E’ indubbio che fin dall’inizio del secolo la città aveva una produzione ben nota e apprezzata. Infatti nel 1518 Isabella d’Este Gonzaga, marchesa di Mantova, commissionò una serie di piatti alle manifatture veneziane, e due anni dopo suo fratello Alfonso I d’Este si rivolse a Tiziano come tramite per fare eseguire a Venezia i vasi per la sua spezieria. Tuttavia è sempre apparso difficile collegare le notizie d’archivio con una produzione specifica, anche perché a Venezia fin dalla fine del Quattrocento lavoravano maiolicari provenienti da altri centri, che vi portavano abitudini decorative tipiche delle rispettive zone. Questo è fonte di incertezza, e di attribuzioni che oscillano fra un centro e l’altro, anche perché scarseggiano i pezzi marcati. E’ dubbio, ad esempio, se lo splendido pavimento nella cappella Lando in San Sebastiano (1510) sia opera di maestranze locali o sia stato invece importato da Pesaro. Più sicura è l’attribuzione a Venezia, a partire dal secondo decennio del secolo, di servizi decorati alla porcellana con stemmi di famiglie della Germania meridionale, soprattutto di Norimberga e Augsburg, commissionati in occasione di matrimoni. Erano decorati con motivi vegetali stilizzati tratti dalle porcellane cinesi, dapprima rigorosamente in bianco e blu e successivamente, verso la metà del secolo, anche con altri colori. Negli anni quaranta inizia una produzione anch’essa decorata in blu e bianco, ma su fondo lievemente azzurrato, caratterizzata da motivi più strettamente legati al repertorio rinascimentale, come trofei, grottesche, rami intrecciati e istoriati. Un Maestro Lodovico, che aveva la bottega in San Polo, firma un piatto a cerquate di questo genere nel Victoria and Albert Museum di Londra[1]. Un maestro Giacomo da Pesaro, con bottega nel quartiere di San Barnaba, iscrive il proprio nome nel fondo di una coppa con parete traforata e due busti maschili al centro, datata 1543[2], e su un piatto datato1542 a trofei e girali bianchi su fondo azzurro[3]. Un terzo esemplare da lui eseguito, un tempo nello Schlossmuseum di Berlino, è andato distrutto per eventi bellici. Oltre a Lodovico e Giacomo, la presenza di artigiani provenienti dal ducato di Urbino è testimoniata anche dal Piccolpasso, che ricorda con meraviglia le dimensioni eccezionali del forno veneziano di Francesco da Casteldurante. E’ naturale che essi abbiano operato in modi estremamente simili a quelli di casa: così un piatto con scena di battaglia del Philadelphia Museum è di tipologia assolutamente urbinate, ma sul retro è scritto che fu fatto a Venezia, in Castello, nel 1546. Anche il cosiddetto Mazo, autore di un piatto con un’allegoria dell’Eloquenza datato 1549, si è probabilmente formato a Urbino per poi passare a Venezia[4], mentre Baldantonio Lamoli detto il Solingo Durantino opera anch’egli per un certo periodo nel capoluogo veneto. Bisogna dunque concludere che alcuni degli istoriati correntemente attribuiti a Urbino o Pesaro potrebbero essere in realtà veneziani. Col termine istoriato si indica, nel lessico del Cinquecento, un particolare tipo di decorazione che consiste nel dipingere sulla superficie maiolicata vere e proprie storie, con personaggi, soggetto, ambientazione. A questo scopo generalmente il maiolicaro si serve di stampe, da cui trae gli spolveri, disegni il cui bordo è traforato. Attraverso i fori la polvere di carbone data con un tampone lascia sullo smalto ancora crudo la traccia che servirà da guida per il pennello. I soggetti derivano dapprima di incisori tedeschi (Dürer, Schongauer, Luca di Leida), poi italiani, con una spiccata preferenza per Marcantonio Raimondi, abilissimo nel riprodurre e divulgare i disegni di Raffaello. Un’altra fonte molto comune era costituita dalle illustrazioni dei libri, in particolare le Metamorfosi di Ovidio, ma anche Bibbie, poemi cavallereschi, testi di storia romana e di narrativa antica. A parte qualche sporadico esempio precedente, è soltanto dopo la metà del secolo XV che l’istoriato diviene un genere sempre più praticato, e a partire dal Cinquecento si afferma definitivamente, pur rimanendo un genere costoso, che richiedeva competenze particolari. Intere credenze istoriate venivano richieste dalle famiglie più nobili, non tanto per l’uso, ma per la gioia degli occhi, testimoniando con la loro incredibile varietà la cultura umanistica, storica o religiosa dei committenti.
Fra i pittori di istoriati veneziani il più prolifico è senz’altro Domenico ("Domenego"). Forse fu proprietario di bottega, forse soltanto un libero professionista della pittura su maiolica. Le sue opere firmate datano dal 1562 fino al 1568, tuttavia già in un documento del 1547 egli è menzionato, in un modo che sembra implicare una sua attività come pittore oltre che come vasaio[5]. La sua fama oltrepassò i confini di Venezia, dal momento che eseguì il corredo farmaceutico per l’ospedale di Messina in Sicilia. Le sue tipologie hanno influenzato profondamente la maiolica meridionale, sia quella siciliana che quella calabrese. Egli è famoso per piatti istoriati di grande complessità, soprattutto con soggetti biblici, e per vasi da farmacia molti dei quali a palla decorati con medaglioni entro i quali sono dipinti, con tratto veloce ed elegante, busti e profili maschili e femminili, circondati da foglie, fiori e frutta intensamente colorati. Il segno pastoso, la colorazione accesa hanno indotto a pensare che egli dipingesse anche su tela. Sicuramente era in contatto con l’ambiente dei pittori veneziani, di cui condivide la sensibilità cromatica. Domenico è l’ultimo grande nome della maiolica a Venezia. In seguito la produzione risulta meno riconoscibile, e sembra perdere di originalità, pur proseguendo anche nel secolo successivo.
[1] Inv. 4438-1858, in Rackham 1940, n.960
[2] Londra, Victoria and Albert, inv. C. 713-1936, in Rackham 1940 n.966
[3] Londra, Wallace Collection, inv. III E 217, in Norman 1976, n.148
[4] Mallet 1988 p.81-82
[5] Nel documento egli figura erede di un pittore veneziano (Concina 1975 p.136)