che doveva affiancare il Museo delle ceramiche. E’ Korach a raccontarlo, nel 1959: “Fu in quegli anni, presto diventati anni di guerra, che sviluppammo insieme ed elaborammo in tutti i particolari il piano della Scuola, del Laboratorio Sperimentale, nonché dei rapporti fra queste istituzioni ed il Museo ceramico. La Scuola non ancora statale fu iniziata già durante la guerra, e tale era l’entusiasmo che Ballardini riusciva a suscitare in tutti coloro che lo circondavano che, essendo in servizio a Roma, venivo a far lezione viaggiando di notte.”6
Nel frattempo è infatti scoppiata la prima guerra mondiale e Korach, dopo aver rifiutato la lettera di precetto giuntagli dall’Austria, prende la cittadinanza italiana e si arruola come volontario col grado di ufficiale di artiglieria, chiedendo ripetutamente di essere mandato al fronte. Per ragioni di opportunità, visto che è stato dichiarato disertore dagli austriaci e rischia quindi la forca in caso di cattura, è invece mandato a Bologna, in un ufficio dell’VIII Fortezza. Qui incontra Riccardo Bacchelli (il caso? Il destino?) e dà inizio ad un altro capitolo fondamentale della sua vita, in cui può finalmente soddisfare quella necessità di scrivere che, come confesserà nei suoi ultimi anni a Carmine Di Biase,“a me non pare una vocazione ma piuttosto un’abitudine o peggio: un vizio”. 7
Con la fine della guerra il ritmo delle sue attività diventa addirittura frenetico. Da un lato c’è la Scuola di Ceramica a Faenza, che nel 1919 diventa “Regia” e viene ufficialmente autorizzata come “corso tecnico complementare” annesso al Museo, dall’altro c’è l’avventura de “La Ronda” che inizia le sue pubblicazioni nello stesso anno.
Terminato il periodo pioneristico dei corsi serali, la Scuola assume la struttura di un corso diurno in cui, oltre alle materie più strettamente legate alla pratica, hanno largo spazio anche quelle di cultura artistico-letteraria e tecnologiche, fortemente caldeggiate da Korach. I punti di forza del progetto di Ballardini sono comunque costituiti dalle personalità di valore assoluto scelte per dirigere i diversi dipartimenti. Domenico Rambelli viene nominato insegnante di plastica e direttore artistico, in collaborazione con Anselmo Bucci cui è affidato il Laboratorio tecnico-pratico, mentre a Korach fanno capo i corsi d’indirizzo tecnologico e soprattutto il Laboratorio di ricerca che, in breve, diventerà un essenziale punto di riferimento per l’industria ceramica italiana.
La scelta poteva apparire azzardata sotto vari punti di vista: Rambelli era uno scultore che non si era mai occupato di ceramica, Bucci un artigiano geloso della propria autonomia e Korach il raffinato ingegnere-umanista che sappiamo. Eppure, nonostante gli intuibili contrasti anche caratteriali, questo mix potenzialmente esplosivo produsse, fino ai primi anni Trenta, non pochi capolavori assoluti della maiolica del tempo. Fin dagli inizi, del resto, l’adesione precoce al déco, la reintepretazione di stilemi persiani uniti a suggestioni di velluti rinascimentali, la ripresa di motivi neo-cretesi o tipici di Iznik filtrati attraverso il modello Arts & Crafts, la libera reinvenzione della ‘zaffera a rilievo’ gotica attuata da Bucci, in una parola tutto il repertorio decorativo elaborato dal team artistico, ha la sicurezza di poter contare sugli smalti compatti, le dorature impeccabili, i lustri, gli impasti e le cotture senza problemi messi a punto da Maurizio Korach.
Nel 1919, si diceva, prende il via anche “La Ronda”. Con lo pseudonimo di Marcello Cora, Korach è presente fin dal primo numero della rivista, ma il suo Ritorni inutili a inutili paesi viene consegnato quando la copertina col tamburino disegnata da Armando Spadini è già stata stampata. La mancanza del suo nome nella “Lista bloccata dei 7” darà origine a un rammarico così profondo che Korach ancora se ne duole in una lettera del 1972 a Carmine De Biase.8 Fino alla chiusura del 1923, la sua partecipazione alla rivista è comunque costante, sia come scrittore che come germanista.
Uno dei suoi compiti è infatti quello di tradurre i testi moderni che giudica più interessanti, contribuendo così a quell’apertura europea cui tende la rivista. E siccome, per dirla con Bacchelli, ogni intervento sulla letteratura tedesca nella Ronda spetta per competenza a lui “come a Cesare le Gallie”9 nel 1922 Korach viene mandato a Berlino per far conoscere nell’Europa del nord la giovane letteratura italiana, attraverso le sue traduzioni di Bacchelli, Cardarelli ecc. In quest’occasione conosce Hauptmann, Döblin, Kaiser, Flake, ed anche Thomas Mann che in Italia è pressoché sconosciuto e ancora non pubblicato. Korach ha già letto in tedesco, “con giubilo selvaggio” - come scriverà nel 1947 sull’”Illustrazione Italiana” - Morte a Venezia e Tonio Kröger, e questa circostanza contribuisce certo all’amicizia che nasce fra i due. Sarà questa la ragione per cui, con un vero e proprio scoop editoriale, il saggio su Goethe e Tolstoi di Mann esce prima sulla Ronda nella sua traduzione-interpretazione che in Germania nell’originale, grazie al manoscritto consegnatogli dallo stesso autore.
La sua partecipazione alla rivista, analizzata in profondità da Carmine Di Biase, abbraccia un’infinità di argomenti. Si va dalle recensioni di opere letterarie edite in quegli anni (interessante, in particolare, quella del Goethe di Croce in cui Korach “pur non condividendo né il ritratto che il filosofo fa del poeta tedesco, né le conclusioni a cui perviene” rende omaggio però il livello europeo dell’autore, il cui “merito forse più insigne è quello di avere aperto l’era di un’Italia europea”10 alle traduzioni, alle note su temi d’attualità.
Nei suoi interventi da scrittore Korach si esprime in una prosa ricca ma lontanissima da ogni sospetto di dannunzianesimo, in linea col classicismo disinvolto e moderno propugnato dalla Ronda e in polemica coi futuristi chiassosi e ineleganti di cui critica anche le collusioni ideologiche e politiche col nascente fascismo. Il suo riferimento è piuttosto il Leopardi delle Operette Morali e dello Zibaldone, in perfetta sintonia con i “rondeschi” che lo individuavano come modello. Un atteggiamento non solo formale, questo, ma da inquadrarsi in quel diffuso rappel à l’ordre che nel primo dopoguerra caratterizza anche l’arte, con l’abbandono delle avanguardie prebelliche.
La sua duplice natura di scienziato e letterato gli crea, comunque, qualche incomprensione all’interno della redazione. Quando, ad esempio, Korach scrive Sul principio di relatività 11 Bacchelli esprime delle riserve, non sul saggio in sé, che gli piace, ma sull’opportunità di mescolare argomenti così diversi sulla rivista, perché, spiega, “Di scienza noi possiamo occuparci soltanto ironicamente, e solo per quel tanto che rappresentano la scienza e la filosofia, fatti e conseguenze umane e storiche.”
Affermazione che non può assolutamente trovare concorde Korach che, anche in campo ceramico, considera imprescindibile il binomio di “arte” e “tecnica”, non solo per la produzione moderna ma anche per quella rinascimentale, il cui “valore artistico appare…strettamente connesso col fatto che quella ceramica, allora, era all’avanguardia di quella europea anche tecnicamente, per quell’incessante e affannosa ricerca di metodi nuovi dei ceramisti di quel tempo, che aveva invasata gli uomini del rinascimento in tutti i campi.”12
In campo tecnologico la sua attività si fa nel frattempo particolarmente significativa. E’ merito suo se in Italia per la cottura della ceramica si abbandonano le fornaci a carbone o a legna, sostituendole con forni elettrici. Nel 1927 Korach ne costruisce un prototipo all’Istituto d’arte di Faenza, basandosi su quanto conosce dei forni già adottati da tempo negli U.S.A. e anche in Inghilterra, dove ha modo di vederne (senza poterlo però esaminare) uno nella sede Etruria di Wedgwood. Allora, con l’aiuto della S.C.E.I., casa costruttrice di Novara, riesce in pochi mesi a far funzionare un forno industriale, il primo costruito interamente in Italia. Ne scrive (con comprensibile orgoglio) due anni più tardi, quando il forno da 1 metro cubo - fatto a muffola e quindi adatto per le maioliche e il terzo fuoco delle porcellane - è in uso già da mesi e arriva a 1000-1050°C. per una cottura della durata di 10 - 16 ore che, grazie all’isolamento perfetto, può sopportare senza danni anche interruzioni di corrente di parecchie ore.13
La chiusura della Ronda nel 1923, non interrompe comunque l’attività letteraria di Korach che, dimostrando una capacità di lavoro paragonabile solo alla vastità dei suoi interessi, continua a pubblicare racconti, favole, poemetti, note di costume e scritti polemici su quotidiani e periodici di vario tipo, come “L’Italiano”, “L’Esame”, “Il Resto del Carlino”, “Espero”, “Arti Plastiche”, “Circoli”, “Quindicinale”e perfino “Famija Piemontèisa” (cui collaboravano in quegli anni anche Bacchelli e Sibilla Aleramo). In questi scritti a carattere umanistico si affida generalmente al suo alter ego Marcello Cora, o ad altri noms de plume come Claudio Vasari, Samuele Tredici, Sigurd Hartmann, Omega, Carlo Martello, secondo un desiderio di non apparire che si configura in una vera e propria ‘latitanza letteraria’, riservando a “Faenza”, al “Corriere dei ceramisti” o al “Giornale di chimica industriale e applicata” gli articoli di tecnologia e di storia della ceramica che firma, invece, come Maurizio Korach.
Gli argomenti riguardano spesso le tematiche artistiche. In Considerazioni passionali intorno all’arte pubblicato nel gennaio del 1924 sulla rivista milanese di cultura e arte “L’Esame”, ad esempio, Korach si addentra da artista nelle complessità dell’estetica, muovendosi con disinvoltura fra Leopardi, Baudelaire, Fichte, Nietzsche, in una prosa ‘d’arte’ straordinariamente ricca dal punto di vista espressivo – e talvolta così densa da giustificare il giudizio di “scrittore non di rado difficoltoso” avanzato da Bacchelli14 – con la quale affronta le problematiche più intricate, fino ad analizzare l’ambiguità di termini come natura e imitazione.
Il tema ricorrente appare soprattutto la necessità di una dimensione europea, che è agli antipodi dell’Italietta fascista, secondo una consapevolezza nata dall’adattamento a culture e lingue diverse, sperimentato nella vita forzatamente nomade della sua infanzia e adolescenza, e sfociata poi in una giovinezza desiderosa di viaggiare e conoscere: “Di qua e di là per quest’angolo o quello dell’Europa, anche noi entrammo a far parte dell’inquieta repubblica dei girovaghi. Eravamo giovanilmente persuasi di fare esercitazioni di palestra, da grande esploratore. Il Mondo era allora la cosa più interessante del mondo”.15
Nel 1932 Korach se ne va da Faenza. La situazione è ormai diventata insostenibile in una città dove per due volte viene picchiato dai fascisti locali, cui è nota la sua adesione al partito comunista (fonte, pare, di liti furibonde con Rambelli, mussoliniano convinto, oltre che dotato di temperamento sanguigno), e costretto a bere l’olio di ricino. Non c’è più spazio per lui neppure all’Istituto d’arte la cui finalità, ormai, “non è più esclusivamente la creazione di ceramisti d’alto livello professionale, ma anche quella di formare i Balilla e gli Avanguardisti del nuovo regime che vede nella struttura scolastica un formidabile strumento di organizzazione del consenso”16.
E forse si potrebbe anche supporre che il cambiamento stilistico che si fa strada nella produzione scolastica dal 1933-34, con l’abbandono della raffinata reintepretazione di altre epoche e civiltà in favore di un naturalismo semplificato, non sia solo dovuto al desiderio di rappresentare con uno stile “sanamente moderno” quella “aderenza alla vita e all’opera rigeneratrice del Fascismo”, ben interpretata dalla “potenza di sintesi” di Rambelli, di cui parla Liverani17, ma rappresenti una necessità per la scuola, orfana del suo direttore tecnico.
Con il consolidarsi del regime, la sua vita assume toni sempre più avventurosi. Dopo le botte e olio di ricino di Faenza, scampa addirittura ad un attentato a Bologna, avvertito all’ultimo momento da un amico che sente per puro caso due fascisti progettarne l’attuazione.
E’ facile, del resto, immaginare come dovesse risultare intollerabile a molti l’atteggiamento di un giudeo che, non solo non si rendeva invisibile, ma non faceva mistero delle sue idee politiche e osava perfino scrivere delle satire su Mussolini. Delle due, pubblicate sotto uno dei tanti pseudonimi usati in quegli anni, l’ultima, Un’orgia marziale, è del 1936, a ridosso quindi delle leggi razziali e nel periodo di maggior consenso popolare verso il regime che aveva appena trasformato l’Italia in un impero coloniale.
Molti anni più tardi, nel romanzo memorialistico La nostra faida con Mosè, alla data dell’ 8 novembre 1968, Korach individuerà le radici della sua ribellione ad ogni sopraffazione proprio all’interno della sua ascendenza ebraica, riconoscendovi un atteggiamento tipico della sua casata, così antica da essere imparentata con Mosè contro cui il capostipite Core – da cui deriva il cognome Korach – capeggiò “la più famosa e tragica ribellione della Bibbia”.18
D’altronde la sua tempra di hombre verticàl appare in pieno anche in un episodio riportato da Eros Biavati, relativo alla prima aggressione a base di olio di ricino, che avvenne proprio nell’atrio dell’Istituto faentino. “Il maestro ingoiò, oppresso dall’imposizione violenta, la disgustosa bevanda oleosa, poi recatosi subito nel Laboratorio Sperimentale al piano superiore, bevve un liquido, da lui preparato sul momento, certamente un efficace neutralizzante degli effetti del ben conosciuto purgante vegetale e come se niente fosse accaduto continuò tranquillo a svolgere le sue mansioni d’insegnante, dimostrando agli allievi stupefatti la sua imperturbabile superiorità nei confronti di chi ricorreva a queste incivili forme di violenza antidemocratica.” 19
Nel 1938, in seguito alle leggi razziali, Korach perde la cattedra di “Macchinari e Impianti Chimici” presso la facoltà di Chimica Industriale dell’Università di Bologna, che deteneva dal 1925. Nuovamente “girovago”, e ancora non per sua scelta, lascia l’Italia e lavora come perito chimico in Inghilterra e in Svizzera.
Allo scoppio della II guerra mondiale rientra clandestinamente in Italia, questa volta come “signor Bellini” e, nonostante le circostanze che possiamo immaginare abbastanza complicate, riesce comunque a continuare le sue traduzioni di autori inglesi e tedeschi e a partecipare alla Resistenza. Salvato una prima volta dalla fucilazione per una serie di fortunate coincidenze, viene arrestato nel 1944 a Milano, e imprigionato nel carcere di san Vittore, dove resterà fino alla Liberazione. Subito dopo gli viene affidata la direzione dell’Ufficio di Cultura del P.C.I. e della Casa di Cultura milanesi.
Di nuovo la sua attività diventa concitata, perché è riassunto dall’Università bolognese, riallaccia i contatti con Faenza e riprende anche a tempo pieno anche la sua attività di pubblicista, sempre impegnato sui due fronti, umanistico e scientifico. La collaborazione a “Faenza” resta invariata, cambiano invece, in linea con la sua nuova attività politica, i nomi degli periodici su cui scrive: “L’Unità”,”Avanti!”, “Il Lavoratore”, “Milano sera”, “La lotta del Combattente”, “La Voce di Milano”. I temi sono ora prevalentemente di carattere sociale, in linea con il suo convincimento, espresso fin dai tempi della Ronda che la vita non abbia senso se non è impegnata. Emergono con maggiore evidenza in questi scritti, per dirla con le parole di Bacchelli, “le ataviche scaturigini bibliche del suo sentimento umanitario ma ben anche umano, trepidamente, affannosamente umano e politico ”20 e anche se gli argomenti si riferiscono alla cronaca di quei giorni, non cambia lo stile, sempre “alto”.
Nonostante tutti i suoi sforzi, Korach non riesce però a creare il grande Istituto di ricerca sui silicati cui pensava fin dal primo dopoguerra ed è facile supporre che sia anche questa una delle ragioni che lo spingono ad accettare nel 1952 l’invito del governo ungherese, che gli prospetta eccellenti possibilità dal punto di vista professionale. Tornato a Budapest, infatti, fa nascere l’Istituto Centrale di Ricerca per i materiali da Costruzione, di cui è anche direttore dal 1953 al 1957. Dal 1960 al 1968 è impegnato invece con l’Istituto di Ricerca di Chimica industriale, da lui fondato e diretto e diventa anche il terzo successore di Wartha nella cattedra di Chimica industriale all’Università di Budapest.
In tutti questi anni, in cui pone le basi fondamentali della tecnologia chimica ed elabora modelli matematici per descrivere i processi chimici, mantiene comunque i contatti con l’Italia, dove torna frequentemente per rivedere gli amici e per ragioni di lavoro, partecipando anche alla fondazione del C.N.R. faentino e continuando la sua collaborazione con “Faenza”.
Il problema dell’estetica, affrontato dalla visuale privilegiata della ceramica che, a suo giudizio, si colloca al crocevia fra le arti figurative (plastica, pittura) e quelle applicate (oggetti d’uso e ornamentazioni architettoniche), continuerà sempre ad appassionarlo. Ancora nel 1966, quando è all’apice della sua fama come scienziato e alla vigilia delle due lauree honoris causa conferitegli dal Politecnico di Budapest e dall’Istituto di Tecnologia di Leningrado, ne scrive in un articolo dedicato“con affetto filiale” a Faenza, in cui si mostra aggiornato al punto da poter intervenire con autorevolezza nel dibattito (allora assai vivo) sull’estetica di Lukács. La sua mentalità sistematica, unita ad una lunga familiarità con ogni aspetto della ceramica lo induce a ritenere del tutto insufficiente un giudizio meramente contenutistico dell’arte, spingendolo ad elaborare, sulla scorta di una metodologia non solo dialettica e scientifica ma aperta all’estetica sperimentale, una “griglia” di otto punti principali attraverso i quali analizzare ogni singola opera.21
L’elenco dei 207 articoli su argomenti scientifici stilato dalla vedova Éva Korach 23, mostra tutta l’ampiezza dei suoi studi tecnologici che, in molti casi, hanno portato ad applicazioni pratiche di grande efficacia. Ricordiamo, fra gli esempi più significativi, la costruzione del primo forno elettrico per la ceramica di cui si è già detto, seguito nel 1928 da quello “a tunnel”, la cottura “a sandwich”, la realizzazione di un forno “a passo pellegrino” per vasellame di terraglia forte, lo sviluppo delle porcellane cordieritiche a basso coefficiente di dilatazione adatte alla produzione di vasellame resistente al fuoco, la cui ricerca portò agli speciali impasti per isolatori ad alto voltaggio, utilizzati per le candele d’accensione della Maserati, e anche la fabbricazione di piastrelle esagonali in gres rosso, realizzata nei primi anni Venti a Castelvetro di Modena.24
In una vita come la sua, costituita da una fitta trama di incontri umani ed attività professionali che s’intrecciano fra loro, spicca l’avventura ventennale della porcellana magnesiaca prodotta dalla SIMAC di Castelli, iniziata nel 1920 insieme all’”amico fraterno” Giovanni Fuschi - un medico abruzzese discendente dalla dinastia ceramica dei Gentile cui l’unisce, cela va sans dire, la comune radice umanistica - e ripercorsa in pagine cariche di sentimento e di dettagliati particolari tecnici.25
Un caso a parte è anche l’elaborazione della tecnica kervit, brevettata nel 1957 da Korach insieme al suo ex-studente Antonino Dal Borgo, con cui la Ceramica Veggia produsse una sottilissima piastrella d’avanguardia - ottenuta per colaggio di 4 differenti strati e cotta in monocottura – che non ebbe allora il successo che meritava (soprattutto, pare, per la mancanza di adesivi adeguati), ma che da qualche tempo sembra interessare di nuovo l’industria ceramica.26
Il “vizio” della scrittura, cui non sa rinunciare nonostante tutti gli impegni professionali, è all’origine di una sterminata bibliografia letteraria22 in cui non è sempre facile orizzontarsi e che vede Korach alternare gli interventi su periodici e riviste alla stesura di favole, scritti autobiografici (oltre ai già citati Un Dongiovanni maldestro e La nostra faida con Mosè, anche Il figliuol prodigo e Il volto umano di Claudio Vasari), romanzi storici (Metelca, ambientato nella Milano napoleonica) drammi biblici (Endor, Giuseppe il Salvatore), non tutti pubblicati e in gran parte sconosciuti anche agli addetti ai lavori.
E forse quando Bacchelli fa riferimento a una vita piena ma “non certo priva di amarezza … anche per la nobiltà dei suoi ideali e delle sue speranze e dei suoi desideri d’uomo, e d’uomo di lettere e d’uomo di scienza”27, nel ricordare l’amico di una vita ad un anno dalla sua scomparsa, ha in mente i suoi progetti in campo ceramico mai realizzati, come l’Istituto di ricerca dei silicati o la creazione di un corso universitario di tecnologia ceramica (che nascerà a Faenza solo nel 1999) ma soprattutto la scarsa considerazione ricevuta in campo letterario. Di questo Korach parla apertamente nelle sue lettere del 1971-75 a Carmine Di Biase, lo studioso che curerà la pubblicazione di alcuni suoi inediti e scritti per “La Ronda”. Lui stesso attribuisce alla sua duplice nazionalità questa emarginazione critica: troppo ungherese per trovare posto in una storia della letteratura italiana e troppo italiano per essere preso in considerazione in Ungheria. Ma è un rammarico che non diventa mai malanimo verso qualcuno. Anche la notizia della cittadinanza decretata nel 1975 dal Comune faentino, che lo raggiunge a cinque giorni dalla morte, quando ha già 87 anni, lo riempie di gioia senza neppure un accenno di recriminazione verso questo riconoscimento che, è spontaneo commentare, avrebbe meritato di ricevere ben prima.
In effetti, a leggere i suoi scritti, viene il fondato sospetto che, sotto la lucida ironia, il distacco da scienziato – che ben s’accorda con l’aspetto di impeccabile gentiluomo mitteleuropeo dallo sguardo chiarissimo e penetrante restituitoci dalle sue foto - si nascondesse una natura passionale, capace di affetti tenaci e di generose indulgenze. Nonostante la durezza dei tempi Korach non permette mai all’ideologia di avere il sopravvento sugli affetti. Il suo giudizio su Ballardini, ad esempio, non appare minimamente diminuito dalla contiguità di quest’ultimo col regime fascista, al massimo adombrato in quei “contrasti a volte fortissimi” cui allude, pur sottolineando che la loro fin dall’inizio fu “l’unione di due spiriti gemelli, determinata da un’affinità elettiva di tipo goethiano”.28
Altissima, del resto, rimane sempre anche la sua stima nei confronti degli amici rondisti, nonostante sapesse delle richieste di sovvenzione avanzate da Barilli e Cardarelli a Galeazzo Ciano e non potesse ignorare i giudizi politici di Ungaretti che, ancora nel 1942, proclamava apertamente la sua fede nella vittoria dell’Asse, dichiarando di preferire un’Italia sottomessa a Hitler piuttosto che a Stalin29. La fedeltà all’amicizia, insomma, sembra sempre per lui il valore più importante, unita alla consapevolezza che, come scrive più volte Korach stesso, citando quanto affermato da Cardarelli nel preambolo del primo numero de “La Ronda”, “occorre essere uomini prima che letterati” (o scienziati, o politici).
NOTE
1 Maurizio Korach, Vincenzo Wartha Fondatore della Tecnologia Scientifica Ungherese in “Faenza” a. LIV (1968), pp. 9-13
2 ibidem
3 Ludwig gioca a bocce con le teste dei geni, in “Milano Sera” 24-25 giugno 1946, p. 25
4 Ritorno ai ritorni, in Marcello Cora, Il figliuol prodigo, pref. di Lorenzo Montano, Genova, Degli Orfini, 1933, p. 44
5 Dichiarazione fatta in una conversazione con la scrivente, nel 1988-89, e riportata anche in Maria Grazia Morganti, Domenico Rambelli e la ceramica alla Scuola di Faenza, in Gian Carlo Bojani – Maria Grazia Morganti (a cura di), Domenico Rambelli e la ceramica alla Scuola di Faenza dal 1919 al 1944. Anselmo Bucci e la ceramica d’atelier, Firenze, Centro Di, 1989, p. 15
6 Commemorazione del prof. Gaetano Ballardini, in “Faenza” a. XLV (1959), p. 56
7 Carmine Di Biase, Bacchelli-Cardarelli-Korach. Lettere inedite (1919-1975), Salerno, Edisud, 1990 p. 33
8 ibidem
9 ibidem
10 in “La Ronda”, genn-febbr 1921, scheda 311 p. 33
11 in “La Ronda” n.12 del 1921
12 Necrologio di Fedele Cappelletti in “Faenza” a. VIII (1920), pp. 31-32
13 Forno elettrico per la cottura delle ceramiche, in “Faenza” a.XVII (1929), pp. 22-28, 48-52
14 Prefazione, in Di Biase, Maurizio Korach cit., p. 9
15 Ritorno alle partenze in Marcello Cora, Il figliuol prodigo cit. p. 42
16 Maria Grazia Morganti, op.cit., p. 22
17 Giuseppe Liverani, Il Regio Istituto per la Ceramica di Faenza, Firenze 1941, p. 65
18 Carmine Di Biase, Convitati di pietra: saggi rondeschi e inediti di M. Korach, Salerno, Edisud 1989, p. 33
19 Eros Biavati, Il mio Maestro, Maurizio Korach, in Scritti di Maurizio Korach, Faenza Editrice, 1977, p. 32
20 Ricordo di Maurizio Korach, in “Corriere della Sera”, 5 febbraio 1976
21 I maggiori problemi dell’estetica ceramica, in “Faenza” a. LII (1966), pp. 75-82
22 cfr. le esaurienti opere di Carmine Di Biase citate in bibliografia
23 cfr. Gastone Vecchi, Maurizio Korach nel centenario della nascita 1888-1988,Faenza editrice, 1988, Appendice
24 www.castelmeteo.it/storia_fornace/storia.htm)
25 La porcellana di Castelli, in “Faenza” a. LVIII (1972), pp. 44-48
26 www.fiorano.it/Turismo/cultura/InnovazioneTecnologica.shtn
27 in “Corriere della sera”, 5 settembre 1976
28 Commemorazione cit., p. 104
29 cfr. Giovanni Sedita, Gli intellettuali di Mussolini. La cultura finanziata dal fascismo, Firenze, Le Lettere, 2010
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Carmine Di Biase, Maurizio Korach (Marcello Cora). La Ronda e la letteratura tedesca, Società Editrice Napoletana, 1978
Carmine Di Biase, Convitati di pietra: saggi rondeschi e inediti di M. Korach, Salerno, Edisud 1989
Carmine Di Biase, Bacchelli-Cardarelli-Korach. Lettere inedite (1919-1975), Salerno, Edisud, 1990
Giorgio Liuti (a cura di), Storia letteraria d’Italia, tomo 2: dagli anni Venti agli anni Ottanta, Piccin, 1993, p. 694
Agostino Trombetti - Franco Magelli “Maurizio Korach”, in Domenico Mirri – Stefano Arieti (a cura di), La cattedra negata. Dal giuramento di fedeltà al fascismo alle leggi razziali nell’università di Bologna, Clueb, 2002
Gastone Vecchi, Maurizio Korach nel centenario della nascita, Faenza Editrice, 1988