E’ soprattutto di notte che, all’Elba, si sente vivere il mare. Quando i rumori del traffico si smorzano e dal basso arriva con le onde un vento profumato di fiori, spezie e salsedine che aiuta gli uomini a chiudere gli occhi e riposarsi dalla fatica di vivere. Ma se qualcuno, colpito da insonnia d’amore o dalla nostalgia struggente di viaggi mai intrapresi, restasse sveglio a guardare verso il largo, riuscirebbe certo a vedere coi suoi occhi lo spettacolo che Tonino Negri ha colto.
Un mondo di acque tranquille ma pieno di sorprese, fra balene che cantano, cernie a dondolo, pesci acrobatici color turchese che s’impilano con un guizzo su palloni sferici per formare arditi totem balneari e sirene un po’ sovrappeso, dalle chiome arricciate come capitelli ionici, che vivono in placida simbiosi col pesciolone che le ospita ingoiandole a metà.
Anche la luna partecipa a questa vita nata sotto il segno di una divinità bonaria, che ha i tratti indecifrabili di quel Buddha, convenientemente assorto ed enigmatico nell’ osservare con distaccata benevolenza un microcosmo privo di asprezze, dove nemmeno i rovi hanno le spine e tutto è governato da un’armonia spontanea in cui non sono previsti bruschi cambiamenti di piani, tanto meno spigoli o zig-zig.
Niente di artificioso o luccicante, solo argilla e ingobbio chiaro, tanto che sembra quasi che sia stata l’azione congiunta del vento e dell’acqua (e non la sapiente pazienza dell’autore) a levigare perfettamente queste forme tondeggianti che hanno l’essenzialità e la stessa concisa ironia di un haiku, capace di riassumere un mondo di sensazioni nel giro di poche sillabe.
Perfino Galla Placidia, l’altera figlia di Teodosio il Grande dal temperamento guerriero che regnò con ineguagliato splendore a Ravenna, nelle mani di Negri si trasfigura in un’immagine di donna solida e carnale, con le braccia arcuate sui fianchi in una posa che richiama certo i canòpi etruschi ma fa di lei anche una sorta di imperiale arzdòura, la mitica matriarca romagnola.
E’ la figura femminile, del resto, a dominare questo mondo di acque di fonte e di mare. Donne/nassa dal corpo a rete traforato come una veilleuse del Settecento, donne/cariatidi che sorreggono intere isole simili a dolci di marzapane posandole su piatti da portata o tengono la luna ben alta sulla testa, come se temessero di perderla nel gorgo di un torrente.
Anche i Cinque Continenti hanno l’aspetto di donne dalle lunghe braccia, ben tornite ed assorte come antichi Haniwa, le statue che i giapponesi disponevano attorno alle tombe perché le proteggessero dagli spiriti malvagi. Sotto la loro rigida compostezza da divinità arcaiche, però, nascondono un carattere accomodante ed ospitale, aperto all’integrazione col mondo circostante, disposte come sono a farsi invadere dalla natura che, qui al Cernia, occupa qualsiasi spazio anche minimo sotto forma di esuberanze vegetali d’ogni genere, e perfino a diventare punti di ritrovo per i numerosi uccellini del parco botanico.
Una vena scanzonata più o meno avvertibile, percorre comunque tutta l’opera di Tonino Negri, emergendo con malizia nelle giocose “reliquie”: il naso di Pinocchio, la cui autenticità è garantita dalla leggendaria sincerità del suo proprietario o la patatina “di” San Carlo, per un gioco di parole che ha l’ innocente irriverenza di uno sberleffo infantile.
Anche il sorridente minimalismo zen di certe piccole plastiche, ideali per una meditazione tascabile e pronta all’uso, affiora chiaramente in quei Passaggi che, si direbbe, un Pollicino molto preoccupato di non trovare più la via del ritorno ha segnato con un sentiero serpeggiante fitto di ciottoli colorati, o nella coppia di colombe “bizantine” che si abbeverano alla Fonte finalmente all’ aria aperta, stanche di aver atteso inutilmente Galla Placidia nel suo mausoleo per un millennio e passa.
Un filo sottile, un rivolo d’acqua, anzi, lega fra loro tutte queste creature, dal Navigante incoronato da un arc de triomphe ittico, che reca in sé le distese marine attraversate, al Mago d’acqua che trasforma il suo getto in un arcobaleno di ghiaccio, fino alla serie degli Acquaioli, distanti interi continenti ma affratellati, sembra, da un’identica fatica che li consuma fino a pietrificarne i tratti del volto e a rendere assai simili le loro figure, chiuse entro l’ovale rigido di un abito senza tempo né luogo.
A ben vedere, del resto, non è nient’altro che un acquaiolo in movimento anche quel Giocoliere del Marocco che è rimasto prigioniero del proprio gioco, letteralmente immobilizzato dalla sua stessa abilità, forse un monito ironico al lavoro dell’artista.
Ed è ancora l’acqua ad essere scelta, per un dono rituale al cielo, da quell’offerente chiuso in una sua privatissima dimensione atemporale, che si situa non caso al confluire dei due ruscelli del Cernia, luogo magico per eccellenza, fonte di vita e di energia.
A questo punto si capisce come mai il luogo possa costituire una sorta di lussureggiante terra promessa, dopo tanto peregrinare, per tutte quelle arche panciute e compatte che hanno trovato qui il loro personale Ararat di pietra o di argilla. Perché l’arte, si sa, è soprattutto gioco e illusione, e quindi un otre bucherellato può senza sforzo trasfigurarsi in un firmamento, una lampada diventare una scenografia deserta nell’attesa di un dramma che forse si è già compiuto e l’Arca-lago rappresentare un luogo dell’anima, in cui sarebbe così confortante pensare di potere essere accolti in occasione di un sempre meno improbabile diluvio prossimo venturo.
MariaGrazia Morganti