Fin dal 1280 è testimoniata a Deruta una produzione di maiolica verde - bruna non soltanto per uso locale, ma addirittura esportata a Perugia e ad Assisi[1]. Essa si distingue da quella orvietana, più famosa, per un gusto decorativo semplice in cui prevalgono ornati vegetali e geometrici, come avviene negli altri centri dell’Umbria settentrionale, ad esempio Perugia. E’ probabile che queste tipologie tardo-medievali di maiolica, assieme a una produzione abbondante di terracotta ingobbiata e graffita, siano durate a lungo, anche nella prima metà del XV secolo. E’ infatti solo a partire dalla seconda metà del secolo che vi è un completo rinnovamento. Inoltre la città aumenta la propria importanza come centro ceramico, specializzandosi nella maiolica e sostituendosi gradualmente con le sue officine alla stessa Perugia. Assume cioè un ruolo simile a quello che Montelupo occupò nei confronti di Firenze. Capita sempre più spesso che gli artigiani derutesi abbiano bottega sia a Deruta che a Perugia, e acquistino la cittadinanza perugina per meglio smerciare i propri prodotti [2].
La produzione della seconda metà del Quattrocento è testimoniata da una grande quantità di documenti ma anche di frammenti di scavo, che hanno consentito di restituire a Deruta tutta una serie di tipologie tardo-gotiche spesso a torto ritenute di altri centri. E’ il caso, ad esempio, degli albarelli biansati con i manici a tociglioni e di tutta una quantità di vasellame sia d’uso che decorativo fra cui compaiono già i piatti da pompa dal retro scoperto o soltanto invetriato, con i fori di sospensione al piede per essere appesi. Il gran numero di vasi per uso farmaceutico, albarelli e vasi globulari spesso biansati, ha forme talvolta insolite, con caratteristiche anse a torciglioni, a nastro o a cresta, quasi ad imitare esemplari spagnoli, talvolta con piccoli draghi plastici applicati alla sommità.
[1] Nicolini 1986 pp.22,23
[2] Biganti 1992 pp. 68-69
La tecnologia e l’evoluzione delle forme e degli ornati subiscono un’accelerazione con la fine del secolo XV, che per la ceramica è il momento in cui si avvertono le novità del Rinascimento. Comincia infatti l’inserimento graduale di motivi geometrici a fasce di spirito ormai rinascimentale. Poi, con l’avvento del nuovo secolo, ecco che viene introdotto con decisione tutto il repertorio classico di grottesche, ghirlande, teste imperiali e trofei che il Rinascimento attinge dall’antichità e fa proprio.
E’ il momento del Petal-back, così chiamato dal Rackham per il ricorrere del motivo a petali sui retri delle forme aperte, ma riconoscibile anche in loro assenza, ad esempio nelle forme chiuse, per la particolare stilizzazione e disposizione dei motivi decorativi e per le inconfondibili tonalità di colori[1].
Contemporaneamente si diffonde il lustro, che determina la fama della maiolica derutese in tutto lo stato della Chiesa, e che perdura almeno fino a tutto il secolo XVII[2].
Questa tecnica di origine islamica, usata in Mesopotamia fin dal IX secolo, permette di ottenere sulla maiolica effetti di metallizzazione, soprattutto dorata. Diffusosi in Spagna con l’invasione araba e denominato Obra de Melicha dal nome della città di Malaga, che ne fu il principale centro di produzione per i secoli XIII e XIV, il lustro dorato conferiva alla ceramica spagnola un aspetto lussuoso e decorativo che la rese estremamente richiesta in tutta Europa ed anche in Italia.
[1] Rackham 1915 p.28-35
[2] Fiocco - Gherardi 1994 a, pp.37-38.
Nella seconda metà del secolo XV la tecnica venne sperimentata in molti centri italiani, tra cui Pesaro e Faenza, ma si affermò stabilmente soltanto a Deruta e Gubbio, che ne fecero una vera specialità. Le maioliche venivano cotte una prima volta, poi smaltate, decorate e cotte nuovamente a 940° circa. Il decoratore aveva però l’avvertenza di lasciare bianche le parti destinate al lustro, formato di ossidi di argento e di rame in varie proporzioni mescolati ad ocra rossa o gialla e ad aceto. L’impasto veniva poi applicato a pennello, e l’oggetto nuovamente cotto a bassa temperatura (circa 620°) in presenza di fumo. Nel corso di questa terza cottura gli ossidi si riducevano e ritornavano allo stato metallico, depositandosi sulla superficie smaltata con effetti di oro, rosso, bruno a seconda delle proporzioni iniziali dei componenti. La cottura del lustro richiede un forno speciale detto muffola, le cui pareti forate permettono al fumo di circolare liberamente, sottraendo ossigeno ai pigmenti. Usciti dal forno, gli oggetti debbono essere politi, cioè lucidati con pezze di lana ed acqua acidulata per asportarne la crosta terrosa. Si tratta quindi di un procedimento complesso, che richiede grande abilità tecnologica e una profonda, quasi alchemica conoscenza delle trasformazioni dei pigmenti nella fornace.
A Deruta la scoperta del lustro e il contemporaneo Petal-back appaiono legati all’espandersi di una singola famiglia, quella dei Masci, discendenti di Mascio di Vannuccio, e alla comparsa della famiglia Mancini[1]. In ogni caso gli esemplari policromi e quelli a lustro procedono di pari passo, prodotti dalle stesse botteghe ed eseguiti dai medesimi decoratori. Questo fatto appare evidente dalla documentazione di scavo delle antiche fornaci, in cui frammenti a petali e a lustro vengono ritrovati insieme[2], ed è confermato dal più famoso corredo farmaceutico petal -back derutese, contrassegnato da una testa di moro e datato 1501 e 1502, le cui brocche di identica forma sono sia policrome che a lustro [3] . Caratterizza la decorazione a lustro dei primi anni del Cinquecento il motivo a denti di lupo, mentre la maggior parte delle altre decorazioni è comune sia a lustro che in policromia, compresa la tipica suddivisione delle tese dei piatti in scomparti che richiama le metope e triglifi del fregio dorico (e che un tempo veniva così denominata), o l’abitudine di racchiudere la decorazione principale delle forme chiuse entro una ghirlanda legata da nastri svolazzanti. E’ anche interessante notare come all’inizio il lustro derutese sia talvolta di un bel rosso ramato, mentre in seguito si attesta su un tono giallo - dorato cui viene accostato prevalentemente il blu, secondo l’usanza dei vasai spagnoli.
Se i vassoi da acquereccia, umbonati al centro, rarissimi nella maiolica italiana contemporanea, e il vasellame da farmacia rappresentano le forme più tipiche degli inizi del secolo, in seguito sono i piatti da pompa che divengono un vero e proprio emblema della produzione derutese.
[1] Biganti 1987 p.214-220
[2] Fiocco - Gherardi 1983 p.90-92.
[3] Rackham 1915 p.34
Creati per essere appesi, forati al piede e decorati solo nella parte anteriore, questi inconfondibile scodelloni a tesa larga diventano un po’ il cavallo di battaglia dei vasai derutesi, e uno dei generi più richiesti. Hanno spesso soggetti importanti : stemmi nobiliari, immagini di eroi o di santi, soprattutto Francesco e Girolamo. Più raramente assumono un tono caricaturale. Servono anche a celebrare le Belle donne, rappresentandole in forme stilizzate, nei modi della pittura umbra, col nome scritto entro un cartiglio. Un poeta cinquecentesco di Todi, Andreano da Concole, ne fornisce in un componimento poetico un lungo elenco al vasaio di Deruta, che solo può celebrarle degnamente[1]. Nella prima metà del secolo l’esecuzione è raffinata, di gusto peruginesco o pinturicchiesco, spesso a lustro. Nella seconda l’uso del lustro si dirada, i modi diventano più sintetici e grossolani, i colori più vivaci . I personaggi acquistano fisionomie dilatate, dalle membra grosse e dalle guance rotonde, mentre diventano frequenti le immagini di cavalieri, suonatori, cacciatori.
Malgrado l’abbondanza di documentazione di archivio, che ci ha lasciato i nomi di una grande quantità di vasai, la produzione rimasta è quasi completamente anonima . Così non ci è dato sapere chi abbia dipinto gli accuratissimi albarelli su fondo giallo, o chi sia il pittore dallo stile disinvolto e con il gusto della scena grottesca, autore dei vasi da farmacia caricaturali dai colori freddi e dall’ornato racchiuso entro una ghirlanda di pere e mele cotogne.
[1] Briganti 1903 p.13-15
Si è soliti qualche volta ricorrere a nomi di comodo per indicare alcuni pittori che emergono tra gli altri per l’eccellenza e la peculiarità dello stile. Abbiamo così, nel secondo - terzo decennio del secolo, il Pittore del Diruta Plate, così chiamato da un piatto a grottesche del Victoria and Albert di Londra, e quello del Pavimento di San Francesco di Deruta ( forse Nicola Francioli detto “Co”[1]), probabilmente il più grande che la maiolica derutese abbia mai avuto. La sua produzione comprende piatti da pompa e vassoi a rilievo di altissima qualità, ma il suo capolavoro è il pavimento da cui trae il nome, che reca la data (non sappiamo se reale o celebrativa ) del 1524. Piatti e mattonelle sono desunti sostanzialmente da due tipi di fonti : quella tardo - quattrocentesca dei cosiddetti Tarocchi del Mantegna, del Perugino e del Pinturicchio, e quella pienamente cinquecentesca di Raffaello e dei bassorilievi antichi tramite le incisioni di Marcantonio Raimondi. Accanto dunque alla persistente influenza della pittura umbra il maestro assimila il classicismo raffaellesco. E’ di particolare interesse il modo in cui egli utilizza le stampe, isolando le singole figure dal contesto, dando loro una evidenza monumentale e ponendole sullo sfondo di un tipico paesaggio umbro, con colline e castelli sulla sommità. Si tratta dunque di un modo tutto umbro di fare l’istoriato, in cui i modi eleganti e i colori freddi, che associano essenzialmente il blu al giallo - limone, richiamano la bicromia blu e lustro, di cui accettano la elegante bidimensionalità.
L’istoriato di tipo marchigiano, complesso e spazialmente ambientato, sembra introdursi grazie all’opera di Francesco Urbini. Reduce da Gubbio, dove era rimasto fra il 1531 e il 1536, il pittore esegue nel 1537 in Deruta un vassoio con le storie di Apollo, oggi al Victoria and Albert. E’ probabile gli appartengano altre opere derutesi, ma questa è l’unica che rechi la sua firma [2]. Subito dopo, nel 1541, inizia la sua attività come pittore di istoriati un membro della famiglia Mancini, Giacomo detto il Frate[3]. Segue , nel 1545, la serie basata sulle illustrazioni dell’Orlando Furioso di Gabriele Giolito de Ferraris, edito nel 1542, e su numerose altre incisioni fra cui quelle del Raimondi.
[1] Busti e Cocchi 2004 p. 157
[2] Mallet 1979
[3] Fiocco - Gherardi 1994 a, pp. 54-55
Contrariamente alla tradizione derutese, il Frate riporta la stampa nella sua integrità, pur inserendo nello sfondo i tipici monti conici sormontati da torri ed edifici, tanto frequenti nella maiolica derutese. La sua produzione supera la metà del secolo, e comprende almeno tre pavimenti: quello della Sagrestia dell’abbazia di San Pietro a Perugia (1563), quello della cappella Baglioni in Santa Maria di Spello (1566), e un terzo conservato nel Museo delle Arti e Mestieri di Bruxelles[1], probabilmente più tardo perché più chiaro di colori e più compendiario nel tratto. Essi sono tutti ornati a grottesche, che si stendono da una mattonella all’altra come un grande tappeto. Assieme a questa, che è la produzione certa perché documentata, ve n’è un’altra anonima ma riconoscibile stilisticamente, di piatti da pompa a lustro e policromi, di targhe, di vassoi. Capolavoro della seconda metà del secolo è il grande piatto col Parnaso del museo Alexis Forel di Morges , datato 1564[2]. Il Frate introduce nella maiolica derutese una grande vivacità espressiva, colori aranciati e squillanti, un segno rapido, efficace e disinvolto, che nei numerosi piatti da pompa probabilmente ascrivibili alla sua bottega diventa talvolta fin troppo sommario. Questa evoluzione verso modi abbozzati e veloci continua a Deruta, e trova nella maiolica secentesca un’evoluzione incredibilmente simpatica.
[1] Inv. 3696
[2] Inv. F 1, ripr. in Fiocco-Gherardi 1994a, fig.181 p.284